Il voto dell'8 e 9 giugno
È con il lavoro che avanza la democrazia, la grande occasione del referendum sul Jobs Act
La gabbia democratica costruita attorno al capitalismo nel secondo novecento si sta rompendo. Il mito della flessibilità ha fatto disastri. La sinistra ha sostituito il valore-lavoro con l’ossessione per la conquista del governo
Politica - di Francesco Sinopoli

Abbiamo dimenticato troppo in fretta quanto la democrazia costituzionale fosse legata alla partecipazione politica del lavoro organizzato. Nel novembre del 1977, Bruno Trentin, al convegno di Venezia sulla crisi democratica dei Paesi socialisti, evidenziava esattamente ciò che aveva visto nella sua esperienza fino ad allora: “la democrazia avanza nel mondo con il movimento operaio, con le sue lotte e persino le istituzioni, come le intendiamo oggi, recano le impronte delle lotte operaie. La democrazia non procede più, non avanza più, senza questo protagonista fondamentale. La diffusione della libertà nel mondo dipende così dalla storia concreta del movimento operaio, dalle sue avanzate non certo dalle fortune della liberaldemocrazia”.
Trentin aveva certamente ragione. Le istituzioni come le intendiamo oggi recano le impronte del movimento delle lavoratrici e dei lavoratori: basti pensare che nel 1892, quando nacque, Giuseppe Di Vittorio non aveva il diritto di voto. Quel popolo di lavoratori e lavoratrici viveva una condizione separata dallo Stato. Prima della costituzionalizzazione delle masse popolari, l’estraneità dello stesso associazionismo bracciantile e operaio all’interno della società e dello Stato liberale corrispondeva all’apoliticismo di chi per vivere aveva bisogno di vendere il proprio corpo, il proprio tempo. Apoliticismo nel senso di non partecipazione alla polis. La Confederazione generale del lavoro già negli anni che vanno dal 1906 al 1911 si impose come organismo di rappresentanza degli interessi del mondo del lavoro attraverso una piattaforma programmatica autonoma dallo Stato e dalle forze politiche che lo animavano.
Questo farà dire ad Alfredo Rocco, nel 1920, che lo Stato stava perdendo gli attributi della sovranità e si dissolveva in una moltitudine di corpi minori: associazioni, leghe, ma soprattutto sindacati che lo vincolavano, che lo soffocavano. In realtà, nasceva dal basso quella che, grazie alla guerra di liberazione e alla sconfitta del nazifascismo, sarà la democrazia costituzionale plasmata dalle lotte bracciantili prima e poi operaie. Solo attraverso quella conflittualità diffusa e prevalentemente organizzata sarà possibile l’avanzamento della democrazia sociale. Oggi ne misuriamo la crisi profondamente connessa ad una nuova separazione delle masse dalla vita pubblica, dalla polis. Esito di oltre trent’anni di progressivo impoverimento, negazione di opportunità, privazione di diritti. Se dallo Stato non ti aspetti nulla, smetti di credere anche nella democrazia, pensi che nulla da questa ci si debba aspettare. Smetti di praticarla, soprattutto se nel tempo si è atrofizzata limitandosi all’esercizio del diritto di voto. La fase di crescita e di espansione dei diritti del lavoro e di cittadinanza ha coinciso con una straordinaria stagione di lotte che dai luoghi di lavoro si sono diffuse in tutti gli ambiti della società.
La demercificazione del lavoro è andata insieme alla democratizzazione della società. Il lavoro libero e dignitoso è il lavoro che ha voce e che può esprimersi. Su questo si basa l’identità del sindacato, le strategie della trasformazione sociale, le vie dell’emancipazione e della liberazione della persona che lavora, incrociando temi e questioni centrali per la nostra storia e cultura politica, come appunto quelle dell’autonomia, dell’autogoverno, della democrazia radicale. Un investimento straordinario nella partecipazione diretta dentro e fuori i luoghi di lavoro. Si tratta di parole-chiave e idee-forza che rimandano ad una visione della democrazia che non si esaurisce nella delega, ma che ha nella partecipazione attiva e nell’autodeterminazione dei soggetti la propria linfa vitale. La democrazia continua della nostra Carta costituzionale che non a caso ha previsto all’articolo 39 un modello sindacale ispirato anche a questi principi. Una democrazia fondata appunto sul lavoro e sull’allargamento degli spazi di partecipazione.
Solo se si riparte dal lavoro e dalla sua rappresentanza democratica potremo imprimere un cambiamento profondo nel nostro modello sociale ormai insostenibile. Quindi è solo nella ripresa di una diffusa partecipazione democratica che ciò sarà di nuovo possibile. È proprio quella partecipazione che andrebbe promossa in tutte le sue forme all’interno di una nuova pedagogia democratica fondata sulla speranza. Questo è ciò che facciamo, questo ciò che faremo. È chiaro il nostro sforzo di riproporre al centro della riflessione pubblica, attraverso i referendum, la condizione del lavoro precario e insicuro, consegnando alle cittadine e ai cittadini il potere di decidere direttamente con il voto sulla loro condizione. Occorre restituire al lavoro la sua dignità e quindi la sua dimensione politica, la sua voce, ma la chiave è quella della democrazia: democratizzare il lavoro per democratizzare la società. E il referendum è uno dei modi possibili, parte di un progetto più ampio volto a rilanciare l’applicazione dell’articolo 39 della Costituzione come asse portante di una rinnovata strategia partecipativa delle lavoratrici e dei lavoratori.
Un percorso di mobilitazione che si intreccia alle vertenze per i rinnovi contrattuali e alle proposte di legge di iniziativa popolare che presenteremo nelle prossime settimane. Senza dimenticare che il salario minimo e il reddito di cittadinanza devono essere anch’essi parte di una proposta adeguata alla sfida del tempo presente. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: se la vera crisi della democrazia è la crisi della partecipazione, ciò dipende dalla progressiva perdita di valore del lavoro. La politica ha cancellato il lavoro dalla sua agenda da molti anni assecondando la deriva di un modello sociale plasmato sull’idea che tutto può essere ridotto a merce, a partire dalla vita che si esprime nel lavoro, passando per l’istruzione, la salute e l’ambiente. In questo, la sinistra politica ha una responsabilità diretta, avendo scelto di allontanarsi dalle vicende del lavoro salariato da molto tempo, da quando, cioè, prevalse l’idea che il vero obiettivo risiedesse nella conquista del governo a prescindere dai programmi.
Per queste ragioni riflettere sul “mercato del lavoro” partendo solo dai dati dell’occupazione rimuovendo i presupposti politici e ideologici sottesi alle scelte del legislatore rispetto alla regolazione dei rapporti di lavoro è un errore grave. Lo è sempre stato ma oggi, a fronte della verifica empirica delle conseguenze reali sul fronte occupazionale di una delle scelte più marcatamente ideologiche di questi ultimi anni, cioè la sostanziale manomissione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ad opera della legge nota come Jobs Act, lo è ancora di più. L’analisi degli andamenti dell’occupazione negli ultimi 10 anni, di cui abbiamo presentato un quadro dettagliato insieme ad una riflessione ampia e articolata sui salari, sull’organizzazione del lavoro, sulla qualità del lavoro, sulla rappresentanza, lo testimonia chiaramente. Dimostra in modo incontrovertibile quello che molti avevano sempre sostenuto.
Tradotto: la così detta flessibilità, mantra delle policy sul lavoro già dalla prima metà degli anni ’80, diventata negli anni ’90 idea egemone nel discorso pubblico come via per uscire dalla sottoccupazione, in particolare di determinate categorie di lavoratrici e lavoratori, si è rivelata ininfluente rispetto agli obiettivi dichiarati (aumentare la famosa competitività) e disastrosa sotto il profilo delle conseguenze umane ed economiche. Ha contribuito a deprimere l’andamento dei salari, ha penalizzato e penalizzerà le casse previdenziali, ha assecondato un modello di specializzazione produttiva centrato sui beni a basso valore aggiunto, tutto questo senza incidere sui volumi di lavoro domandato e offerto, chiaramente rispondenti ad altri stimoli come dimostra quello che è accaduto dopo il Covid grazie all’aumento della spesa pubblica.
Già dalla prima metà degli anni ’80, appunto nell’ambito di una certa teoria economica, iniziava ad avanzare l’idea che contratti di lavoro troppo rigidi scoraggiassero le assunzioni. Lo statuto dei lavoratori aveva poco più di 10 anni, le gigantesche lotte sociali di cui rappresentava uno dei maggiori risultati ancora fresche nella memoria ma ben più fresche le conseguenze della crisi economica della seconda metà degli anni ’70, le pesanti ristrutturazioni produttive a partire dalla crisi dell’Auto e della Chimica, le grandi trasformazioni tecnologiche determinate dalla digitalizzazione nel contesto della globalizzazione dei mercati. È accaduto in un tempo brevissimo che questa teoria economica e alcune teorie sociologiche sull’organizzazione del lavoro nell’impresa da essa influenzate, mantenendo un’ottica esclusivamente specialistica, siano diventate punto di riferimento incontrastato nel dibattito pubblico. La narrazione mainstream diremmo oggi.
La conseguenza è che gli interessi di un certo modello di impresa, funzionale a sopravvivere in un dato contesto economico orientato alle esportazioni e basato su politiche spinte di deflazione salariale, senza mediazione alcuna e soprattutto senza riflessione critica, venissero assurti al rango di interesse generale, e qualunque opinione contraria squalificata come scriveva negli anni ’90 un compianto giurista del lavoro. In realtà una precisa ideologia politica ha plasmato intere discipline scientifiche, iniziando dall’economia per arrivare al diritto del lavoro. Sappiamo bene quello che è accaduto. La gabbia democratica costruita intorno al capitalismo dopo la Seconda guerra mondiale è stata scardinata anno dopo anno, utilizzando ogni crisi come un pretesto, affermando un senso comune quasi precostituzionale, ovvero, ciò che il mercato decide è giusto di per sé. Parola d’ordine: rimercificare ciò che si era demercificato, cioè il lavoro in quanto parte della vita umana. Oggi è tempo di andare nella direzione opposta: il lavoro è parte della vita umana che non è fatta per essere venduta. Nulla ci sarà regalato come nulla ci è stato regalato, tutto andrà conquistato.