Raggiunte le 500mila firme
Jobs Act, la sinistra riparta dal referendum della Cgil: è questo il vero riformismo
È stata la legge che ha azzoppato lo statuto dei lavoratori ad aumentare il grado dello sfruttamento e quindi della povertà
Editoriali - di Piero Sansonetti
Da quando è stato approvato il Jobs act ad oggi gli stipendi e i salari, in Italia, anziché aumentare, come è successo in tutti – tutti – gli altri paesi europei, sono scesi. Cioè hanno perduto potere di acquisto. E questo fatto – indiscutibile e certificato dall’Istat e da decine di istituti di studio e smentito da nessuno – ha determinato innanzitutto un consistente sommovimento nella struttura sociale italiana, con un aumento del numero di poveri e poverissimi, e poi una modifica nei rapporti tra l’Italia e gli altri paesi d’Europa. L’Italia, in passato, è stata uno dei paesi più equi.
Il primo, ad esempio, ad avere una riforma sanitaria che garantiva indifferentemente la salute di tutti. Il primo ad avere una legge che imponeva un tetto piuttosto basso ai canoni di affitto. In Italia i salari erano difesi da un meccanismo di adeguamento automatico all’inflazione che si chiamava “scala mobile”. E i posti di lavoro erano blindati da uno statuto dei lavoratori che, soprattutto nel suo articolo 18, rendeva i dipendenti e i loro sindacati molto forti nei rapporti di forza col padrone e nella contrattazione. Da metà anni ottanta in poi uno ad uno questi pilastri dell’impianto sociale del paese sono stati danneggiati e poi sgretolati. La sanità pubblica funziona poco e male, i salari non sono protetti, la precarietà del lavoro è diventata la norma, gli affitti volano e chi non ha casa di proprietà è quasi automaticamente povero, il potere dei sindacati si è molto più che dimezzato. I posti di lavoro non sono sicuri da quando il governo Renzi, nel 2015, abolì l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Cosa ha determinato questo rivolgimento? Un fatto storico semplice e chiarissimo: la sconfitta cocente subita dal movimento operaio, all’inizio degli anni ottanta, che col passare degli anni e dei decenni è diventata una valanga e ha seppellito diritti e benessere dei ceti più deboli. L’Italia si è arricchita. Ha aumentato la sua potenza e la sua capacità economica. I profitti sono alti. Però è aumentata la povertà. E si è allargata a dismisura la disuguaglianza. È stato possibile tutto questo anche grazie alla rovina di una ideologia, o se vogliamo dirlo con una espressione diversa di uno spirito pubblico, che metteva il valore dell’uguaglianza, o almeno dell’equità sociale, ai primi posti nella scala dei valori. Oggi “uguaglianza” è una parola quasi impronunciabile. Sarebbe interessante chiedere all’intelligenza artificiale, che queste cose le fa in fretta, quante volte sui 10 principali giornali italiani è stata pubblicata la parola “uguaglianza” nel corso del 2024, e quante volte la parola “merito”. E poi chiederle quante volte queste due parole erano scritte sui giornali italiani trent’anni fa. Beh, sono sicuro che risulterebbe che oggi la parola “merito” è di almeno 10 volte più frequente della parola “uguaglianza”, e che 30 anni fa era il contrario.
Dunque è evidente che la causa dell’aumento delle diseguaglianze e della povertà non risiede solo nel Jobs act, che è una legge varata per favorire gli imprenditori a danno dei dipendenti. Però quella legge ha avuto un peso decisivo. È stato l’ultimo atto di una strategia delle classi dirigenti capitalistiche che ha come obiettivo quello di realizzare una stratificazione della società nella quale la mobilità sociale sia molto ridotta e le capacità di comando e di potere dei ceti più ricchi e forti sia sempre di più superiore alle capacità di contestazione dei ceti più poveri. Il referendum indetto dai sindacati, e fortemente voluto da Maurizio Landini, che ieri ha raggiunto le 500 mila firme dei cittadini, ha questo valore. È un atto politico che punta a frenare il dilagare del potere capitalistico. E a realizzare una inversione di tendenza che da 30 anni non è all’orizzonte.
Sarà difficile vincere questo referendum, però per la sinistra è una grande occasione. Se ce la fa, cambia tutto nella politica. Sono convinto che è molto più importante questa partita della partita istituzionale. Perché sono convinto che in Italia i problemi fondamentali da affrontare sono due: la giustizia, per porre fine allo strapotere della magistratura, e il lavoro (e la lotta alla povertà) per porre fine allo strapotere della borghesia ricca. Non è solo una questione di “valori”, di idee umanitarie. È un fatto di civiltà. Un paese nel quale il numero dei poveri è sempre più in aumento è un paese debole, sul piano politico e su quello della modernità. Ci dicono che il Jobs Act ha aumentato i posti di lavoro. Non so se è vero. So per certo che Jobs Act ha portato ad un incredibile aumento dello sfruttamento. E quindi del lavoro povero. E quindi della povertà. Dobbiamo convincerci del fatto che la povertà non è semplicemente una variabile del lavoro (più lavoro uguale meno povertà) ma è una variabile dello sfruttamento.
Questa è una legge fissa: più sfruttamento più povertà. E oggi il grado di sfruttamento del lavoro è all’apice. E in gran parte, in questi ultimi anni, il motore che ha spinto all’aumento dello sfruttamento è stato il Jobs Act. Per la sinistra è una ferita profondissima. È la seconda volta che succede. Il taglio della scala mobile – che si era ottenuta e migliorata con i governi democristiani – fu realizzata da un governo a guida socialista. Lo smantellamento dello statuto dei lavoratori – che era stato scritto dai socialisti – non è stato realizzato da Berlusconi (che si fermò di fronte alle proteste sociali e sindacali) ma da un governo a guida Pd. Il referendum è l’occasione per cancellare questi due marchi, e permettere alla sinistra di ripartire.