Il portavoce di Amnesty Italia
Intervista a Riccardo Noury: “Criminali accolti con onore, migranti nei lager: gli accordi con la Libia vanno cancellati”
«Il memorandum ha consolidato un sistema di violazione dei diritti umani ai danni di migranti e richiedenti asilo. Dall’Italia uno schiaffo alla Cpi, abbiamo tradito chi si era affidato alla giustizia internazionale. E ora potremmo dover rispondere di ogni nuovo crimine di Almasri»
News - di Umberto De Giovannangeli

Riccardo Noury, Portavoce di Amnesty Italia. “Quanti se ne possono uccidere per ragion di Stato? Ehi, sinistra, la apriamo una battaglia per ottenere la disdetta degli accordi criminali con la Libia’”. Così titolava questo giornale, alla luce della vicenda Almasri. Se non ora, quando?
Quella parte politica cui questo giornale si rivolge ha la responsabilità di aver concepito e sottoscritto, nel 2017, il memorandum di cooperazione tra Italia e Libia, accompagnandolo con dichiarazioni giustificatorie che invocavano uno stato di necessità – dato che c’era addirittura un rischio per la tenuta democratica del nostro paese! – e con una estesa narrazione stigmatizzante, anticipata qualche mese prima dalla infausta espressione di Luigi di Maio sui “taxi del mare”, che preannunciava la concreta criminalizzazione per legge delle Ong di ricerca e soccorso in mare. In occasione di uno dei vari rinnovi del memorandum, un esponente di quella stessa parte politica mi confidò sommessamente che quell’accordo era sì controverso ma serviva all’Italia per “mantenere un piede in Libia”. Quel memorandum a forma di piede, o piede a forma di memorandum, ha contribuito a consolidare un sistema di violazione dei diritti umani ai danni delle persone migranti e richiedenti asilo; ha aggirato, dopo quella del 2012, ulteriori condanne della Corte europea dei diritti umani delegando alla cosiddetta “guardia costiera libica” il compito di andare a riprendere in mare – con motovedette fornite dall’Italia – le persone in fuga dai “lager” (espressione di papa Francesco) del paese nordafricano; ci ha fatto accogliere con tutti gli onori criminali poi ammazzati in regolamenti di conti in territorio libico, come l’ufficiale della “guardia costiera libica” Abd al-Rahman al-Milad e riaccompagnare in Libia con altrettanti onori un ricercato dalla giustizia internazionale, come Almasri. Oltre sette anni di tutto questo non sono sufficienti per dire basta?
Amnesty International ha documentato negli anni cosa sia diventata la Libia e chi detta legge in quel paese. Cosa è oggi la Libia?
La Libia è tante cose insieme: due governi, sostenuti da interessi stranieri; assenza di stato di diritto; milizie armate che gestiscono territori; impunità totale per i crimini di guerra commessi nel conflitto interno; strizzate d’occhio all’estremismo islamista mentre si dice di combatterlo; minacce e intimidazioni contro società civile, giornalismo indipendente, avvocati per i diritti umani, attiviste per i diritti delle donne. Dopo la caduta di Gheddafi, nel 2011, lo schema è stato grosso modo questo: per controllare un territorio occorrono le armi, per acquistare le armi servono i soldi, per fare i soldi c’è bisogno di persone migranti cui estorcere denaro per evitare stupri e altre torture, cui svuotare le tasche per poi stiparli su delle bagnarole destinate ad affondare.
L’Italia ha ricevuto con tutti gli onori il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, criminale di guerra. E ha liberato un torturatore-stupratore nonostante l’ordine di arresto della Corte penale internazionale, a cui l’Italia aderisce. Siamo sotto ricatto?
Come cittadino italiano, sono mortificato nell’aver visto l’Italia, che nel 1998 ospitò la conferenza internazionale che approvò quello che, non a caso, si chiama “Statuto di Roma” e che diede vita alla Corte penale internazionale, venir meno così clamorosamente agli obblighi di cooperazione con la suddetta corte. L’Italia si è comportata come il Sudafrica e la Giordania, che nello scorso decennio lasciarono libero di visitare i loro paesi Omar al-Bashir, l’allora presidente del Sudan, ricercato dalla Corte per, tra l’altro, genocidio contro la popolazione del Darfur. La brutta figura – un vero e proprio schiaffo alla Corte, reiterato nell’informativa al parlamento dei ministri Nordio e Piantedosi, impegnati ad arrampicarsi su specchi pieni di acqua saponata – si è realizzata attraverso un cavillo tratto dalla legge 237 del 2012 sulla cooperazione tra l’Italia e la Corte, che stabilisce che le richieste da essa formulate vengono gestite dal ministro della Giustizia, il quale deve trasmettere tali richieste al procuratore della Repubblica di Roma affinché le esegua. Ciò implica che gli uffici competenti di Torino, dov’era stato arrestato Almasri, avrebbero dovuto coinvolgere subito il ministro Nordio. Così pare non sia stato fatto. Insomma, una mera irregolarità – che nel migliore dei casi potremmo definire frutto di superficialità o mancata conoscenza – nelle procedure di comunicazione interna sulle cose da fare di fronte a un mandato di cattura spiccato dal massimo organo della giustizia internazionale. La rapidità con cui Almasri è stato scarcerato e rimandato nel suo paese d’origine – a bordo, come sappiamo, di un aereo di stato italiano – non ha lasciato il tempo di correggere quell’irregolarità che, è bene sottolinearlo, non rappresentava in alcun modo una violazione dei diritti dell’arrestato. La Corte, irritualmente, ha emesso un duro comunicato stampa, chiedendo spiegazioni al governo italiano. Come attivista per i diritti umani, m’interessa sì il danno reputazionale al nostro paese ma soprattutto m’indigna che abbiamo tradito le persone, libiche e non, che si erano affidate alla giustizia internazionale perché facesse luce sui crimini di guerra e contro l’umanità attribuiti ad Almasri. Sempre da questo punto di vista m’interessano relativamente poco gli sviluppi giudiziari interni, salvo uno: l’esposto presentato contro vari esponenti del governo italiano da una vittima di Almasri, il cittadino sudsudanese Lam Magok Biel Ruei, prigioniero per tre mesi nella prigione di al Jadida e per sei mesi in quella di Mitiga. Forse di questi esposti ne seguiranno altri, perché Almasri grazie al cortese accompagnamento in Libia continuerà presumibilmente a compiere gli stessi crimini, denunciati tra gli altri da Amnesty International, da altre organizzazioni per i diritti umani e dal dipartimento di stato degli Usa. Di ognuno di questi l’Italia potrebbe essere chiamata a rispondere.
C’era stato poco prima il dibattito su cosa fare se Netanyahu fosse venuto in Italia…
Tra il capo della polizia giudiziaria del governo libico e il primo ministro d’Israele c’è una sola cosa in comune: sono entrambi ricercati dalla Corte penale internazionale perché sospetti autori di crimini di sua competenza. Se eseguire o meno un mandato di cattura della Corte diventa oggetto di valutazioni o di dibattito, già c’è qualcosa che non funziona. A metà gennaio, di fronte alla mera ipotesi che un giorno Benjamin Netanyahu potesse visitare l’Italia, secondo quanto riportato dai nostri organi d’informazione ci sono stati due vicepresidenti del consiglio che hanno dichiarato (Salvini) che al primo ministro israeliano sarebbe stato dato il benvenuto o che (Tajani) mica si sarebbe potuto inscenare “uno scontro a fuoco in aeroporto per arrestarlo”, chiosando successivamente che “la Corte non è la Bocca della verità”. Nello stesso periodo il primo ministro ungherese Orban aveva invitato Netanyahu a visitare il suo paese e il suo omologo polacco Tusk aveva annunciato che, qualora lo stesso Netanyahu avesse voluto recarsi ad Auschwitz in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’apertura dei cancelli del lager, non sarebbe stato arrestato. Qui si è raggiunto il massimo: promuovere l’impunità in relazione al genocidio per antonomasia.
Haftar, al-Sisi, Saied, ora Almasri. Non importa se siano autocrati o criminali di guerra, ciò che conta è che facciano il lavoro sporco per conto nostro, dell’Europa, dell’Italia. A questo siamo ridotti?
A questo ci ha ridotto ciò che le politiche europee da fenomeno hanno elevato a problema, da problema a emergenza e da emergenza a ossessione: la migrazione. La descrive benissimo la giornalista irlandese Sally Hailey, in un lungo libro-inchiesta intitolato “E la quarta volta siamo annegati” e lo fa dando la parola alle vittime di quell’ossessione: le persone migranti, richiedenti asilo e rifugiate. L’Unione europea ha inaugurato l’ossessione nel 2016 con l’accordo con la Turchia. Un anno dopo l’Italia, con la scusa della “invasione” o del “rischio della tenuta democratica” – a seconda delle narrazioni -, ha sottoscritto il memorandum con la Libia. Sono seguiti, nel corso degli anni successivi, gli accordi con la Tunisia e con l’Egitto, anche se in quello col Cairo l’ossessione è mimetizzata da varie forme di cooperazione. Vi diamo i soldi, oltre che i mezzi, ma fate qualcosa per fermare le partenze, a ogni costo: economico ma prima di tutto umano. È come se “occhio non vede, cuore non duole” da proverbio fosse diventato un caposaldo delle politiche estere (subordinate in realtà all’ossessione delle politiche interne). Per evitare che altri occhi vedessero, si è fatto poi ricorso alla criminalizzazione delle attività delle Ong di ricerca e soccorso in mare. Alle poche loro imbarcazioni ancora operative è stata imposta, tra i vari provvedimenti vessatori – i sequestri amministrativi ormai non si contano più –, la “politica dei porti lontani”: se Bolzano o Aosta avessero il mare le dirigerebbero lì, costringendole a fare altri giorni di navigazione con a bordo persone stremate, traumatizzate, sopravvissute alle torture e ai naufragi.
S’infervora Bruno Vespa: non fate le anime belle, tutti sanno che ogni Stato si comporta così per preservare la sua sicurezza nazionale.
Mi limito a constatare che se per ogni Bruno Vespa ci fosse un Julian Assange le cose andrebbero meglio. In tal caso le cose cui allude il primo, il secondo ce le farebbe conoscere.