L'appello del mondo ebraico

Intervista a Stefano Levi Della Torre: “A Gaza una pulizia etnica, giustificare le stragi genera antisemitismo”

Levi Della Torre è tra i firmatari dell’appello di ebree e ebrei italiani che ha sollevato accese polemiche nella comunità: “Mostrarsi reticenti o falsamente unanimi nella giustificazione di crimini evidenti contro l’umanità è il maggior contributo da parte nostra all’insorgenza antisemita"

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

7 Marzo 2025 alle 10:00

Condividi l'articolo

AP Photo/Ariel Schalit
AP Photo/Ariel Schalit

Stefano Levi Della Torre, saggista, critico d’arte, è tra le figure più autorevoli, sul piano culturale e per il coraggio delle sue posizioni, dell’ebraismo italiano. L’Unità lo ha intervistato.

“Ebree ed ebrei italiani dicono: NO alla pulizia etnica. L’Italia non sia complice”. È l’appello firmato da oltre 200 personalità del mondo ebraico italiano. Lei è tra questi. Cosa l’ha spinto a prendere posizione?
Non è la prima volta che la rete “Mai indifferenti” prende pubblicamente posizione, ora insieme con LEA, “Laboratorio ebraico antirazzista”. La situazione continua a precipitare. Che c’è di nuovo? C’è che si è formato un asse tra il governo Netanyahu e la presidenza Trump per portare a compimento l’impresa di eliminare la questione palestinese rendendo invivibile la Palestina per i palestinesi: strage e devastazione indiscriminate nella Striscia di Gaza, pulizia etnica coi carri armati e squadrismo dei coloni in Cisgiordania. Non mi soffermo sulle informazioni che sono circolate in abbondanza, malgrado il tentativo di Israele di bloccarle uccidendo più di un centinaio di giornalisti. Mi limito qui a riassumere i punti che mi sembrano essenziali. Come è noto, la crisi è esplosa con l’invasione da Gaza, il grande pogrom e la presa di ostaggi attuati da Hamas e Jihad il 7 ottobre 2023. In quel giorno Hamas ha rotto un equilibrio armato che molti – tra cui l’importante scrittore israeliano Amos Oz – avevano denunciato: uno scambio tra la destra israeliana, il Likud, e l’organizzazione terroristica Hamas.

Su cosa concordavano le due parti?
Sul liquidare categoricamente la prospettiva “due popoli due Stati”: tra il fiume Giordano e il mare, un solo Stato, ebraico per la destra israeliana, islamista per Hamas, l’uno escludente l’altro. Che cosa offriva di fatto Hamas alla destra israeliana? La spaccatura dei palestinesi, nel suo antagonismo con le altre parti palestinesi, l’Olp e l’Anp. Che cosa offriva di fatto Israele a Hamas? La rappresentanza dei palestinesi a Gaza in alternativa alla parte palestinese in Cisgiordania. Dunque, tra la destra israeliana e Hamas sussisteva da anni quello che chiamerei un “antagonismo collusivo”, collusivo perché convergente da entrambe le parti nell’impedire la prospettiva di due Stati coesistenti, uno israeliano e uno palestinese. Un antagonismo collusivo, tempestato ma non rotto dai missili da Gaza e da incursioni sanguinose di Israele su Gaza. Del perché Hamas abbia voluto rompere quel tacito patto il 7 ottobre le spiegazioni sono molte e io mi limito a tre: la prima era quella di riattivare la questione palestinese, lasciata suppurare nell’inerzia, per diventarne la forza protagonista ed egemone; la seconda è che si era avviato un processo di distensione tra Israele e paesi arabi sunniti che scavalcava la questione palestinese (i “Patti di Abramo”), e Hamas era decisa a bloccarli (anche nell’interesse dell’Iran e dei suoi accoliti sciiti nella regione); la terza era che Israele era indebolito perché distratto e spaccato per la responsabilità della destra intenzionata ad imporre una riforma illiberale del sistema giuridico di Israele. Così Hamas ha colto l’occasione.

L’appello dice anche: Trump vuole espellere i palestinesi da Gaza. Intanto in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani.
“Cogliere l’occasione” è il criterio cinico che sulla pelle e la sorte di decine di milioni di persone ha animato i decisori di questa catastrofe umana: Israele ha colto l’occasione dell’aggressione di Hamas per trasformare la guerra contro Hamas in guerra generalizzata contro il popolo palestinese , non solo di Gaza da cui era venuta l’aggressione, ma anche di Cisgiordania, da cui non era venuta aggressione alcuna, e questo dimostra che Israele ha colto l’occasione della guerra per cercare di portare a termine la liquidazione definitiva della questione palestinese in quanto tale, attraverso la strage, la devastazione , la pulizia etnica, e la persecuzione generalizza di chi abbia la “colpa” di essere nato palestinese in Palestina. Il che a me ricorda chi in altri tempi fu depredato e perseguitato per la colpa di essere nato ebreo, in un’appartenenza dichiarata nemica. Infine, Trump ha colto l’occasione, con il plauso da vassallo di Netanyahu, per dare corso al suo istinto osceno di speculatore immobiliare e proporre una gentrificazione balneare da far sorgere con scintillante volgarità su quella fossa comune a cui ormai è stata ridotta Gaza.
Hamas e Jihad con la loro ideologia fondamentalista non solo antisraeliana ma anche antisemita, con la loro ideologia del sacrificio, hanno voluto sacrificare i palestinesi per egemonizzare la questione dei palestinesi, soggetti all’oppressione sistemica di Israele nei territori occupati o reclusi nella Striscia di Gaza.

L’appello ha scatenato l’ira di personalità della comunità ebraica. C’è chi si è spinto a pretendere dall’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei), dalla sua presidente, Noemi Di Segni, da tutti i consiglieri una formale posizione di presa di distanza. E lo stesso si esige dall’Assemblea dei rabbini italiani (Ari). Insomma, o noi o loro…
Si è diffusa nel mondo ebraico una difficoltà di vedere i fatti e di nominarli. Se si considera la colpa di essere nato palestinese come dimostrazione di essere per ciò stesso scudo umano dei terroristi o connivente coi terroristi. Quando l’esercito di Israele collabora, ora persino coi carri armati, con lo squadrismo dei coloni per distruggere la possibilità di vita dei palestinesi in Cisgiordania, con quale nome si può definire il fatto se “non pulizia etnica? E se questo nome è troppo difficile da elaborare, quale altro nome dargli, purché corrisponda almeno un po’ all’evidenza? Quelli che ci attaccano ritengono forse che i fatti e i loro nomi siano “antisemiti”? Non ci attaccano con argomenti, ma perché la denuncia dei crimini contro l’umanità, non solo compiuti da Hamas, ma compiuti su scala maggiore da Israele, è divisivo. Ritengono che se gli ebrei si mostrano divisi, favoriscono l’insorgenza antisraeliana e antisemita. Io penso al contrario che il mostrarsi reticenti o falsamente unanimi, nella giustificazione di crimini evidenti contro l’umanità sia il maggior contributo da parte nostra all’insorgenza antisemita. L’accusare di antisemitismo qualunque critica a Israele è un errore grave: è come pretendere il privilegio di essere esentati dalle critiche perché ebrei. Ma alla lunga rivendicare un privilegio non può che suscitare ostilità e antisemitismo.

Il governo israeliano ha preferito la vendetta su Hamas alla salvezza degli ostaggi, ma ora le responsabilità vanno accertate. È il durissimo atto d’accusa che Ofri Bibas, sorella di Yarden, ha lanciato dai funerali della cognata e dei nipotini. “Il perdono significa accettare la responsabilità e impegnarsi ad agire in modo diverso, imparare dagli errori”, ha sottolineato, “il perdono non ha senso prima che i fallimenti siano indagati e tutti i dirigenti si assumano la responsabilità”. “Il nostro disastro come nazione e come famiglia non sarebbe dovuto accadere e non deve mai più accadere”, ha sottolineato. E poi, rivolta a Shiri, Ariel e Kfir, morti durante la prigionia nelle mani di Hamas, ha aggiunto: “Avrebbero potuto salvarvi, ma hanno preferito la vendetta. Abbiamo perso. La nostra idea di ‘vittoria’ non si realizzerà mai. La nostra lotta contro i nemici sarà eterna, ma dobbiamo sempre santificare la vita, l’amore per i nostri simili, il rispetto per i morti e non lasciare mai indietro nessuno. Altrimenti, perdiamo ciò che siamo”.
Sono profondamente solidale con la Signora Ofri, nel lutto suo, della sua famiglia e di tutto Israele. Solidale anche con la sua indignazione. Dice il vero. La scelta di posporre al questione degli ostaggi all’obiettivo dichiarato (e a detta di molti esperti militari anche americani, impossibile) di distruggere Hamas con la strage indiscriminata, è stata chiara fin da subito. Dare la priorità alla trattativa sugli ostaggi presentava due inconvenienti per il governo: il primo era di dover riconoscere a Hamas il ruolo di partner nella trattativa (cosa che poi si verificò in seguito per necessità); il secondo inconveniente era che un eventuale successo della trattativa e il ritorno degli ostaggi superstiti avrebbe ridotto la giustificazione di scatenare una guerra di una durezza definitiva. In più, avrebbe resa vicina la verifica delle responsabilità del governo nel non aver prevenuto l’aggressione di Hamas (di cui già c’erano avvertimenti, irresponsabilmente ritenuti inattendibili), e di essere intervenuto con incredibile ritardo, perché l’esercito era impegnato su un altro fronte, cioè a dar manforte all’aggressione sistemica dei coloni ebrei contro la popolazione palestinese in Cisgiordania. L’irruzione imprevista di Hamas aveva messo in crisi la deterrenza su cui Israele ha sempre dovuto contare come garanzia di sicurezza, e il governo ha voluto recuperare la deterrenza traducendola nel terrore indiscriminato della guerra. In più, l’eventuale ritorno degli ostaggi avrebbe avvicinato anche le scadenze giuridiche circa le accuse di corruzione di cui era ed è tuttora imputato Netanyahu, e che la guerra invece differiva. Dare priorità alla trattativa sugli ostaggi avrebbe impedito di “cogliere l’occasione” dell’aggressione subita da parte di Hamas, per dare un colpo finale alla questione palestinese con la strage a Gaza e la pulizia etnica in Cisgiordania.

Esiste ancora uno spazio reale per una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”? E cosa si sente di chiedere oggi all’Europa e all’Italia?
C’è stato un periodo, tra la prima intifada del 1987 e l’incontro di Oslo del 1993 in cui si era affacciato un riconoscimento reciproco tra i due popoli: da un lato molti palestinesi avevano visto che dietro l’esercito di occupazione di Israele c’era un popolo, gli israeliani; dall’altro molti israeliani avevano visto che dietro le organizzazioni armate palestinesi c’era un popolo, i palestinesi. Dopo Oslo le cose progressivamente regredirono cambiarono. Soprattutto da parte israeliana: i palestinesi oppressi nei territori occupati o reclusi a Gaza non avevano più la dignità di un popolo. Succede così nelle situazioni coloniali soprattutto protratte nel tempo: fomentano il razzismo verso gli oppressi, a giustificare i motivi della loro oppressione, e intaccano la qualità democratica dei dominanti. Così è successo, nella politica, nel sistema giuridico e nel senso comune in Israele. Ora la cosa prioritaria è ricostituire è il riconoscimento reciproco tra i due popoli, che si era affacciato negli anni Ottanta. Non solo da parte di Israele ma sul piano internazionale. Non ritengo realizzabile in questa generazione la soluzione “due popoli e due Stati”. Essa implicherebbe anche una guerra civile in Israele e forse anche tra i palestinesi, tra gli oltranzisti e quelli favorevoli a una pace di compromesso. Tuttavia, la ritengo tuttora la formula più utile proprio in quanto ha come presupposto inevitabile il riconoscimento degli israeliani e dei palestinesi come popoli, riconosciuti non solo tra loro ma riconosciuti anche dall’Onu e dagli stati europei e arabi. E noi dobbiamo pretenderlo dagli Stati. Perché da soli ormai, israeliani e palestinesi non ce la possono fare, se non con un’attiva pressione, contributo e garanzie internazionali di sicurezza. Ora, paradossalmente proprio la pulizia etnica che Israele sta perseguendo, può aprire un’alternativa, poiché preoccupa gli Stati arabi ed europei che ne vedono la conseguenza: quella di poter essere invasi da milioni di palestinesi cacciati dalla Palestina. Se gli Stati arabi hanno contato finora sulla questione palestinese come malattia interna a Israele che ne indebolisce la dignità e prestigio, ora possono essere interessati concretamente a uno Stato palestinese che trattenga i palestinesi sulla loro terra, evitando l’immigrazione di profughi diffusamente radicalizzati dalla sventura. Ma nell’immediato, quello su cui si può operare non è la realizzazione di due Stati ma sulla sua premessa necessaria: il riconoscimento reciproco e internazionale di due popoli. Intanto noi appoggiamo le Ong che in Israele praticano controcorrente la collaborazione tra israeliani e palestinesi, e lavoriamo per un confronto e una collaborazione tra noi e i palestinesi che sono in Europa e in Italia.

7 Marzo 2025

Condividi l'articolo