La “storia femminista” del Gruppo del mercoledì

Gaza e Ucraina hanno dimostrato che il linguaggio della violenza nasce da quello della guerra

"Vorrei una sinistra che guardasse agli individui, uomini e donne, nella loro corporeità e nelle parole che dicono, che si riavvicinasse piuttosto allontanarsi, cosa che in alcuni momenti succede"

Interviste - di Graziella Balestrieri

3 Marzo 2025 alle 08:00

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Photo credits: Raffaele Verderese/Imagoeconoica
Photo credits: Raffaele Verderese/Imagoeconoica

La “storia femminista” del Gruppo del mercoledì ha i nomi di Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Isabella Peretti, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini e Letizia Paolozzi. E proprio quest’ultima racconta all’Unità la storia di quello che è stato fatto e detto, scritto e portato nelle piazze negli anni da questo movimento, nel libro scritto per i tipi di Futura editrice, intitolato Il gruppo del mercoledì- Una storia femminista.

Il libro, a cura di Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Susanna Vulterini e Letizia Paolozzi è stato presentato ieri sera alla Casa Internazionale delle donne da Marina D’Amelia e Manuela Fraire. Un modo per fissare su carta tutto quello che bisogna ricordare ma anche il disegno di un nuovo orizzonte nel quale intravedere quello che sarà o potrebbe essere il femminismo ma anche tutto quello che lo circonda, in modo da non chiudersi ma ritrovarsi con le altre e con gli altri. Una storia che va avanti da generazioni, che si moltiplica e si sottrae in alcuni casi, femministe che si scambiano e si intercambiano, proponendo in questi anni di condivisione e lotte, ad una generazione futura che sembra schiacciata da un presente “oscuro”, sotto ogni punto di vista, parole forti e nette.

Allora Letizia, chi sono le donne del Gruppo del mercoledì?
Siamo donne femministe, che hanno fatto un tragitto ormai lungo più di trent’anni dentro alla politica delle donne. Il Gruppo del mercoledì ha tessuto un tempo condiviso di parole, e al tempo stesso di convivialità, quindi di felicità dell’essere insieme, di trovare dei modi per stare a nostro agio. È un luogo riconoscibile, quello del Gruppo del mercoledì, un luogo di riflessione individuale ma allo stesso tempo collettiva. Ci siamo sempre presentate come quelle che insieme avevano tirato giù dei testi oppure delle domande, quando non eravamo sicure. Moltissime volte su questi temi non volevamo dare l’impressione di essere un gruppo d’acciaio che sa già qual è la risposta. Anzi, eravamo noi che ci ponevamo le domande e le porgevamo alle altre, agli altri. Per cui questo è il modo in cui ci siamo presentate e in cui credo che siamo state conosciute e anche riconosciute. La volontà, in sintesi, di costruire insieme dei piccoli passi in avanti e forse anche ogni tanto dei blocchi, delle fermate, delle frenate brusche, dei tentativi di uscire dal già noto per cercare delle altre risposte.

In questo momento è importante scrivere un libro di questo genere e con queste tematiche?
Volevamo e vogliamo raccontarci con il nostro modo di essere, ma anche suggerire qualcosa alle altre. Come dire – noi abbiamo fatto così, non è detto che altre debbano seguire questo tipo di percorso, però sappiate che questo è stato fruttuoso. Perché in un tempo nel quale la frantumazione, la dissipazione, la fatica anche di essere insieme e di fare il luogo politico è molto forte, noi diciamo che si può. Allora, noi l’abbiamo fatto così, se volete prenderlo come un esempio, È stato un tentativo: potete modificarlo, cambiarlo, però questa cosa c’è stata e c’è stata per molti anni e questo è l’elemento principale. Un altro elemento è quello della memoria. In un tempo nel quale la dissipazione della memoria è molto forte e si è immersi in un presente che non guarda cosa c’è alle spalle e non si interroga sul futuro, vogliamo dire agli altri e alle altre: “guardate che ci sono dei nomi, ci sono delle individualità, ci sono delle donne che peraltro non ci sono più adesso, ma che sono importanti, alle quali noi dobbiamo quello che siamo oggi”.

Nel libro viene alla luce la frattura con la sinistra.
In realtà siamo e siamo state tutte donne di sinistra. Alcune di noi sono state delle militanti della sinistra, delle dirigenti della sinistra, e quindi per loro è stato più complicato prendere congedo, così come abbiamo detto in uno dei nostri testi, perché da un certo momento in poi le pratiche della sinistra ci sono sembrate povere, non adatte al tempo che stiamo attraversando. Più che una frattura, è stato un allontanarsi anche in attesa di tempi migliori.

Sembrate proprio distanti dalla sinistra, forse è questo il termine esatto, “distanti”.
Sì, perché la pratica politica è così diversa oggi e non ritroviamo più quell’idea grande della sinistra, che è quella della giustizia sociale, che è quella del guardare alle difformità, al modo in cui gli invisibili o quelli che sono meno riconosciuti e celebrati, cioè interi strati sociali che la sinistra ha seguito. Mi auguro che la sinistra intenda difendere queste persone ancora oggi. Naturalmente la sinistra ha avuto dei momenti in cui non c’è riuscita, si è disinteressata, ha pensato che erano altri i suoi terreni di intervento. Per noi, per me e per le altre, è rimasto un terreno fondamentale sul quale mi sono fatta le ossa, prima di diventare femminista e quindi vorrei una sinistra che guardasse agli individui, uomini e donne, nella loro corporeità e nelle parole che dicono, che si riavvicinasse piuttosto allontanarsi, cosa che in alcuni momenti succede.

Per quanto riguarda la destra, parlate di brutalizzazione del linguaggio…
È uno degli elementi che abbiamo analizzato. Ed è particolarmente evidente oggi nella militarizzazione del linguaggio che è il riflesso di queste guerre. Molto importante la questione del linguaggio: chi possiede la forza del linguaggio possiede un potere molto grande. Il linguaggio è molto cambiato. Ora dall’altra parte, se dovessi rispondere schiettamente, direi che anche le femministe nel loro campo probabilmente hanno peccato, siamo state preda di un linguaggio un po’ gergale in certi momenti. Succede anche oggi, ma è insito nella storia: i femminismi si muovono, parlano con linguaggi diversi, ci sono quelli più accademici, quelli più materialisticamente fondati, astratti, filosofici e via discorrendo. Ad ogni modo mi sembra che il linguaggio ne abbia risentito, anche perché il linguaggio cambia e quindi nel linguaggio che cambia c’è un tentativo di riportarlo indietro, di arrestarne l’evoluzione, oppure di usarlo come è stato, come è successo per esempio durante il Covid in cui tutto era “facciamo una trincea contro il virus, scontriamoci con la pandemia”. Era un linguaggio che vestiva la divisa. Nel femminismo direi che ogni tanto cadiamo nelle trappole, però sostanzialmente mi sembra che ci preserviamo.

Si parla di coraggio nel libro: che cosa significa avere coraggio oggi?
Per me sicuramente il coraggio di non essere come si aspettano che io debba essere.

Quando si parla di femminismo in alcuni casi, lo si vede dall’esterno come un luogo chiuso…
Sì, credo che sia un po’ anche una nostra colpa, nel senso che stiamo bene tra donne, stiamo bene tra donne femministe, ci riconosciamo, abbiamo un linguaggio comune, e questo fa sì che ogni tanto ci si chiuda, proprio perché l’intervento del fuori, di quello che c’è fuori, è minaccioso. Ci può costringere a cambiare idea, a cambiare posizione, a vedere le contraddizioni che invece ci sembrava di avere risolto, sciolto, e quindi c’è una sorta di autodifesa, l’istinto di arroccarci in un castello nel quale si sta così bene che non ci interessa il fuori. Questo naturalmente c’è, ma io spero che ci sia sempre meno, e invece ci sia un’apertura alla realtà, che è quello che poi permette al femminismo di andare avanti.

Gli uomini invece?
Il mondo maschile non c’è. È strano, non direi che lo consideriamo nemico, forse un avversario politico, ma non un nemico. Certamente ci sarebbe tanto da dire sulla difficoltà degli uomini di capire che stanno facendo un sacco di guai uno dietro l’altro, perché quello che vediamo intorno a noi adesso comincia ad essere anche un demerito di donne importanti, che sono al top e che fanno delle cose sballate. Ma insomma, finora il mondo è stato costruito dagli uomini e quindi è una loro responsabilità quello che c’è intorno a noi e bisogna poi giudicarli, ma devono essere loro stessi naturalmente a farlo per primi.

La guerra e la violenza sulle donne.
Credo che sia un segno che il mondo si porta dietro. Penso poi che nella violenza – e l’abbiamo in qualche modo suggerito in uno dei nostri test – ci sia una continuità con quella più militare, più determinata dalle guerre, quella che gli uomini si fanno scannandosi, e mentre si scannano stuprano le donne. Certo che è una cosa di cui si parla pochissimo. Eh sì, perché succede che la causa femminile diventa sempre seconda rispetto a un altro posizionamento, cioè che quello io mi metto dalla parte di quel paese contro quell’altro, contro quell’altra ideologia, e quindi quello che succede alle donne diventa secondo e poco importante perché ci si occupa molto delle cause degli altri, dimenticando la propria causa. Il fatto è che dobbiamo riuscire, secondo me, a tenere insieme le due posizioni. Non si può prescindere da quella, ma anche in tutta la violenza, credo che ci sia un segno che è quello della sessualità, e quella cosa lì è difficile che risulti in primo piano, cioè, c’è sempre qualcosa di più importante che la cancella.

Nel libro a un certo punto si parla di aria fritta degli anni Ottanta, della cultura degli anni Ottanta: Oggi invece è così diversa la cultura?
Oggi mi sembra che ci sia un tasso di malinconia, di intristimento. Quella degli anni Ottanta che adesso potrebbe risultare una gioiosità falsa, fasulla, aveva però qualcosa di attivo anche perché poi nell’Ottantanove cambia la visione del mondo. Poi dopo ci sono quelli che dicono che allora arriva anche la fine della storia. Oggi c’è un rinchiudersi, mi pare, molto in sé stessi. E io penso che ciò sia stato determinato dal Covid, da come ci siamo abituati in quei due anni. Stiamo lì con il nostro corpo al computer e va bene. Pensiamo di metterci in comunicazione con gli altri, con le altre. Dimentichiamo che la fisicità, l’essere in rapporto diretto, i corpi che stanno insieme, gli sguardi, sono una cosa fondamentale.

Questo governo è amico delle donne? Vedete un passo indietro o siamo sempre allo stesso punto?
Io vedo molti passi indietro ma non solo per le donne però, un po’ in generale. Se dovessi limitarmi a dirne una, basti pensare al trattamento riservato agli immigrati: mi sembra una cosa incredibile. Per non parlare delle condizioni delle carceri, dove un giorno sì e l’altro pure c’è un detenuto che si toglie la vita, oppure la condizione salariale. Naturalmente poi una visione nella quale “Dio, Patria, Famiglia” vuole ricondurre le donne ad un ruolo dal quale le donne hanno lottato per liberarsi…ovviamente è un governo che, secondo me, non è amico delle donne ma non lo è ideologicamente. Credo che si debba guardare con molta attenzione a quello che sta accadendo per non farsi ributtare indietro.

3 Marzo 2025

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