I quesiti su lavoro e cittadinanza

Referendum 8 e 9 giugno: cosa prevedono i quesiti su cittadinanza e jobs act

In passato solo la consultazione sull’acqua pubblica ha raggiunto il quorum: bene il via libera del governo al voto per chi vive in un’altra città, ma la scelta dell’8 e 9 giugno lascia l’amaro in bocca

Politica - di Salvatore Curreri

14 Marzo 2025 alle 13:30

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Photo by Mauro Scrobogna / LaPresse
Photo by Mauro Scrobogna / LaPresse

1. La decisione del Consiglio dei ministri di ieri di fissare la data dei prossimi cinque referendum abrogativi per l’8-9 giugno, in coincidenza con il secondo turno delle amministrative, assume grande importanza politica. Inutile, infatti, girarci intorno: l’esito di tali referendum – l’uno promosso da +Europa sulla cittadinanza agli stranieri, gli altri quattro promossi dalla Cgil su alcune disposizioni del c.d. Jobs Act – dipenderà non da quanti voteranno a favore dell’abrogazione ma da quanti andranno a votare. Se, infatti, non sarà raggiunto il quorum della partecipazione della maggioranza degli aventi diritto, i referendum saranno dichiarati invalidi.

Di fatto è ciò che succede da quasi trent’anni. Ad eccezione, infatti dei referendum del 12-13 giugno 2011 (su acqua pubblica, energia nucleare e legittimo impedimento dei membri del governo a partecipare ai processi), per i quali andò a votare il 54,8% degli aventi diritto, gli ultimi referendum in cui si raggiunse il quorum furono gli undici su cui gli elettori furono chiamati a votare l’11 giugno 1995 (57,9%). Da allora, tranne la già menzionata eccezione del 2011, le successive dieci tornate referendarie (1997, 1999, 2000, 2003, 2005, 2009, 2016 e 2022) sono sempre fallite perché i contrari all’abrogazione preferisco vincere facile, puntando sull’astensione dal voto anziché votare NO. Una strategia sempre più vincente in un periodo in cui, come a tutti è noto, il numero degli elettori che non va a votare è sempre più crescente, avendo addirittura sfondato la barriera psicologica del 50%.

2. Se, dunque, la partita decisiva è sul quorum, è evidente che le decisioni che possono direttamente o indirettamente influire sul suo raggiungimento hanno un alto tasso di politicità, a cominciare dalla individuazione della data del referendum, che per legge il Consiglio dei ministri deve fissare in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. È ovvio, infatti, che più la data è prossima all’estate, andando eventualmente oltre alla chiusura dell’anno scolastico, meno potenzialmente potrebbero essere gli elettori disposti a rinunciare alle loro abitudini domenicali pur di andare a votare. Del resto, come l’attento lettore avrà notato, nelle ultime tornate referendarie si è scelta l’ultima domenica utile prima del 15 giugno, incentivando di fatto l’astensionismo.

Per evitare l’uso politico del potere d’individuazione della data dei referendum, nel 1997 l’allora comitato promotore aveva sollevato conflitto di attribuzioni contro la decisione d’indire il referendum il 15 giugno, scoraggiando così la partecipazione del corpo elettorale. La Corte costituzionale, però, dichiarò il conflitto inammissibile (ordinanza n. 131/1997) perché non si era in presenza di oggettive situazioni di carattere eccezionale che avrebbero consentito di spostare la data del voto, concludendo, in modo oggi quanto mai opinabile, che “l’esercizio del potere di fissare tale data non è idoneo ad incidere sulla sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita ai ricorrenti”.

3. Alla luce di tale contesto, non può che essere apprezzato l’incontro che si è svolto martedì scorso tra Governo e Comitati promotori ai fini della determinazione della data dei referendum. Per evitare strumentalizzazioni politiche, infatti, la scelta, come detto, decisiva della data del referendum deve essere frutto non, come accaduto in passato, di una decisione unilaterale del Governo ma di una procedura di concertazione in virtù del principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato. In questo senso, la soluzione favorevole all’election day, abbinando la data del referendum con il secondo turno delle amministrative, permette ai referendari di sfruttare il c.d. effetto traino.

È una decisione che, per un verso, va apprezzata perché non così fu in occasione dei referendum del 2011, quando l’allora governo Berlusconi decise di separare la data delle elezioni amministrative (primo turno 15-16 maggio, secondo turno 29-30 maggio) da quella dei referendum (12-13 giugno), con l’evidente intento di ostacolare il raggiungimento del quorum, invece, come detto, ottenuto grazie soprattutto all’interesse suscitato dal tema della privatizzazione dei servizi idrici.
Ciò ammesso, non può però sfuggire che la soluzione prescelta non è certo la migliore che il Governo poteva prendere, dato che abbinare il referendum con il primo oppure con il secondo turno delle amministrative non può certo dirsi irrilevante ai fini del contrasto del più che fondato rischio astensionismo.

L’abbinamento del referendum con il secondo turno delle amministrative, anziché con il primo, come avvenne nel 2009, riduce di meno tale rischio per due essenziali motivi: a) il secondo turno, ovviamente, non si svolgerà sia nei Comuni più piccoli in cui il Sindaco viene eletto a turno unico, sia in quelli in cui egli sarà eletto direttamente al primo turno, senza ricorrere al ballottaggio; b) l’8-9 giugno è data in cui, al netto delle variabili atmosferiche, il rischio d’astensionismo è di per sé più alto, per le ragione esposte all’inizio. Per questo sarebbe stato certamente più democratico abbinare i referendum con il primo turno delle prossime amministrative previsto, come detto, per il 25-26 maggio, come fu fatto nel 2022, quando il 12 giugno si votò per cinque referendum e per il rinnovo degli organi elettivi in 971 Comuni,

4. L’altro rimedio che il Governo ha apprezzabilmente attivato per ridurre il rischio astensionismo è consentire il voto referendario agli elettori fuori sede da almeno tre mesi per motivi di studio, lavoro o cura. Si tratta di una platea di elettori stimata in circa cinque milioni e che quindi potrebbe non essere affatto indifferente ai fini del raggiungimento del quorum. Con questa decisione l’attuale Governo, al contrario dei precedenti, ha confermato di essere particolarmente sensibile al tema, dando fattivo seguito alle indicazioni per ridurre l’astensionismo e agevolare il voto contenute nel prezioso “libro bianco” curato nel 2022 dall’allora Ministro D’Incà.

Lo scorso anno, infatti, era stato approvato e convertito un decreto legge (7/2024) in base al quale per la prima volta gli studenti fuori sede avevano potuto votare per il Parlamento europeo fuori dal comune di residenza, a prescindere che questo ricadesse all’interno o all’esterno della relativa (maxi) circoscrizione elettorale. La decisione del Governo di ieri, dunque, va salutata con favore perché conferma il voto dei fuori sede e lo estende anche a chi vi si trova anche per motivi di lavoro o di salute. Un atteggiamento di chiusura del Governo sul punto, come si era inizialmente paventato, sarebbe stato francamente poco comprensibile e giustificabile, considerato che il voto dei fuori sede sul referendum comporta problemi organizzativi e procedurali minori rispetto al precedente delle elezioni europee. Infatti, poiché il referendum è unico sull’intero territorio nazionale, tutte le schede potranno essere scrutinate nella apposita sezione speciale predisposta nel comune di temporaneo domicilio, senza dover essere trasmesse al Comune di residenza.

5. Il tema del voto dei fuori sede potrebbe, peraltro, essere utilmente ripreso in occasione delle prossime elezioni regionali, previste nel prossimo autunno in Campania, Marche, Toscana, Puglia, Veneto, Valle d’Aosta e, forse, Sardegna. In occasione di tali elezioni certamente le Regioni a Statuto speciale potrebbero introdurre il voto dei fuori sede per corrispondenza, come ha già fatto nel 2013 la provincia autonoma di Bolzano. Anche però le Regioni a Statuto ordinario potrebbero approvare leggi per agevolare il voto dei fuori sede. Tali Regioni, infatti, hanno potestà legislativa concorrente in materia di “sistema di elezione (…) nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica” (art. 122.1 Cost.).

Tali principi sono stati individuati dal legislatore statale con legge n. 165/2004. Tra questi non si fa riferimento alle modalità di voto, invece disciplinate dal precedente art. 12 della legge statale n. 108/1968 che deve intendersi cedevole dinanzi all’autonomia legislativa regionale in materia. Pertanto, le Regioni potrebbero intervenire per legge al fine di consentire l’effettivo esercizio del diritto di voto nelle rispettive elezioni da parte degli elettori temporaneamente domiciliati fuori dal proprio territorio. Il problema piuttosto starebbe nel garantire i requisiti costituzionali di libertà, eguaglianza, personalità e segretezza del voto. A tal fine, anziché ricorrere al voto per corrispondenza, più esposto alla violazione di tali requisiti, sarebbe preferibile introdurre forme di collaborazione con le strutture amministrative statali, a cominciare dalle prefetture, affinché il voto dei fuori sede sia presidiato.

14 Marzo 2025

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