I quesiti su lavoro e cittadinanza
Referendum su lavoro e cittadinanza: cosa prevedono i 5 quesiti
Bisogna convincere 25 milioni di persone ad andare a votare 5 sì per il cambiamento. Per farcela l’opposizione deve cambiare pelle. Basta tentennamenti sul jobs act. Basta paura di dire che i ricchi vanno tassati
Politica - di Marco Grimaldi

Dai banchi dell’opposizione, lavoriamo ogni giorno per far cambiare rotta all’Italia. Non è facile, soprattutto in questo momento. E certamente le aule parlamentari non sono sufficienti. I cinque referendum che voteremo in primavera possono offrire una prospettiva a milioni di persone schiacciate fra disuguaglianze e ricatti, salari da fame, precarietà e mancanza di diritti. Ciò che Giorgia Meloni definisce “tossica” è la dialettica politica fondamentale fra chi crede che profitto e privilegi possano muovere il mondo e chi si batte per una società solidale, che non lasci indietro nessuno. C’è una maggioranza di italiani che vuole frenare la precarietà, le morti sul lavoro, i licenziamenti ingiusti? Io credo di sì. C’è un’altra Italia che pensa che sia necessario dare cittadinanza a migliaia di italiani e italiane che lavorano, studiano e pagano le tasse in Italia? Noi crediamo di sì. Oltre cinque milioni di persone si sono mobilitate per costruire questo momento referendario. Ora però – ed è già tardi – spetta a tanti e tante portare il dibattito nelle case degli italiani. Convincere oltre 25 milioni di aventi diritto a recarsi alle urne e a votare per il cambiamento. Rompere anche il muro di silenzio sollevato da tanti organi di informazione. E comprendere quanto decisivo sarebbe un successo dei cinque quesiti per mettere in crisi il Governo. Tuttavia, per farcela, c’è bisogno di un cambio di pelle dell’opposizione.
Non si può tentennare sul Jobs Act per evitare di “riaprire vecchie ferite”, in un Paese in cui dilagano precarietà, lavoro povero e salari da fame. Non c’è salario minimo che tenga, se non si reintroducono le causali sui contratti a termine, se non si afferma la responsabilità solidale delle aziende committenti di appalti e subappalti in caso di infortunio sul lavoro. Se non si intende trasformare radicalmente una legislazione sul lavoro che lungo anni ha reso i lavoratori più fragili e più poveri. I salari che restano bassi, i contratti che restano poveri, anche quando a firmarli sono i sindacati confederali, non hanno nulla a che fare con la ricattabilità di lavoratori che possono essere mandati a casa senza giusta causa? Non c’entrano nulla con la minaccia costante di un licenziamento o un mancato rinnovo? Quello che voglio dire è che non possiamo unirci solo per battaglie isolate, come siamo riusciti a fare sul salario minimo o sugli orari di lavoro, senza condividere un orizzonte e una visione d’insieme. E senza dire tutta la verità.
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Se riteniamo intollerabile che persone siano pagate per il proprio lavoro meno di 9 euro al mese, non accettiamo che i salari siano fermi da 30 anni, mentre solo nel 2024 la ricchezza dei miliardari italiani è aumentata di 61,1 miliardi di euro. E lo dobbiamo dire. Dobbiamo dire che sfruttamento, lavoro povero, precarizzazione ed esternalizzazioni viaggiano insieme. E che il lavoro è povero anche perché l’80% dei contratti di lavoro che vengono attivati è precario. E non possiamo scandalizzarci se interi settori si reggono su vere e proprie forme di schiavitù, se poi non osiamo aggiungere che le imprese italiane non investono in tecnologia e produttività, perché gli azionisti reinvestono il 20% degli utili e si intascano l’80% in dividendi. Esistono sempre due facce di una medaglia. Quella forbice intollerabile e crescente, in cui il 10% più ricco delle famiglie italiane possiede oltre 8 volte la ricchezza della metà più povera, ci dice che le disgrazie di alcuni corrispondono alle fortune di altri. Bisogna cominciare a dire che servono insieme salario minimo, ritorno di un sostegno al reddito universale, contrasto alla precarietà e al lavoro povero, patrimoniale. Così come serve ridurre i tempi di lavoro a parità di salario, un’altra proposta su cui le opposizioni hanno dato prova, proprio in questi giorni, di saper procedere insieme.
Il quesito sulla cittadinanza, al contempo, in un colpo potrebbe cambiare la vita a circa 2,5 milioni di persone di origine straniera. Ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia per avanzare la domanda significa aggirare i muri della destra su ius soli e ius scholae e vincere una prima, decisiva battaglia contro il razzismo di Stato. Che, attenzione, è subdolo e ipocrita, perché non vuole semplicemente e fino in fondo tenere gli stranieri lontani dal nostro Paese. Vuole più di tutto che un gran numero di persone viva qui da paria, per esempio come manodopera sfruttata a disposizione degli imprenditori più spregiudicati. Quella manodopera – sempre migrante e quasi sempre irregolare – che nei distretti del pronto moda, della logistica, della grande distribuzione, subisce non solo condizioni schiavistiche, ma violenze fisiche mirate e rappresaglie. Che in questi giorni è stata messa in pericolo con incendi dolosi in una guerra fra mafie nel pratese. E quindi ecco che possiamo (e dovremmo) leggere il fenomeno endemico dello sfruttamento lavorativo, che ha il suo picco nel caporalato, e la condizione in cui gli stranieri vengono scientemente tenuti in Italia con un unico sguardo d’insieme.
Dobbiamo fare di tutto per vincere su questo referendum, proprio mentre il nuovo Governo francese apre una discussione sulla restrizione del principio dello ius soli, ipotizzando di modificare la Costituzione. Il Primo Ministro Bayrou si mette in bocca le parole di Jean-Marie Le Pen e annuncia di voler ridiscutere “che cosa significhi essere francese”. Marine Le Pen ne approfitta e chiede un referendum soppressivo di quel principio di civiltà e inclusione su cui la Francia – nonostante le molte contraddizioni – è sempre stata un faro. Di fronte a spinte così regressive, a questi venti che spirano da ogni direzione, il “progressismo” – qualche battaglia civile qui, un po’ più di welfare là – non basta più e temo non parli più a nessuno. Di fronte allo strapotere materiale e politico di una destra miliardaria reazionaria, che cresce in Italia e nel mondo, la sinistra deve smettere di avere paura di dire che bisogna tassare i ricchi. Bisogna tornare a una vecchia categoria filosofica: la Weltanschauung, ossia una concezione del mondo. Delle sue ingiustizie profonde e delle sue intollerabili isole di privilegio. Una concezione da cui si traggono delle conseguenze di radicalità. E allora, per cominciare, lancio un appello agli alleati di opposizione: schierarsi e battersi per la vittoria del Sì ai referendum sociali e sulla cittadinanza non è un optional, se vogliamo ritrovare l’egemonia perduta.