La guerra Iran-Israele
Mondo in ostaggio dei signori della guerra: superato il punto di non ritorno
Le bombe americane in Iran segnano il punto di non ritorno. Da oggi il pianeta scosso dai raid abdica alla pace e piomba in uno Stato d’eccezione nel quale saranno le armi a scrivere il futuro
Esteri - di Luca Casarini

L’entrata in guerra degli USA attraverso i bombardamenti di questa notte sui siti nucleari iraniani, segna una svolta ulteriore nel dispiegarsi di ciò che da tempo, almeno da 25 anni, abbiamo chiamato “guerra globale permanente”. Come la guerra possa mutare la sua forma, ed espandersi seguendo la traiettoria dell’escalation, non è dato sapere ora. Non lo sanno nemmeno loro, Trump e Nethanyahu: la rivendicazione dell’attacco con armi di distruzione mai usate prima (GBU 57) è accompagnata dagli “appelli alla pace” proprio per questo. Nethanyahu parla di una svolta storica impressa al mondo dal coraggioso alleato americano. Trump di un successo dei guerrieri americani, “punta di diamante del più potente esercito al mondo”. Trump fa sapere agli Ayatollah che non vuole un regime change, offrendo una resa che in cambio comporta il mantenimento del potere dell’attuale assetto che governa l’Iran. La risposta iraniana, con il bombardamento riuscito su Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme, non lascia pensare che questa ipotesi possa trovare realizzazione per il momento.
L’esercito israeliano sta già bombardando la parte ovest dell’Iran. Dunque nessuno dei signori della guerra, in questo momento, è in grado di fare previsioni. E dunque anche di offrire dei limiti. La scelta presa alla Casa Bianca è una cambiale in bianco per il regime di guerra: non vi sono scenari che si possano escludere, a partire dalla potenziale distruzione di uno Stato con novanta milioni di abitanti. Trump deve convincere l’establishment iraniano ad accettare la “pace”, una sorta di resa incondizionata, e deve convincere gli americani, compresa una corposa parte dei suoi elettori, a fare la guerra. Nethanyahu non si preoccupa più di tanto ormai, di come l’alleato fondamentale di Israele possa comporre la questione: la guerra innescata ora ha preso fuoco, e indietro adesso non può tornare nessuno. Era l’obiettivo di “Rising Lion”, risvegliare il Leviatano e produrre quella condizione che attribuisce alla guerra una autonomia assoluta. La guerra va da sé, adesso, e non vi saranno né parlamenti, né congressi di istituzioni nazionali o internazionali, in grado di fermare niente.
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Adesso solo i militari, le armi di distruzione di massa hanno il potere di decidere. La politica, nazionale e mondiale si adeguerà a ciò che sarà il risultato che produrrà la guerra. La svolta storica di cui parla il premier israeliano congratulandosi con Trump assume innanzitutto la forma di una definitiva archiviazione del “due popoli due Stati” riguardo la questione palestinese: vi sarà solo Israele, dal fiume al mare, e probabilmente inizierà l’istituzionalizzazione di una forma di apartheid per gli abitanti che saranno sopravvissuti a Gaza e non deportati in altri paesi, e per quelli della Cisgiordania già assediati da oltre settecentomila coloni israeliani. Ma appunto, questo è solo un effetto, quello forse più evidente, ma dentro una terra sconosciuta che è il nuovo ordine mondiale che si formerà forse dopo anni da ora: gli altri attori in campo, gli altri signori della guerra non staranno certo a guardare. La guerra globale ha compiuto un salto tale, molto più in profondità che con l’invasione americana dell’Iraq di inizio millennio, capace di indirizzare o “attrarre” a sé in un unico grande fronte la guerra in Ucraina e tutti gli scenari aperti nel mondo, circa 50. Non sfugge che questo salto di qualità costringe tutti i player del mercato globale a diventare signori della guerra e in guerra. La Cina, grande madrina della repubblica islamica, che mosse metterà in campo? L’India, la Russia, i Brics, tutto il resto del mondo, come reagiranno? E per l’Europa, drammaticamente destrutturata, quali saranno le evoluzioni?
Tutto è aperto dopo l’altra notte, con il Leviatano risvegliato e sciolto dalla catena. La guerra oggi si rappresenta come entità autonoma che non ha bisogno di una politica capace di governarla. La combinazione tra la globalizzazione neoliberista che ha messo al centro il mercato come paradigma della governance, dove produzione e vendita di armi costituiscono la prima voce di valorizzazione e di accumulo privato di ricchezza, ma produzione, vendita e accumulo di armi che rappresentano anche il sostegno al debito pubblico dei principali paesi occidentali, e il superamento della vecchia architettura di regole e convenzioni, forme sociali e politiche, che hanno imbrigliato per alcuni decenni lo scatenarsi della guerra come unico processo regolativo possibile, mostrano davanti a noi oggi una forma della guerra che si muove in autonomia. Esemplare in questo senso proprio la parabola americana: Trump il “pacifista”, eletto su mandato del popolo per “far finire in due settimane” le guerre in corso, si mette alla testa di una avventura bellica dalle conseguenze ignote, e scatena contemporaneamente una guerra civile all’interno del proprio paese. Come fosse trascinato da qualcosa che nemmeno lui può più controllare. Le ragioni, i torti, il chi ha iniziato e perché, non contano più assolutamente nulla. L’aggressione ogni volta e chiunque la conduca, necessità di difesa, e l’aggredito ogni volta, chiunque esso sia, “è il male del mondo”. Le Nazioni Unite sono state polverizzate e gli appelli e le considerazioni che giungono dal palazzo di vetro, non hanno nemmeno la postura del diritto di tribuna. Sembrano parole prive di alcun senso, orazioni funebri a delitto compiuto.
In tutto questo, le popolazioni civili sembrano enormi enclave umane prese in ostaggio dalla guerra delle macchine volanti, dei missili, dei satelliti. Vivono sottoterra se vi hanno accesso, ma prima o poi, come a Gaza, dovranno cercare da mangiare, da bere. E lì magari, proprio come a Gaza, verranno uccisi, fatti a pezzi. Forse discutono e provano ad organizzarsi per fare l’unica forma di resistenza efficace e possibile, ribellarsi ai loro regimi, che tutti, democratici o autoritari che siano, gli impongono di essere ostaggi e martiri futuri, uno dopo l’altro. Ma non è facile, quando ti cadono le bombe sulla testa da parte di quelli che dicono di “volerti liberare”. Il senso che si vorrebbe dare ai “bombardamenti chirurgici” dell’altra notte è questo: lanciare il messaggio agli iraniani e alle iraniane, che già ben conoscono la ferocia di chi li comanda, che questa guerra è contro il regime, non contro il popolo.
Ma la forma della guerra, come a Gaza, come nei villaggi ucraini, abbandona rapidamente questa dimensione: la guerra ha bisogno di nutrirsi di morte provocata al nemico attraverso la produzione dell’immaginario della sua incapacità di poter proteggere il proprio popolo: il massimo della vittoria possibile su un avversario che perde così ogni possibilità di poter “rappresentare” gli interessi del popolo, primo fra tutti quello di potersi difendere. E dunque i grandi orrori ai quali in guerra ci si deve abituare diventano parte della strategia militare. Uccidere bambini, sparare sulla folla presa per fame, bombardare le città e gli ospedali. La guerra è questa, e la sua natura non si inganna travestendo da chirurgo un macellaio. È a tutti loro, agli esseri viventi in ostaggio, che va oggi il mio pensiero, la mia preghiera. Prego che riusciamo a trovare il modo di aiutarci tutti e tutte, uno con l’altra, noi ostaggi. Prego di trovare prima un rifugio, poi una via di fuga, per poter sopravvivere a questo inferno.