Sento l'Iveco della guerra...
Repubblica rimette l’elmetto: il piano ReArm Europe fa gola a Gedi
Con il trasferimento delle scarse risorse dai già appassiti diritti sociali agli arsenali da rendere ulteriormente floridi, il destino della sinistra europea appare ancor più segnato.
Politica - di Michele Prospero

C’è un equivoco di fondo nascosto nella “mobilitazione per l’Europa” che ha spinto l’Arci a disertare. Non si capisce infatti se la piazza del 15 marzo sia stata convocata per continuare la guerra (“con Kiev fino alla fine”, secondo il piano di riarmo appena varato) o per raggiungere la pace dopo il terribile triennio di massacri. Molti promotori dell’evento intendono di sicuro sfilare a rimorchio dei governi più bellicisti, i quali davanti al “vile” disimpegno americano propongono di sposare con intransigenza la formula “la pace attraverso la forza”. L’impressione è che l’autocrate insediato alla Casa Bianca venga attaccato dalle due sponde dell’Atlantico (a quando un governo americano in esilio?) non solo per le tentazioni illiberali della sua presidenza, o per le folli prove di guerra commerciale, ma anche per l’elemento di verità comunque presente nell’affondo maleducato contro Zelensky (“stai giocando con la Terza Guerra Mondiale”). È però difficile, soprattutto per il movimento sindacale che pure ha aderito alla marcia, condividere l’idea di Unione Europea coltivata dalla baronessa teutonica e dai quotidiani della Fiat che ora, eccitati dall’eco – o dall’Iveco? – della guerra alle porte, pongono la perentoria domanda: “Dove sono ormai i guerrieri d’Europa?”.
Con la ratifica di 800 miliardi di investimenti produttivi da destinare alle armi, il Consiglio europeo straordinario decreta la metamorfosi del residuo welfare state in un integrale warfare state. Quando von der Leyen asserisce che “dobbiamo trasformare l’Ucraina in un porcospino d’acciaio indigesto per i potenziali invasori”, non si limita a rilanciare la nefasta dottrina della guerra per procura, che ha richiesto il sacrificio di 300mila ucraini, ma si spinge addirittura oltre, arrivando ad evocare una fatale evoluzione delle ostilità con il diretto intervento al fronte di una “coalizione di volenterosi”. La leadership europea, che cammina a passo cadenzato con gli anfibi e confonde la politica con il sapore acre del sangue, pare ossessionata dalla “sicurezza orientale”. Per questo agita il fantasma del “macellaio Putin” che, con i suoi carri armati lenti ma inesorabili, in nessun caso si arresterà a Kiev.
Il fatto è che l’Europa ha perso ogni identità e funzione da quando, allargandosi ad Est (verso paesi che stentano ancora, dopo trent’anni, a mostrare un qualche consolidamento democratico), ha anteposto la funzione militare ausiliaria (l’espansione della Nato su incarico di Washington) alle sue strategie di lungo periodo in un mondo nel frattempo divenuto post-americano. E così l’unica politica estera che i governi dell’Unione sono in grado di immaginare è quella di impelagarsi nel ginepraio conflittuale scoppiato dopo l’implosione dell’impero russo. Insomma, occorre il riarmo per gestire la transizione verde (mimetico) dall’Urss a Ursula. Su istanza dei regimi illiberali orientali che siedono al Parlamento di Strasburgo, la falce e martello, simbolo antico di riscatto proletario, diventa inopinatamente l’emblema del Male al pari della svastica, e le cancellerie un tempo influenti sognano l’invio di missili Taurus con uno stuolo di almeno 200mila soldati per garantire il presidio della libertà sulle terre rare. Il solitario inquilino dell’Eliseo, alla ricerca di una “autonomia strategica europea”, si agita al pensiero che tacciano le bombe e giocando col fuoco nomina il nucleare perché “la Russia non si fermerà all’Ucraina”. Il premier laburista, che imita il Trump peggiore quando inchioda le catene sul corpo dei migranti espulsi con tanto di video celebrativo, alza la voce allorché nello Studio Ovale si accenna alla tregua: da Londra giunge pronta la replica che “qualsiasi accordo deve essere sostenuto dalla forza”.
La grande stampa italiana è in tripudio. Su Repubblica viene rispolverato Churchill nella speranza di rinnovare la lotta al Tiranno, per la quale sono da subito reclamati armamenti a pioggia, ingenti truppe operative e uno scenario di scontro senza fine. Sul quotidiano del gruppo Gedi Antonio Scurati, che cita Jünger pregustando un definitivo regolamento di conti con il despota d’Oriente, se la prende con il “mutamento antropologico” che ha rammollito i bollenti spiriti e quindi privato lo “scoglio euroasiatico” di “uomini risoluti a uccidere e a morire”: se “M” voleva fare dell’Italietta una “nazione guerriera”, “S” in preda a una sorta di trasfigurazione letteraria invoca la “fierezza europea” profusa da “guerrieri feroci, formidabili, orgogliosi e vittoriosi”. Il foglio di De Benedetti, più attento ai freddi numeri, per parte sua prova a convincere i tedeschi che “è interesse economico della Germania mantenere e persino aumentare significativamente il sostegno all’Ucraina, per non dover pagare un prezzo più alto”.
I media progressisti, disperati dinanzi al fallimento della loro guerra metafisica per la libertà (“l’America ormai non ci è più amica”), sensibili ai pruriti finanziari dell’apparato militare-industriale euro-atlantico e in angoscia per la cessazione degli invii di munizioni e nuove tecnologie, cercano di sfruttare le reazioni emotive alimentate dai bruschi modi del comandante in capo. Su Domani la spinta per un fatale coinvolgimento è tale che il vice di Trump, J. D. Vance, diventa il “killer in capo”, su Repubblica si legge nientemeno che di una imminente “aggressione russa all’Europa con il sostegno degli Usa”. Con il trasferimento delle scarse risorse dai già appassiti diritti sociali agli arsenali da rendere ulteriormente floridi, il destino della sinistra europea sarebbe però ancor più segnato. Il vento popolare di delusione potrebbe costruire in un futuro non troppo lontano un continente nero, da Parigi a Berlino. I democratici, che alimentano la insurrezione contro il nuovo “totalitarismo” putiniano, raffigurato come un redivivo Reich hitleriano (una “minaccia esistenziale per l’Unione”, dice Macron), e si gettano addosso a Trump, dipinto come il tiranno immobiliarista cafone che maltratta un eroe della resistenza, lasciano alle destre la fiaccola della diplomazia utile per concordare la sospensione immediata degli spari.
Le manifestazioni del “marzo radioso” tese ad assicurare il prolungamento della guerra (che, certifica Scurati, è “l’esperienza plenaria”, “il luogo di genesi del senso”), in vista della difesa di un’Europa imbelle e assediata, producono danni enormi alle stanche repubbliche liberali. Cadono, con i venti persistenti di inimicizia, le speranze di riorientare le strutture dell’ordine internazionale secondo la civiltà del diritto. Sabotando, in nome dell’etica, la strada sempre accidentata della mediazione, il Vecchio Continente, che affida la propria identità alle armi, viene consegnato alla manovalanza della destra radicale. Porre adesso come condizione non negoziabile per i colloqui con Mosca la “integrità territoriale dell’Ucraina”, significa soltanto scandire che la guerra continua, a dispetto dei tentativi dai toni brutali del presidente degli Stati Uniti. Se l’accezione dell’adunata di piazza del Popolo è quella indicata da Scurati, cioè di “prepararci, se necessario, a combattere la guerra”, bene ha fatto l’Arci a pronunciare il suo no.