La carovana a Rafah
Reportage da Gaza, dove è più facile morire che sopravvivere
Gli aiuti bloccati a Rafah mentre migliaia di bimbi muoiono di fame, la strage di giornalisti palestinesi, i superstiti che si nutrono di erba e fanno km ogni giorno per sfuggire alle bombe. Ecco cosa abbiamo visto in questi quattro giorni nella Striscia dove si consuma nel silenzio un genocidio

Il tempo delle parole è finito. Giovedì 16 maggio siamo arrivati al Cairo, direzione valico di Rafah, al confine tra Egitto e Striscia di Gaza, insieme alla delegazione della missione “Gaza oltre il confine”. Abbiamo poi raggiunto Rafah con parlamentari, eurodeputati, giornalisti, attiviste, operatori umanitari, per tentare ancora una volta di spezzare il silenzio. Per vedere con i nostri occhi ciò che troppi preferiscono ignorare, per raccontare la verità e chiedere giustizia per il popolo Palestinese. Per chiedere con forza l’interruzione immediata di ogni rapporto commerciale tra UE e Israele, sanzioni politiche e diplomatiche contro il governo Netanyahu, l’ingresso urgente e senza condizioni degli aiuti umanitari nella Striscia, meccanismi internazionali vincolanti per proteggere la popolazione civile. Abbiamo raccolto testimonianze, guardato negli occhi chi è stato costretto a fuggire dall’orrore e chi continua a resistere sotto le bombe.
Giorno 1
Il viaggio inizia al Cairo, dove ogni voce ascoltata ci consegna già un peso difficile da raccontare. Un dolore non solo umanitario, ma politico. Quello che sta accadendo a Gaza è un genocidio. E la comunità internazionale non può più girarsi dall’altra parte. Abbiamo iniziato la missione con un minuto di silenzio in memoria di Ali Rashid, politico italiano di origini palestinesi, figura storica del dialogo e della cooperazione in Medio Oriente. Poi i racconti dei giornalisti palestinesi sfollati al Cairo: “Siamo diventati bersagli. Non ci colpiscono solo mentre documentiamo, ma in casa, con le nostre famiglie. Quei giubbotti con la scritta ‘Press’ sono diventati un mirino”. Hanno perso 217 colleghi, 27 erano donne. Altri 48 sono detenuti, più di 400 feriti. Eppure continuano a raccontare, con un telefono, una telecamera, la loro voce, l’orrore quotidiano che hanno davanti. A Gaza fare informazione è un atto di resistenza. Non hanno più dispositivi di sicurezza, prima uscivano senza, poi hanno iniziato a costruirli da sé, con il cartone e la spugna, giusto per identificarsi come stampa.
Abbiamo incontrato anche operatori umanitari e attiviste. Una donna palestinese con disabilità ci ha raccontato di aver camminato per 18 chilometri senza cibo, acqua né un bagno accessibile, per sfuggire ai bombardamenti. Ora fa la volontaria a sostegno di altre donne disabili. Un giovane di Gaza ci ha detto: “Ho cambiato casa nove volte per sopravvivere. Una notte, sotto le bombe con mia madre, ci siamo salutati perché pensavamo di morire”. La popolazione è allo stremo. Oltre 50.000 morti, ospedali al collasso, feriti che giacciono in tende lungo la strada, donne che cercano cibo per i figli senza avere neppure un bagno. È carestia. È isolamento. È morte. Ma anche dignità che resiste a tutto. Si tratta dell’annientamento deliberato di un popolo. Chi lavora da decenni a Gaza ci ha detto: “Non è un conflitto, è una distruzione programmata. Il 90% dei terreni agricoli è stato raso al suolo. Il 100% della pesca e dell’allevamento annientato. Le donne al nord si nutrivano di erba”. Le ONG locali parlano di crimini contro l’umanità. Chi difende i diritti umani a Gaza ci ha mostrato prove, dati, documenti. Alcuni si battono da anni per ottenere giustizia nei tribunali internazionali.
Giorno 2
Abbiamo viaggiato per più di 7 ore fino ad Al-Arish, nel nord del Sinai. Manca poco a Rafah, il valico che separa il mondo dalla tragedia umanitaria congegnata da Israele. Attraversando il deserto il sole era implacabile: più di 40 gradi durante il giorno. Penso a quello che ci è stato raccontato ieri dai profughi incontrati al Cairo. Ci hanno detto che a Gaza è più semplice morire che sopravvivere. E che, a volte, morire è quasi preferibile in quell’orrore. Domani proveremo a raggiungere il valico di Rafah, dove tutto è bloccato da più di 70 giorni. Nessuno entra, nessuno esce. Neanche i bambini feriti. Ce lo ha raccontato anche il responsabile della Mezzaluna Rossa egiziana: da marzo il confine è totalmente chiuso. Prima riuscivano almeno a far entrare qualcosa, col contagocce. Ora, più nulla. Con la delegazione ci fermiamo a riflettere e condividere le azioni da mettere in campo per tentare di far sì che questi orrori finiscano al più presto. La comunità civile, politica e accademica a supporto della popolazione Palestinese è attiva e unita nel voler fermare il genocidio, nel far sentire a chi è sotto le bombe che non è solo.
Giorno 3
Dopo una notte accompagnata dai tonfi incessanti delle bombe in lontananza, ci rechiamo al confine di Rafah. Il cancello rimane chiuso. Dietro di noi c’è la polvere del deserto, davanti l’inferno. Gaza è a pochi passi, ma rimane inaccessibile: fuori da quel confine restano migliaia di tonnellate di aiuti umanitari. Acqua, cibo, medicinali. Le Nazioni Unite sono state espulse. I camion restano parcheggiati. Le persone, dentro, continuano a morire. Un crimine senza precedenti: mai nella storia del diritto internazionale un Paese ha potuto bloccare così a lungo l’accesso agli aiuti per una popolazione interamente dipendente da essi. E la comunità internazionale continua a voltarsi dall’altra parte. Sentiamo il rumore delle bombe dietro di noi. I droni non smettono di sorvolare le nostre teste.
Abbiamo scelto di rispondere all’indifferenza di leader e governi europei con un’azione simbolica, ma forte. Davanti al valico di Rafah abbiamo disposto sull’asfalto vestiti, zainetti, peluche, scarpine da bambine: oggetti che parlano di vite spezzate, di infanzie negate. Le sagome disegnate a terra, come quelle usate per segnare i corpi nei rapporti di guerra. Intorno, i volti dei leader europei – gli stessi che scelgono di non agire – accompagnati da uno striscione con la scritta “STOP COMPLICITY”: per dire ai governi nazionali e all’UE che noi non ci voltiamo dall’altra parte. Intorno al valico non ci sono più tir, niente entra da così tanto tempo che non ha senso tenerli parcheggiati lì: sono lungo la strada, intorno ai magazzini. Si stanno costruendo nuovi magazzini per conservare tutto, per essere pronti non appena Israele permetterà la ripresa degli aiuti. Gli operatori umanitari sono pronti, la parte egiziana è pronta, ma il valico resta chiuso. Migliaia di camion sarebbero pronti a partire, 1500 a Rafah e 9000 tra tutti gli altri passaggi. Un giorno d’attesa costa 100 dollari per ogni camion fermo.
Nei magazzini egiziani ci sono scorte pronte da mesi: farina, acqua, biscotti, medicinali, vaccini, garze, latte in polvere. Non può entrare niente. A pochi minuti da lì ci sono 900mila bambini che muoiono di sete e fame. E poi ci sono i beni a cui Israele non ha mai permesso l’accesso: incubatrici, respiratori, bombole d’ossigeno, ambulanze, filtri per l’acqua, lettini operatori, torce con pannelli solari, frigoriferi per i vaccini. Tutto respinto, perché considerato “pericoloso”. Non possiamo più aspettare, come testimoniato da una donna che ci ha supplicati: “Buttate delle bottiglie d’acqua oltre il confine. Mia madre ha sete, non c’è più un goccio d’acqua potabile”. Le persone stanno morendo di fame, di sete, sotto le macerie. Questo è un genocidio. E noi non ci stancheremo mai di denunciarlo, ma i nostri governi hanno il dovere di fermarlo. Lo gridiamo a gran voce: chi resta in silenzio è complice. Chi ha potere deve usarlo, o sarà responsabile. Noi continueremo a lottare, a denunciare, a chiedere giustizia.
Giorno 4
La missione a Rafah si conclude con una visita alla Lega Araba, che chiede con forza alla comunità internazionale di fermare Netanyahu. Nel frattempo, l’ospedale indonesiano di Beit Lahiya è stato evacuato. La popolazione continua a fuggire verso la zona “umanitaria” di al-Muwasi. Israele ha annunciato un allentamento minimo del blocco, solo per evitare che la carestia comprometta l’operazione militare, come affermato dallo stesso Netanyahu. Tale dichiarazione è legata al tentativo di controllo degli aiuti stessi. Come ci raccontano le organizzazioni umanitarie operanti sul territorio (Nazioni Unite, Ocha, UNWRA, Oxfam), il piano israeliano finale prevede di far gestire gli aiuti umanitari dall’esercito e di limitarli in tre quattro hub di distribuzione. Le persone – compresi anziani, bambini, donne, feriti – sarebbero costrette a lasciare definitivamente la loro terra e spostarsi a piedi per lunghissime distanze, perché le porzioni saranno distribuite solo lì e solo ai singoli previa identificazione con tecnologie biometriche. Il piano comporterebbe un esilio forzato, controllato dalla necessità di ricevere cibo e acqua, dato che l’autoproduzione è resa impossibile da Israele. Allo stesso modo, si costringerebbe la popolazione palestinese in piccole aree specifiche, decise e controllate da Israele.
Una strategia, che trova il biasimo anche degli operatori delle Nazioni Unite, che ci confermano il loro profondo scetticismo sulla possibilità di consegnare cibo a 2 milioni di persone tramite così pochi hub e senza garantire un cessate il fuoco. Gli stessi ci hanno comunicato il loro rifiuto a contribuire al programma, decisi a far valere il principio umanitario dell’offerta di aiuto a chiunque ne abbia bisogno e nel modo più agevole possibile. Questo disegno sembrerebbe un preludio al già annunciato piano israeliano di occupazione totale della Striscia, che però è già considerata un territorio occupato da Israele. La volontà di Netanyahu è chiaramente quella di concludere una pulizia etnica, deportando forzatamente tutti i palestinesi dalla Striscia per annetterla ad Israele. Parlando con lo staff dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA) e della Mezzaluna Rossa, emerge una verità devastante: nessun Paese nella storia aveva mai impedito per così tanto tempo l’accesso agli aiuti umanitari in un’area sotto attacco e tanto densamente popolata. L’Agenzia dell’ONU per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi in Medio Oriente (UNRWA), unica in grado di garantire il 60% dei servizi essenziali, è stata di fatto estromessa. La paura è che, se violazioni simili continuano ad essere accettate dagli Stati Membri delle Nazioni Unite, si possa mettere in discussione l’impalcatura stessa del sistema di protezione umanitaria multilaterale, creando un precedente pericoloso per tutti noi.
È tempo di agire contro il genocidio a Gaza. L’ostruzione sistematica degli aiuti umanitari, l’uso del blocco come strumento di guerra, la devastazione deliberata di ospedali e infrastrutture civili non sono incidenti, ma elementi di una strategia precisa di genocidio, deportazione e annessione, che calpesta ogni norma del diritto internazionale e umanitario. Per questo, come rappresentanti delle Istituzioni italiane ed europee e della società civile italiana presenti alla Carovana solidale per la Palestina, rivolgiamo un appello urgente all’Unione Europea, a tutti i governi nazionali e al governo italiano: serve un cambio di rotta immediato. Chiediamo l’interruzione di ogni forma di rapporto politico, economico e militare con Israele, fino al pieno rispetto del diritto internazionale e al cessate il fuoco permanente, con garanzie di autodeterminazione della popolazione palestinese.
Chiediamo il sostegno pieno e concreto alle agenzie umanitarie operanti nei Territori Occupati, a partire dal rifinanziamento dell’UNRWA. Venga esercitata ogni pressione diplomatica per l’apertura dei valichi e il passaggio sicuro degli aiuti umanitari a Gaza, l’Italia e l’Europa sostengano con forza gli strumenti giuridici internazionali per giudicare i crimini commessi e si applichi la Convenzione sul Genocidio. Non si può continuare a dichiararsi preoccupati mentre si mantengono attivi accordi militari, si sospendono fondi essenziali o si giustificano ritardi inaccettabili. Il tempo della neutralità è scaduto. Restare in silenzio significa essere corresponsabili. È tempo di assumersi le proprie responsabilità: fermiamo il genocidio a Gaza.
*Europarlamentare Avs
**Deputato Avs