L'ex segretaria generale Cgil
“La destra preferisce i condoni agli evasori al salario minimo: se sei povero è colpa tua”, parla Camusso
«La risposta del governo è sempre la stessa: no al salario minimo, meglio altri condoni agli evasori. Hanno esteso i contratti a termine e resuscitato i voucher», accusa la senatrice dem. «Schlein ha segnato un cambio di passo tornando tra i lavoratori. Dire sì ai referendum è naturale»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

Camusso, Segretaria generale della Cgil dal 2010 al 2019, oggi senatrice e membro della Direzione nazionale del Partito democratico. Quale lezione la sinistra europea dovrebbe trarre dal voto tedesco?
Penso che il voto tedesco permetta di ragionare di più aspetti, e non debba essere semplificato come ho letto qua e là nel voto sull’immigrazione. La prima osservazione che mi viene è l’ampia partecipazione al voto e la profonda divisione che determina tra ovest ed est della Germania. Se il voto è diverso non c’è dubbio che hanno pesato gli ormai quasi due anni di recessione dell’economia tedesca e “l’incubo” licenziamenti che accompagna la crisi del settore auto, in dimensioni certamente non usuali in Germania. Se gli accordi hanno evitato il dramma, appare evidente – con buona pace di quanti si oppongono a prescindere alle politiche green – che la crisi non è congiunturale, ma che l’industria automobilistica europea è in ritardo di una generazione. Nello stesso tempo l’ampia partecipazione al voto va letta anche come resistenza al diffondersi dei neonazisti con il loro carico di rancori e di ritorno al passato. Diseguaglianze ed insicurezza per il futuro muovono preoccupazioni ed attese ed è su questo che non la sola Spd, ma le sinistre europee, con l’eccezione spagnola, non danno risposte, cosa che costa loro elettoralmente, mentre anche nel caso tedesco si registra la crescita della Linke la cui campagna si è concentrata sui temi sociali. La sinistra fatica a chiudere la lunga stagione neoliberista mentre c’è la necessità di un’alternativa, che riaccenda speranze, che affronti il tema delle diseguaglianze e difenda la democrazia. Difficoltà che si aggrava perché le destre nazionaliste fanno di ricchezza e oligarchia il loro mantra. Per questo l’ampia partecipazione al voto non può darsi per scontata di fronte al pericolo, ma vorrei fosse letta come una richiesta.
Come si fa a coagulare dalla Francia, all’Italia, alla Germania cose così diverse dai socialisti, a France insoumise, al Movimento Cinque stelle in Italia, la Linke e così via…
Quando le destre dimostrano di avere l’obiettivo di attaccare la democrazia, superando una barriera che aveva caratterizzato più di mezzo secolo, credo che questo rappresenti e a ragione primo terreno comune essenziale. In Europa, essere europeisti e non nazionalisti è già un discrimine eccellente da cui partire. Il primo salto da fare è questo, ripensare il multilateralismo e provare, con l’obiettivo degli stati uniti d’Europa, a guardare ad un mondo profondamente mutato. Non è più la globalizzazione dei mercati che organizza le relazioni, se sono i dazi a determinare il territorio. Questo impone all’Europa di costruire una propria autonomia, a partire da energia, digitale, sanità. Anche nell’ambito della difesa occorre affermare la scelta dell’autonomia europea, non attraverso l’armamento dei singoli paesi che rafforzano singolarmente i loro eserciti, ma con spesa comune e scelte coordinate da una comune politica estera. Gli strumenti non sono neutri: servono debito comune e un nuovo Next Generation EU, non la sottrazione dal patto di stabilità delle spese per la difesa. Che il nuovo patto di investimento comune abbia solide radici sociali, guardi a sanità, ricerca, istruzione è altrettanto essenziale. Direi quindi innanzitutto che bisogna alzare lo sguardo, uscire dai cortili e offrire un orizzonte rafforzando le proposte che già vedono obiettivi e linguaggio comuni. Anche perché la storia non aspetta ed il tempo è adesso.
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Sull’Ucraina, e non solo, Trump ha umiliato l’Europa? Una Europa che non dice nulla sulla Palestina.
Non c’è dubbio che Trump vuole umiliare l’Europa, anzi la indica come nemico quando asserisce che l’Europa è nata per fregare gli Stati Uniti, un falso storico e politico. Sta all’Europa non farsi umiliare, e per questo le speranze della destra nostrana di rappresentare un ponte tra le due sponde dell’Atlantico diventano in realtà scelte di vassallaggio. L’Europa non è riuscita finora ad essere protagonista di una politica di pace, ha assolto il suo essere giustamente a fianco dell’Ucraina aggredita con le forniture d’armi, senza interrogarsi, immaginare quale sia la proposta per una Europa che definisce confini sicuri, che ripensa un equilibrio che è ora destabilizzato. Attendere la vittoria sul campo o affermare che Putin non vuole trattare è fermarsi sulla sponda del fiume ad aspettare; e aspettare è esattamente ciò che l’Europa non può permettersi. Ci vuole uno scatto, una proposta europea, soprattutto se Trump pensa di “comprare” una pace, in un nuovo bilateralismo che non risponde agli interrogativi sui confini non solo dell’Ucraina ma dell’Europa comunitaria. Ancor più inadeguata è stata la risposta europea sul Medio Oriente aggravata dal doppio standard con cui si guarda al popolo palestinese mentre Trump propone un orrendo e mostruoso racconto di nuovi resort per i ricchi americani per giustificare la pulizia etnica della Striscia e autorizza la rottura unilaterale della tregua a Gaza. L’Europa non ha saputo vedere e condannare con la stessa forza con cui ha giustamente condannato Hamas e il massacro del 7 ottobre il genocidio del popolo palestinese. Non ha saputo e non sa difendere le risoluzioni ONU e chiude gli occhi sulla Cisgiordania.
Veniamo ad un tema caldo in politica interna e nel Pd. Per la stampa mainstream, e anche per alcune componenti del suo stesso partito, Elly Schlein sarebbe subalterna alla Cgil di Maurizio Landini. Sui referendum e non solo.
Uno degli effetti nefasti della lunga stagione della disintermediazione è che la politica ha disimparato perfino le parole con cui parlare di lavoro. Ha immaginato che l’unica ricetta necessaria fosse continuare a costruire “flessibilità”, ha raccontato la deregolamentazione del mercato del lavoro come ricetta per la crescita.
Già aver cancellato il concetto di sviluppo per sostituirlo con crescita segnalava l’acriticità verso le conseguenze sociali e la sostenibilità delle scelte. A quarant’anni circa dall’inizio di questo processo, meriterebbe tirare una riga e fare un bilancio. I risultati sono stati l’impoverimento della classe media e la crescita del lavoro povero, con una crescente scarsa propensione agli investimenti ed all’innovazione, nonostante le tante politiche di bonus e sussidi. Non si può nascondere che proprio l’incapacità di rappresentare il lavoro ha determinato perdita di voti e astensionismo. Su questo la segretaria fin dal congresso ha segnato un cambio di passo scegliendo di tornare dai lavoratori, di essere tra loro, di sostenere le proposte per il salario minimo, la riduzione d’orario, il contrasto alla precarietà ed i congedi parentali, per indicarne alcune. Rappresentare il lavoro significa anche interloquire con le grandi organizzazioni sindacali confederali, superare la disintermediazione, mettere al centro la lotta alle diseguaglianze, anche ammettendo gli errori. Ed è questo che non le viene riconosciuto, forse per paura della discontinuità, da chi difende quanto fatto senza vedere che ridurre diritti non porta, mai, progresso. Certo i referendum non affrontano tutti i temi, non potrebbero nemmeno, ma sono indubbiamente una straordinaria occasione per mobilitare e partecipare per affermare una politica del lavoro rispettosa innanzitutto dei diritti, e per affrontare, finalmente, il tema della cittadinanza. Sostenerli e fare proprie le istanze che propongono dovrebbe essere la risposta naturale di un partito progressista, altro che un comportamento da ostaggio.
Che in Italia crescano le disuguaglianze e il malessere sociale è documentato da rapporti, sondaggi, di fonti diverse e non certo estremiste. Sul banco degli imputati finiscono quelli che cercano di trasformare quel malessere in “rivolta”. Una colpa?
Che la destra non sopporti il confronto, le manifestazioni pubbliche di opposizione alle sue politiche né le proposte di alternativa è dimostrato anche dal decreto sicurezza che si propone di criminalizzare e silenziare qualunque protesta. Le ragioni dell’opposizione sono però sempre più evidenti nella condizione del paese.
Povertà assoluta e lavoro povero aumentano, cresce la popolazione che rinuncia o non riesce a curarsi, povertà educativa e abbandono scolastico restano molto alti, lo zero-sei è rimasto nel libro dei sogni mentre si insiste con il dimensionamento scolastico che diventa abbandono delle aree meno popolate. Basterebbero questi dati per dire che siamo ben oltre la fine dell’ascensore sociale, siamo di fronte a una faglia che si allarga sempre di più e non trova risposte: Quando si esaltano i numeri dell’occupazione sottintendendo che dimostrerebbero che non servivano strumenti di contrasto alla povertà si agitano specchietti per le allodole. Certo, i numeri assoluti sono cresciuti, ma non le ore lavorate non l’occupazione stabile ed a tempo pieno. La massa salariale non cresce e il fisco penalizza sempre di più i redditi medi e bassi, già erosi dall’inflazione. La risposta della destra è comunque sempre la stessa: no al salario minimo, meglio altri condoni agli evasori, no alla riduzione della precarietà, anzi. Ha voluto estendere i contratti a termine, fare della somministrazione una strategia, ignorare il part time involontario ed ha anche resuscitato i voucher. Nella loro ideologia se hai un lavoro precario, se sei pagato poco, insomma se sei povero, è colpa tua. Cominciamo a sentire frequenti affermazioni che arrivano a dire che gli stessi infortuni mortali che non accennano a diminuire sono colpa della distrazione dei lavoratori. Ragion di più per sostenere i 5 si ai referendum.