L'intervista al parlamentare dem
Parla Matteo Orfini: “L’Italia un paese senza politica estera, referendum? 5 Si”
«Di fronte a quel che accade in Palestina come si fa a tentennare ancora sul giudizio politico? Netanyahu è un criminale. Punto. I 5 sì ai referendum non sono un favore alla destra, si tratta di urgenze per il Paese»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

Matteo Orfini, parlamentare e membro della Direzione nazionale del Partito Democratico. C’è una narrazione politica che va per la maggiore secondo la quale la campagna del PD sui 5 referendum è un regalo alla destra. Lei come risponde?
Mi pare una sciocchezza. Noi siamo impegnati innanzitutto a garantire la partecipazione ai referendum, cosa che dovrebbero fare le istituzioni preposte ma che non stanno facendo: per la Rai sembra che non esistano, i mezzi d’informazione fanno fatica a parlarne, e questo è già un grosso problema. Intanto, bisognerebbe garantire l’informazione sui referendum e almeno un minimo di dibattito pubblico sui temi di cui parlano i 5 referendum. Quanto a noi, il Partito Democratico ha scelto nei suoi organismi di spendersi per 5 Sì, anche con una discussione vera tra di noi sui temi posti da questi quesiti referendari, che non sono in favore alla destra. Sono innanzitutto, mi riferisco al referendum sulla cittadinanza, un elemento che serve a sanare una discriminazione. Siamo di fronte a centinaia di migliaia di italiani a tutti gli effetti che tali non vengono considerati dalla legge in vigore. Questo referendum non risolve i problemi ma certamente darebbe un segnale importante.
E sugli altri?
Gli altri referendum rimettono al centro dell’attenzione il tema dell’aumento dei diritti dei lavoratori; un cambio di fase delle politiche sul lavoro che si concentri su come garantire maggiori diritti alle lavoratrici e ai lavoratori e anche maggiore sicurezza sui posti di lavoro. Mi pare francamente difficile sostenere che fare campagna su questi temi sia un favore alla destra. Semmai è il riconoscimento di alcune necessità e urgenze all’interno dell’agenda politica del Paese.
Che democrazia è quella in cui la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Ignazio La Russa, dichiara pubblicamente ai quattro venti che lui farà campagna per il non voto?
Come giustificazione all’affermazione di La Russa, molti esponenti di Fratelli d’Italia stanno citando una mia vecchia presa di posizione al tempo del referendum sulle trivelle. Per chiarezza: io pensavo allora e continuo a pensare oggi che dove c’è il quorum sia assolutamente legittima la scelta di non partecipare al voto. Nel senso che il quorum esiste proprio perché si mette in conto l’ipotesi che un referendum possa non raggiungere il livello di attenzione e partecipazione necessari per essere convalidato. In passato diverse volte sia noi del centrosinistra che il centrodestra si è data l’indicazione per la non partecipazione al voto sui quesiti referendari. Lo fecero anche i Ds ai tempi del referendum sulle trivelle. Ci sono tanti precedenti che possono essere citati.
E allora qual è il problema?
Cosa molto diversa è che lo faccia la seconda carica dello Stato. Questo oggettivamente è un unicum. Chi dovrebbe rappresentare le istituzioni, ma forse La Russa non è la persona più adatta a fare il presidente del Senato, ha un dovere diverso. Non di prendere una parte politica. A me non scandalizza che Fratelli d’Italia dica di non partecipare al voto. È contro i diritti di cittadinanza, è contro i diritti dei lavoratori e cerca di far fallire i referendum. Mi pare sbagliato ma è lineare con la posizione politica del partito della Meloni. Il presidente del Senato dovrebbe rappresentare il Paese e in una occasione del genere dovrebbe invitare tutti alla partecipazione al voto. La cosa grave è che una posizione del genere venga assunta e propagandata dalla seconda carica dello Stato.
Onorevole Orfini, ci aiuti una volta per tutte a svelare un arcano. Quando si vuole accusare Elly Schlein, anche da parte di settori ed esponenti del Partito Democratico, si tira fuori l’affermazione per cui la Segretaria dem non ha una cultura di governo. Ma cos’è ‘sta cultura di governo?
Ma sa che io in tanti anni non l’ho ancora capito…A volte mi sembra che questa idea del riformismo, della cosiddetta cultura di governo, venga tradotta nel fare cose di destra da sinistra. Nell’idea che la sinistra va bene solo quando assomiglia alla destra. È un errore di subalternità culturale e politica che abbiamo pagato tante volte. Ne abbiamo anche discusso a lungo, dopo l’esperienza della terza via, e anche dopo le recenti sconfitte elettorali. Noi siamo in una fase in cui stiamo ricostruendo una sfida per l’alternativa alla destra, e questo comporta anche dei passaggi difficili. L’ho accennato prima: non nascondo che la discussione sui quesiti referendari della Cgil ha portato a riflettere anche su scelte che ha fatto il PD negli anni passati. Sono discussioni complicate, serie quelle in cui ci siamo impegnati.
Ma costruire un progetto di alternativa alla destra significa mettere in campo qualcosa di diverso da quello che abbiamo fatto in passato, da ciò che è stato. Perché se fosse stato tutto perfetto e giusto, avremmo vinto le elezioni, e invece sta governando la destra peggiore di sempre nel nostro Paese. Cultura di governo significa, almeno per come la vedo io, avere chiara l’idea che bisogna offrire soluzioni sicuramente realistiche ma di cambiamento. In passato, abbiamo inteso la cultura di governo sostanzialmente come garanzia dello status quo. Ma uno status quo ingiusto, iniquo, che penalizza milioni di italiani e li esclude, non va mantenuto, va cambiato profondamente. Questa demonizzazione del cambiamento è uno di problemi da cui noi ci dobbiamo liberare. Ogni volta che si vogliono cambiare le cose, c’è qualcuno che si alza e dice con l’indice accusatorio: questo è radicalismo, non è cultura di governo! No. La sinistra nasce per cambiare il mondo e per restituire un futuro migliore, non per mantenere quello che c’è. Quello lo fanno i conservatori, non i progressisti.
Questo ci porta a riflettere su un’altra parola chiave, che spesso viene associata ad astrusità. Quella parola è “visione”.
Io penso che noi dobbiamo recuperare una idea di futuro. Che parta, però, dalla necessità di cambiare il presente. Se penso al fatto che milioni di italiani non riescono più a curarsi, perché la sanità pubblica è al collasso, ho il dovere di immaginare un futuro in cui una sanità pubblica esiste, funziona, e chiunque possa avere accesso ad una visita specialistica in tempi brevissimi. Oppure che sul lavoro ci siano diritti e tutele, che un salario possa essere talmente basso da renderti povero nonostante tu abbia un lavoro. Che i diritti sociali siano esigibili, che non ci siano più migliaia di morti sul lavoro ogni anno. Potremmo farne tanti altri di esempi. Che non ci sia un governo che aggredisce verbalmente chiunque faccia una critica o esprima perplessità sul suo operato, come è successo in questi giorni a Elio Germano o a Geppi Cucciari. Un Paese diverso e migliore di quello in cui stiamo vivendo. Cambiare le cose deve essere la nostra ossessione. E farlo anche con la necessaria radicalità. E con la consapevolezza che se ci sono parte di quei problemi è anche perché quando avremmo potuto cambiare le cose dal governo, non ci siamo riusciti fino in fondo.
Altra questione dolente è il rapporto tra programmi e alleanze. Quando la Segretaria del PD prende posizioni più “radicali”, penso alla Palestina, al disarmo, sui referendum, ecco che viene subito accusata di essere subalterna a Landini o peggio ancora a Conte.
Anche queste sono caricature di una posizione politica. Noi non siamo subalterni a nessuno. Il PD è il principale partito dell’opposizione. Abbiamo l’onore e l’onere di essere il perno nella costruzione di un’alternativa alla destra. Il tema nostro non è inseguire gli altri e non lo facciamo. È mettere in campo una strategia che tenga anche conto, però, della necessità di unire gli altri. I partiti più piccoli, i nostri potenziali alleati, hanno la necessità di enfatizzare punti di vista particolari, perché hanno un ruolo diverso, perché sono meno forti del Partito Democratico, hanno maggior bisogno di visibilità. Noi abbiamo il dovere di farci carico della costruzione di un progetto per l’Italia, e quindi dobbiamo tenere conto anche delle posizioni dei possibili alleati e cercare di trovare una sintesi. Dopodiché alcune di queste accuse sono senza senso.
Ad esempio?
Ma come si fa di fronte a quello che sta succedendo in Palestina, ancora a tentennare sul giudizio politico? Netanyahu è un criminale. Punto. Un criminale sanguinario che sta producendo una immane carneficina da mesi, mesi e mesi. Come si può non dirlo o smussare questo giudizio. È l’inerzia imbarazzante del governo italiano che va denunciata. Oggi (ieri per chi legge, ndr) c’è una intervista di Tajani sul Corriere della Sera. Era una pagina vuota. Una pagina senza nulla. Imbarazzante. È il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri di uno dei Paesi principali dell’Europa. Io ho avuto in certe circostanze punti di vista differenti rispetto a D’Alema, ma quando era ministro degli Esteri del nostro Paese, la capacità di assumere iniziative politiche in contesti drammatici, di fare esistere politicamente l’Italia, era sotto gli occhi di tutti. Poi potevi criticare una scelta, ma c’era l’Italia. Oggi non c’è nulla. C’è la Meloni che partecipa ai vertici in videoconferenza, un’aggiunta e niente più, come è successo in questi giorni sull’Ucraina. Tajani che fa paginate di nulla sui giornali. E l’Italia non esiste. Ma può essere questo il ruolo del nostro Paese? L’unica cosa che fanno è dirsi da soli che sono bravi. Teorizzano di essere tornati al centro dello scenario europeo salvo poi che nessuno se li fila in Europa e non hanno nessun peso nel mondo sulle questioni più drammatiche che chiamano in causa anche il nostro Paese.
La questione della pace è stata richiamata con forza dal nuovo pontefice, Leone XIV, in sintonia e in continuità con il suo predecessore, Papa Francesco. Leone XIV ha parlato di una pace “disarmata” e “disarmante”.
Chi come me non è un credente, può solo guardare con grande rispetto a quello che dice e che fa un Papa. Detto questo, personalmente ho apprezzato quell’esordio. Cominciare il proprio pontificato con l’evocazione di un obiettivo, qual è la pace, è un fatto estremamente significativo e incoraggiante. Parlo di obiettivo, perché oggi non c’è la pace. Non c’è il disarmo, anzi siamo dopo tanti decenni a guardare il futuro, anche da questo punto di vista, con molta preoccupazione e ogni giorno contiamo i morti nei vari conflitti, quelli di cui si parla e i tanti colpevolmente ignorati. Che su questo si scelga di restare nel solco del pontificato di Francesco, penso sia un fatto assolutamente positivo e spero che sia uno stimolo per tutti ad agire in quella direzione. Vediamo cosa accadrà. In queste ore c’è l’annuncio di un possibile incontro tra Putin e Zelensky, vedremo cosa produrrà. Accanto al tema di una pace giusta e rispettosa del diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina, c’è l’enorme tema del Medio Oriente, che è ormai da mesi in una situazione non più tollerabile. L’inerzia dell’Occidente di fronte a quello che sta accadendo a Gaza, in Palestina, sarà ricordata come una delle pagine più drammatiche e vergognose della nostra storia.