Il presidente dell'Arci

Parla Walter Massa (Arci): “A Gaza è sadismo, il governo italiano è ipocrita”

«Insopportabile la cantilena dei “due popoli, due Stati” da chi non ha mai avuto il coraggio né la volontà politica di riconoscere simbolicamente uno dei due. Quello che ho visto e sentito a Rafah non si cancella, perché all’orrore non ci si abitua»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

3 Giugno 2025 alle 08:00

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Photo credits: Andrea Panegrossi/Imagoeconomica
Photo credits: Andrea Panegrossi/Imagoeconomica

Walter Massa, Presidente nazionale dell’Arci: Due milioni di palestinesi vivono in una condizione infernale. A Gaza si muore di bombe, ma anche di fame e di impossibilità di cura. L’Europa moltiplica vertici sull’Ucraina, mette in campo i “volenterosi” in armi. Ma per Gaza non ci sono “volenterosi” a Bruxelles e nelle cancellerie europee.
La situazione nella Striscia di Gaza dalla fine del 2023 è apocalittica. Lo sanno tutti: lo sanno le cancellerie, lo sa l’Onu, lo sanno le agenzie umanitarie che ogni settimana rilasciano rapporti sempre più drammatici. È per questo che a marzo 2024 abbiamo promosso la prima Carovana verso il valico di Rafah, ed è per questo che ci siamo tornati poche settimane fa: per mantenere accesa la luce su una catastrofe umanitaria senza precedenti, frutto di politiche coloniali e razziste portate avanti da uno Stato — l’unico al mondo — che non si può criticare senza pagare un prezzo politico altissimo. La complicità internazionale di cui gode Israele, silenziosa o esplicita, è fuori da ogni logica di giustizia e buon senso. È indubbiamente complicità politica che mette in luce una convergenza di impostazione, di metodo e di obiettivi. Intendo che Netanyahu non è tollerato e coperto perché il leader del governo israeliano ma lo è in virtù della sua indubbia appartenenza a questa destra iperliberista, conservatrice e sovranista dei vari Trump, Milei, Orban, Meloni e Salvini. Mentre Gaza muore, Bruxelles tace o balbetta. Per l’Ucraina si moltiplicano vertici, missioni, finanziamenti e armi; per Gaza nemmeno l’ombra di una volontà politica di pace o giustizia. Due milioni di esseri umani intrappolati sotto le bombe, nella fame, senza cure, in totale violazione del diritto internazionale, sembrano non meritare indignazione né azione. E ciò che accade in Ucraina è, a suo modo, altrettanto inquietante. Lo dicevamo già da tempo, anche su queste pagine: la guerra è stata il pretesto perfetto per rilanciare la corsa agli armamenti, mascherare il fallimento delle politiche industriali europee e distrarre l’opinione pubblica dalla crisi di legittimità e rappresentanza che attraversa l’Unione. Il popolo ucraino è diventato l’anello sacrificale ideale: vi armiamo per difenderci, svuotiamo i vecchi arsenali, rilanciamo la produzione bellica. E in cambio, come ha detto senza vergogna il presidente Usa, ci prendiamo “il pizzo” delle terre rare. Se questi sono i “volenterosi” che devono salvare l’Ucraina, siamo messi male. È il momento di chiedersi dove sono stati e dove sono i volenterosi della diplomazia dentro le Istituzioni. Chi si mobilita per la vita, per la giustizia, per il diritto dei popoli all’autodeterminazione. L’Europa sta fallendo anche in questo. E noi non possiamo permetterci di tacere.

Come presidente nazionale dell’Arci ha partecipato alla Carovana della solidarietà che si è spinta fino a Rafah, ai cancelli dell’inferno. Cosa si è portato con sé da quella esperienza?
Mi sono portato via immagini e suoni che non si cancellano facilmente. Ed è il secondo anno a testimonianza che di fronte all’orrore non ci sia abitua. La Carovana per Rafah si conferma un’esperienza umanamente e politicamente avanzata di questi tempi di individualismo e sordità: arrivare fino al valico di Rafah, ai cancelli dell’inferno, e sentire i bombardamenti a dieci km circa da noi, a Khan Yunis, è stato angosciante. Non tanto per noi e per la nostra sicurezza ma per quello che stava accadendo là, per le decine di migliaia di umani, donne e bambini che da oltre 18 mesi vivono quotidianamente quell’angoscia di non sapere se sopravviveranno a quel bombardamento, e se ci riusciranno l’angoscia non finirà perché non ci sarà certezza di trovare cibo, acqua potabile o medicinali. Ecco, essere lì e vivere quasi in prima persona tutto ciò, mentre per troppo tempo le cronache hanno ignorato o raccontano in modo distorto, cambia radicalmente il modo in cui si guarda al mondo. L’anno scorso parlai di sadismo; quest’anno non posso che confermare che quel sadismo non è stato il frutto di casualità o escalation ma di una vera e propria pianificazione politica e militare che, proprio in queste ore comincia a mostrare i suoi limiti in modo sempre più evidente. Non mi si prenda per esagerato, ma la forza della Carovana è stata proprio quella di erodere giorno dopo giorno, con ostinazione, con le parole e con i fatti andando a quel confine maledetto, quella narrazione tossica creata ad arte in primis dal governo israeliano capace di dichiararsi vittima mentre stava annientando un popolo e poi dai vari governi occidentali ancora convinti che quella di Israele fosse in fondo l’unica democrazia presente nell’area. Follia. Una forza, la nostra, perché ha messo insieme realtà diverse tra loro per composizioni e compiti (parlamentari, giornalisti, associazionismo e Ong) ma con l’obiettivo di contrastare quella narrazione e tenere accesa sempre una luce su Gaza e sulla Cisgiordania. E in mezzo a tutto questo, la fortuna di continuare ad incontrare e incrociare volutamente un popolo che non ha perso la propria umanità, che chiede solo giustizia e pace, non pietà. Mi porto a casa anche una consapevolezza ancora più forte: la solidarietà non può essere un gesto simbolico, né un riflesso episodico. Deve diventare pratica politica quotidiana, presa di posizione netta, azione collettiva. Perché quello che abbiamo visto riguarda tutti noi. Riguarda l’idea stessa di civiltà, di convivenza, di democrazia. E ci interpella come cittadini, come associazioni, come Europa. E non solo.

Cos’altro deve accadere perché l’Italia riconosca lo Stato di Palestina e segua gli altri Paesi europei nel bloccare gli accordi commerciali con Israele?
La domanda dovrebbe essere capovolta: cos’altro deve accadere perché non si continui a rimanere in silenzio? Non è ormai insopportabile ascoltare la cantilena ipocrita dei “due popoli, due Stati” ripetuta da chi non ha mai avuto il coraggio – né la volontà politica – di riconoscere simbolicamente uno dei due ipotetici Stati? Come si fa a tollerare ancora? Come si fa a votare contro una mozione in Parlamento che chiedeva proprio questo? Qual è la motivazione? Di fronte a decine di migliaia di morti civili, alla distruzione sistematica di Gaza, alle denunce di gravi violazioni del diritto internazionale da parte di organismi indipendenti e della stessa Corte penale internazionale, l’Italia continua a trincerarsi dietro l’ambiguità diplomatica. È un ritardo politico e morale che pesa – tanto più ora che non esistono più scuse. Altri Paesi europei – come Spagna, Irlanda, Norvegia – hanno mostrato che esiste una strada diversa, fatta di coerenza con i valori democratici, di difesa del diritto internazionale e di pressione concreta per fermare un genocidio che si consuma ogni giorno. Riconoscere lo Stato di Palestina e sospendere gli accordi commerciali con Israele sono passi minimi, non gesti estremi. Ma la sudditanza del nostro governo a questo asse della destra ultraliberista impedisce, per scelta inequivocabile, di compiere anche i gesti più ovvi. Si continua a guardare da una parte sola per compiacere equilibri che si dimostrano ogni giorno più insostenibili, alimentando anche quella sensazione di restrizione delle libertà che nel nostro Paese si percepisce sempre più chiaramente in fatto di politica estera.
Sarebbe ora, invece, che l’Italia tornasse a svolgere un ruolo euro-mediterraneo, dalla parte del diritto, della pace e della dignità dei popoli.

Siamo nella settimana che ci poterà ai referendum. Cittadinanza, lavoro, diritti sociali. Grandi temi, quelli posti dai 5 quesiti referendari, su cui l’Arci si è spesa molto in questi anni.
L’Arci è da sempre impegnata su questi fronti, perché cittadinanza, lavoro e diritti sociali non sono parole astratte per noi: sono il cuore del nostro progetto politico, la strada da cui veniamo e sulla quale abbiamo costruito questa rete associativa nazionale, che proprio in questi giorni ha compiuto 68 anni. Insieme a solidarietà e cultura, rappresentano il centro della nostra idea di democrazia. I cinque quesiti referendari parlano della vita concreta delle persone, delle disuguaglianze che attraversano il nostro Paese, della necessità di ridare senso alla parola “uguaglianza”. Per questo, anche oggi, ci spendiamo con convinzione, e lo abbiamo fatto sin dal primo momento, anche quando sembrava impossibile — quasi folle — raccogliere in un mese oltre 500 mila firme per il referendum sulla cittadinanza. Il referendum è uno strumento potente, anche se troppo spesso ostacolato. È vero, per lungo tempo non è stato il nostro strumento preferito, e a ragione: c’era la politica, e proprio quando la politica non riusciva a dare risposte su questioni fondamentali si interveniva con i referendum. C’era una maggiore fiducia nella politica e nella classe politica che ci rappresentava, e forse una tensione alla partecipazione e alla “società” decisamente più forte. Ora andiamo a votare sui cinque quesiti referendari, e si determina subito l’esito. Non chiediamo a nessuno di rappresentare il nostro voto, ma scegliamo direttamente, rafforzando quel principio della chiamata alla responsabilità collettiva. L’Arci ritiene inoltre che questi quesiti rappresentino una base solida per un progetto politico non più fondato su parole come precarietà, flessibilità, insicurezza e discriminazioni. Abbiamo sostenuto le mobilitazioni per l’abolizione del Jobs Act, per una legge sulla cittadinanza più giusta e inclusiva, per difendere i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori nella società dei contratti precari e delle piattaforme digitali. Vogliamo mettere fine alle morti di chi esce di casa alla mattina per non farvi più ritorno: nel 2024, ad oggi, sono già 1009. In tutto questo, l’Arci non è mai stata spettatrice. È stata promotrice, parte attiva, voce collettiva. Ci ha messo sempre la faccia, come sempre, dalla parte di chi lotta per allargare i diritti, non per restringerli.

La seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Ignazio La Russa, proclama la sua intenzione di fare campagna per il non voto ai referendum dell’8 e 9 giugno. Che democrazia è questa?
Quando una delle più alte cariche dello Stato sceglie di fare campagna attiva per il non voto sui referendum, si mette in discussione uno dei pilastri fondamentali della democrazia: il diritto alla partecipazione diretta dei cittadini alle scelte che riguardano la loro vita. Il referendum è uno strumento di democrazia diretta che, seppur spesso sottovalutato o ostacolato, rappresenta un momento di grande responsabilità politica e sociale — un valore immenso soprattutto in questi tempi.
Ignazio La Russa, nella sua veste di Presidente del Senato, dovrebbe essere garante del rispetto delle istituzioni e della pluralità delle opinioni, non un attore che tenta di delegittimare un passaggio democratico cruciale. Fare campagna per il non voto significa alimentare un clima di sfiducia, apatia e disimpegno politico proprio quando il Paese ha bisogno di un’inversione di rotta, di un rilancio della partecipazione civica e di un rafforzamento dei diritti. Questa scelta, ovviamente, non è neutra e ci porta alla sostanza: è una chiara manifestazione di posizioni politiche che vogliono continuare a delegittimare la nostra Costituzione, quella che i padri politici di La Russa non hanno contribuito a scrivere e quella che, «camerati che sbagliavano» rispetto al Presidente, hanno provato ad affondare con la stagione dello stragismo degli anni Settanta, con inquietanti e ormai certe collusioni con apparati dello Stato deviati e forze politiche straniere interessate a mantenere il Paese dentro la strategia della tensione.

C’è dell’altro?
Ritengo inoltre che la scelta di La Russa sia finalizzata a sostenere le posizioni padronali, a conservare uno status quo fatto di precarietà, disuguaglianze e esclusioni, opponendosi all’allargamento dei diritti e delle tutele sociali che questi referendum rappresentano. Non proprio l’underdog che ha fatto sognare un quinto del Paese, ecco. Va anche detto che l’uscita del Presidente del Senato ci ha fatto guadagnare qualche punto percentuale… Per questo, di fronte a gesti come questo, l’Arci rilancia il proprio impegno per sostenere la mobilitazione e invitare tutte e tutti a votare, a non rinunciare al proprio potere e alla propria responsabilità di cittadini.

Questi sono tempi di precarizzazione, di povertà da lavoro e non solo di disoccupazione. Una enorme questione sociale irrisolta.
Viviamo in un tempo in cui la precarietà non è più solo una condizione del lavoro, ma una vera e propria piaga sociale che tocca la vita di milioni di persone. Non è solo la disoccupazione a pesare, ma la povertà da lavoro: avere un impiego che non garantisce né stabilità, né dignità, né futuro. Questo è il risultato di decenni in cui si è imposto un modello che ha esaltato l’individualismo, la flessibilità estrema, la competizione esasperata, e ha progressivamente indebolito i diritti e la solidarietà.
Guardando oltreoceano, vediamo come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez stiano cercando di ricostruire una comunità politica e sociale attorno a valori chiari: no all’autoritarismo, no all’oligarchia. Aggiungerei contro questo capitalismo che ha distrutto la nostra esistenza e il nostro futuro rendendoci schiavi, sudditi e consumatori, invece che cittadine e cittadini. Non è una questione generazionale; attraversa tutte le età e si fonda sulla paura, sullo sconforto e sulla disillusione di ampi settori della popolazione. Io la definirei una questione di classe ma non vorrei spaventare qualcuno. E in tutto ciò, intanto, l’Europa continua a investire enormi risorse nella militarizzazione e nella difesa, senza affrontare davvero le cause profonde delle disuguaglianze e della precarietà. È un paradosso che rischia di minare la stessa idea di democrazia, trasformandola in un sistema che difende solo i più forti, a scapito dei più deboli. E tra i più deboli, prima o poi, ci finiremo tutti.
Anche noi in Europa, e in Italia, abbiamo bisogno di ripartire da questo senso di comunità, di vicinanza e di lotta collettiva. Per questo l’Arci è impegnata nel chiedere un cambio radicale, un progetto che rimetta al centro il lavoro come diritto fondamentale, la dignità di tutte e tutti, e la costruzione di una società più giusta e inclusiva. Solo così potremo dare risposta concreta a questa enorme questione sociale e restituire speranza a chi oggi non riesce nemmeno a immaginare un futuro diverso.

3 Giugno 2025

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