La storica e scrittrice

Intervista ad Anna Foa: “A Gaza genocidio, Netanyahu sta cancellando la memoria del 7 ottobre”

«La guerra con l’Iran ha spento i riflettori su Gaza. L’attacco all’esercito in Cisgiordania dimostra che gli estremisti hanno preso in pugno la situazione. Se i coloni proseguono su questa strada, il rischio di una guerra civile si fa concreto»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

3 Luglio 2025 alle 09:00

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Photo credits: Andrea Di Biagio/Imagoeconomica
Photo credits: Andrea Di Biagio/Imagoeconomica

Il suo ultimo libro, un grande libro, Il suicidio di Israele, (Laterza) ha vinto il Premio Strega per la saggistica. Definirla una intellettuale coraggiosa è peccare in difetto. Perché non è da tutti, soprattutto in questi tristi tempi dove a “regnare” è una sorta di pensiero unico e una informazione mainstream, andare controcorrente soprattutto su temi scottanti e divisivi. Il coraggio di prendere posizione, argomentando con la forza delle idee. Un tratto connotativo di Anna Foa, figura che dà lustro all’ebraismo italiano.

Professoressa Foa, la guerra all’Iran non è stata anche un’arma di distrazione di massa rispetto alla mattanza senza fine di Gaza?
Credo proprio di sì. Certamente lo è stata per Israele ma direi anche in generale, a livello internazionale. Tutti abbiamo assistito al fatto che i riflettori su Gaza si siano spenti, che gli stessi Paesi dell’Unione europea che avevano previsto una serie di misure a favore della popolazione di Gaza e contro questa guerra, si sono acquietati. Va detto che è molto difficile prendere provvedimenti contro un Paese su cui piovono le bombe, anche se le manda anch’esso. La guerra all’Iran ha avuto questo aspetto di distrazione di massa. Una considerazione che vale sul piano internazionale ma non solo…

Nel senso?
Nel senso che ha avuto una pesante ricaduta all’interno della società israeliana, coagulando più consenso attorno a Netanyahu. Anche se, almeno questo registrano i sondaggi, non tanto quanto lui avesse sperato e messo in conto.

A proposito di riflettori spenti. Vale anche per la Cisgiordania. I coloni sono arrivati ad aggredire i soldati israeliani.
Non dappertutto, perché ci sono anche altri casi in cui soldati e coloni agiscono insieme. In questo caso, è avvenuta un’aggressione che ha preoccupato il Governo. Tutti si sono affrettati a prendere posizione dicendo che erano troppo estremisti, che avevano ecceduto, persino i ministri espressione dei coloni come Ben-Gvir, Smotrich e altri. I riflettori si sono riaccesi soprattutto perché la situazione in Cisgiordania è di per sé estremamente grave e inquietante, ed è ulteriormente peggiorata negli ultimi giorni. È come se una parte degli israeliani – i coloni, gli estremisti di destra – pensasse ormai di poter fare tutto quello che si vuole in Giudea e Samaria, i nomi biblici della West Bank, e di godere dell’impunità, perché hanno vinto in Iran, o almeno lo credono.

Quello che un tempo veniva raccontato come un movimento minoritario, oggi detta l’agenda del Governo.
È al Governo, e quindi ne detta o comunque ne orienta fortemente l’agenda. È al Governo già da un paio d’anni. Si era detto di una “kahanizzazione” d’Israele. Adesso c’è un aumento di questa aggressività. L’attacco all’esercito dimostra che, in qualche modo, hanno preso in pugno la situazione. Molti israeliani già da alcuni mesi parlavano di una guerra civile. Se i coloni proseguono su quella strada, questo rischio può diventare realtà.

Questi sono tempi in cui, si dice e scrive, che la percezione è la realtà. Non ritiene che la narrazione di Netanyahu di un Israele aggredito, circondato da un mondo ostile, stia vincendo anche all’interno della diaspora ebraica?
All’interno della diaspora ebraica ha già vinto da un pezzo, perché è stato accettato dalla maggior parte delle comunità, o almeno delle istituzioni, anche se ci sono stati gruppi, negli Stati Uniti e in Europa, che si sono opposti. Ma la maggioranza ha accettato l’idea di tutti antisemiti, i critici, e quindi la chiusura d’Israele in una sorta di bolla in cui l’unica via è quella delle armi contro tutti e tutto, con il rifiuto degli organismi internazionali, anch’essi marchiati di antisemitismo. In realtà, ho la sensazione che l’opposizione stia crescendo, che anche nella diaspora ci sia una crescita di movimenti di opposizione, in parte moderati, in parte più radicali. Finalmente c’è un bisogno di collegarsi. Qualche giorno fa c’è stata una riunione a Firenze, a cui ho partecipato via Zoom. C’erano molte persone, anche di orientamento moderato, in una riunione che si teneva, fatto importante, in una sede della comunità, messa a disposizione dal presidente della comunità ebraica di Firenze, Enrico Fink. In quell’incontro ci sono state molte voci di preoccupazione ma anche di bisogno di collegarsi e di reagire. Non credo che la narrazione di Netanyahu abbia chiuso la partita vittoriosamente. È stato così all’inizio. Ma adesso quello che succede è talmente gigantesco che, come diceva David Grossman, cancella anche la memoria del 7 Ottobre.

Il suo ultimo libro, Il suicidio d’Israele, oltre ad aver avuto un grande successo di vendite, ha ricevuto, meritatamente, anche il prestigioso Premio Strega per la saggistica. C’è chi all’interno della diaspora non ha gradito…
Su Facebook, l’unico social che frequento seppur saltuariamente, ho visto sotto due-tre post di congratulazioni, tutta una serie di violentissimi attacchi, come se questo Premio Strega fosse stato uno scandalo. Non credo che questi attacchi siano tanto rivolti a me personalmente quanto al fatto che un libro come il mio possa essere stato riconosciuto come importante. È questo che dà fastidio.

Suicidio o no, resta comunque aperta una “Questione israeliana”. Professoressa Foa, è una “questione” destinata a restare irrisolta?
In certi momenti lo ritengo, in altri no. Come dico sempre, gli storici non sono dei buoni profeti. Penso che ci vorrebbero delle condizioni che per il momento certamente non ci sono, ma chissà cosa potrebbe venir fuori, ad esempio, da una esasperazione della violenza dei coloni. Chissà cosa potrebbe venir fuori se l’esercito si rifiuta, e già ci sono molti segnali in tal senso, di obbedire. Ci sono piloti che hanno deciso che non sarebbero andati a bombardare. La disobbedienza civile potrebbe rivelarsi un’arma importantissima, anche perché Israele ha una storia che ha visto importanti pagine di disobbedienza civile.

Ad esempio?
Non possiamo dimenticare che nel processo che lo vedeva imputato, Adolf Eichmann ripeteva che lui aveva solo obbedito agli ordini superiori, quando gli venivano contestati i crimini terribili di cui si era macchiato. C’è un gruppo di professori dell’Università ebraica che ha preso come immagine il vessillo nero. Vessillo nero che non è l’anarchia, ma il richiamo alla frase con cui, quando furono processati i militari autori del massacro di centinaia di civili palestinesi uccisi, cacciati a forza dalle loro case, a Deir Yassin, il 9 aprile del 1948, il giudice affermò che ci sono degli ordini ingiusti e un ordine ingiusto si riconosce da un vessillo nero che spiritualmente aleggia su questo ordine e dice che è proibito. Questa tradizione, che è molto ebraica, potrebbe essere ripresa, e se così fosse, se veramente si manifestasse una consistente parte dell’esercito che si rifiuta di continuare la guerra in queste condizioni, anche sulla base di considerazioni umanitarie rispetto alle persone che muoiono per le bombe, o per gli spari dell’esercito mentre vengono distribuiti gli scarsi aiuti alimentari, il pane e la farina, beh, se ci fosse questa rivolta delle coscienze in divisa, ci sarebbe da vedere cosa succederebbe. Niente è deciso.

Quando si parla dei diritti dei palestinesi e della loro sofferenza, si fa sempre riferimento a Israele, ma si parla sempre troppo poco dei “fratelli-coltelli” arabi.
Questo è evidente, chi segue la storia lo sa. Gli arabi non hanno mai simpatizzato eccessivamente, tantomeno aiutato, per i palestinesi. Quando li hanno accolti, per la maggior parte li hanno rinchiusi in campi profughi. Resta il fatto che anche i Paesi arabi hanno la possibilità di agire fino a un certo punto. Un’annessione totale della Cisgiordania potrebbe non essere gradita, diciamo così, ai Paesi arabi. Mica per motivi di benevolenza ma solo per il fatto che dovrebbero a che fare con la reazione popolare.

La prossima settimana, Netanyahu ha annunciato che incontrerà alla Casa Bianca Trump. Un incontro tra sodali oppure c’è d’attendersi qualche sorpresa?
C’è stato un momento in cui abbiamo molto sperato che ci fosse qualcosa di positivo e che Netanyahu venisse “licenziato” da Trump. Poi invece è apparso che Netanyahu avesse avuto la meglio nei confronti di Trump e che a decidere fosse lui. Adesso di nuovo forse siamo di fronte a qualche diversità di opinione, soprattutto riguardo al rapporto con i Paesi arabi per ciò che concerne le intenzioni di Trump e quelle di Netanyahu. Tutti e due si muovono dentro il perimento dei propri obiettivi e dei propri vantaggi. Certamente, nessuno dei due agisce in nome della pace o di qualche altra ipotesi etica. Resta il fatto che una spaccatura sarebbe benedetta ma francamente non mi sembra che questo sia il caso, anche se spero ardentemente di sbagliare.

Da storica, da docente universitaria, da scrittrice, lei conosce l’importanza delle parole. Perché solleva tanto scandalo quando, in riferimento alla vicenda di Gaza, c’è chi usa la parola genocidio?
Da un certo punto di vista, perché quelli che conoscono il termine, la sua storia, il suo uso, soprattutto giuridico, sanno che parlare di genocidio vuol dire tentare almeno di impedirlo, quindi reagire a questo. Ed è ciò che vuole il diritto internazionale. D’altro canto, il diritto internazionale è talmente sotto accusa che c’è da domandarsi seriamente se riuscirà a sopravvivere a questa crisi, in gran parte provocata da Netanyahu. D’altro canto, è un termine pesante, genocidio, che però viene individuato come l’unico termine possibile. C’è da dire che anche altri termini e concetti, come quelli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, andrebbero valutati nella loro pesantezza come per il fatto che anche per questi reati è necessario agire. Io mi avvicino a credere che sia un genocidio. Dopo una prima impressione, mesi fa, quando pensavo che bisognasse aspettare le decisioni della Corte penale internazionale, o di quella di giustizia, mi sembra che ormai sia difficile rifiutare l’ipotesi, anche se non sono una giurista. Al di là di questo, il termine genocidio viene ormai agitato, da una parte o dall’altra, come fosse l’unico che può dar conto della tragedia di Gaza. Ce ne sono molti altri e forse bisognerebbe smetterla di agitare solo un termine e valutare anche cosa nel termine genocidio sconvolga talmente tanto gli israeliani. Non certo il richiamo alla Shoah. La Shoah non è l’unico genocidio esistito nel ‘900. Questo forse bisognerebbe dirlo agli israeliani e a Netanyahu. Non perché ci sia un rapporto con la Shoah, ma perché non fa piacere a nessuno essere accusato di genocidio, ma forse dovrebbero anche pensare che non debba neanche far piacere essere accusati di crimini contro l’umanità.

3 Luglio 2025

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