Retate di massa in Libia
Haftar mostra a Roma quanto è bravo a rastrellare migranti
Il 4 e 5 maggio è stato discusso il nuovo patto per bloccare i profughi prima che partano. Il generale dà un saggio del lavoro sporco da fare in cambio di parte di quei due miliardi di euro di fondi
Editoriali - di Luca Casarini
Mentre sono ufficialmente cominciati i negoziati tra Consiglio Europeo ed Eurocamera sul nuovo patto migrazioni ed asilo che prevede un massiccio ricorso a deportazioni e respingimenti di profughi e migranti, è scattata da alcuni giorni una vasta operazione di polizia in Libia contro i migranti presenti sull’intero territorio. Lo ha denunciato per primo Refugees in Libya, la rete dei rifugiati che lotta per l’evacuazione da quell’inferno, ma anche la missione Onu Unsmil, «esprimendo forte preoccupazione per gli arresti arbitrari di massa ai danni di migranti e richiedenti asilo in tutto il paese».
Le autorità libiche – con una inedita coordinazione tra il governo della Tripolitania, riconosciuto dall’Occidente, e quello della Cirenaica, sostenuto da Putin, Emirati Arabi ed Egitto – hanno rastrellato migliaia di persone, per strada e facendo irruzione in case e magazzini usati come rifugio, e catturando migliaia di persone tra le quali molte donne e bambini, internandoli in campi di detenzione e basi militari delle milizie. Non si sa quanti siano i feriti e i morti a causa di questa operazione, ma di sicuro le modalità, a detta degli osservatori, sono state brutali, come di consueto del resto.
La vita dei migranti, anche se sono bambini, vale poco o niente in sé, sia per chi si spartisce il potere in Libia, sia per i governi europei: sono merce di scambio per i primi e umanità in eccesso per i secondi. L’operazione, che a quanto si sa ha avuto come asse operativo il protocollo d’intesa siglato tra i Gacs (General Administration of Coastal Security) di Tripoli sotto il comando del trafficante Emmad Trabelsi, ministro degli interni, e i reparti operativi del Lna di Haftar, si è dispiegata maggiormente ad Est, in Cirenaica. Non si può non mettere in relazione questa plateale mossa del generale, un tempo descritto come nemico pubblico ed oggi nuovo alleato dell’Italia nella guerra contro i migranti, con la sua recente visita a Roma, dove lo scorso 4 e 5 maggio, sono stati discussi i punti salienti di un nuovo probabile “memorandum”, di cui ha parlato anche Piantedosi sollecitato dal cronista di Radio Radicale, Sergio Scandura.
Un patto per il trattenimento dei migranti che raddoppierebbe quello già in vigore tra Italia e Tripoli. Il trasferimento di soldi – perché come con la Tunisia, la ragione di questi patti bilaterali è essenzialmente fondata sul principio “soldi in cambio di blocco dei migranti” – per ragioni geopolitiche e diplomatiche difficilmente potrebbe avvenire in maniera diretta, come accade con il governo filo occidentale. Il protocollo tra Gacs e Lna per il controllo della costa, gestito come un riavvicinamento tra le due parti in virtù della stabilizzazione democratica del paese, potrebbe essere il canale attraverso il quale Italia ed Unione europea, apriranno una linea di credito indiretta ad Haftar.
Fu lo stesso ministro Crosetto, quello del dirottamento inventato, a lanciare l’allarme sul ruolo della Wagner e di Haftar nel far partire i barconi di profughi utilizzandoli come “arma di destabilizzazione” dell’Europa nel contesto della guerra in Ucraina. Sarà per questo forse che lo stesso Crosetto ha ricevuto con tutti gli onori Haftar a Roma. Se non puoi batterli, provi a comprarli. I flussi di denaro che viaggiano dall’Italia alla Libia per il lavoro sporco sui migranti, sono una parte dei quasi due miliardi di euro che i vari governi hanno investito in vari paesi del Nord Africa dal 2015 per finanziare il blocco di donne uomini e bambini in movimento verso l’Europa.
Si tratta di risorse proprie e fondi dell’Unione europea, oltre che di forniture di mezzi e formazione di polizia di frontiera, sia per attività terrestri che marittime di cattura e successiva presa in carico in stato detentivo dei profughi. La legge libica sull’immigrazione, che prevede la detenzione e i lavori forzati per coloro che siano entrati illegalmente nel paese, si è dimostrata del tutto funzionale per consolidare questa prassi. L’assoluta incompatibilità delle Convenzioni internazionali a tutela dei diritti umani con le leggi nazionali sia della Libia ma oggi anche della Tunisia, è il contrario di quello che potrebbe sembrare un ostacolo: nessun memorandum stipulato dal nostro paese e dall’Unione europea, ha mai subordinato l’arrivo dei soldi ad un effettivo rispetto delle Convenzioni. In mare questo è diventato palese.
La Libia è stata dotata di una zona Sar (Search and Rescue) pur non potendo garantire nessuno dei requisiti minimi richiesti. Il Parlamento italiano, nonostante sia ormai chiaro che il “memorandum Italia Libia”, finanzi attività illegali e disumane ad opera di milizie, non ha mai nemmeno affrontato la discussione: e se qualcuno provasse a chiedere una Commissione di inchiesta su ciò che avviene in mare e in terra grazie a questi patti bilaterali per bloccare i migranti, riceverebbe un rifiuto. Sarebbero troppe le implicazioni, trasversali anche sul piano politico, che rischierebbero di venire a galla se solo ci si mettesse a scavare un po’. La retata di massa in Libia denunciata da Refugees in Libya e Nazioni Unite, sembra essere un messaggio, in questo caso di Haftar in particolare, rivolto al governo italiano dopo l’incontro di Roma.
Hanno fatto così, spinte allora da Minniti e Gentiloni, anche le milizie che spadroneggiano a Ovest. Una dimostrazione concreta di affidabilità, una dimostrazione dei risultati concreti che si è in grado di assicurare. Il governo, se tira fuori i soldi, può comprare la riduzione dei flussi anche a Est. Quale sia il destino degli esseri umani, non importa a nessuno dei contraenti. Per l’Italia e l’Unione Europea l’importante è che ciò che accade non si veda. Che non faccia troppo rumore nelle pubbliche opinioni in permanente campagna elettorale.
Ma anche l’opinione pubblica dei paesi ingaggiati per fare i cani da guardia della frontiera sud dell’Europa, vanno preparate in qualche modo alle scene dei rastrellamenti, dei campi di concentramento dai quali escono grida o cadaveri da seppellire in fosse comuni.
Secondo le Nazioni Unite «la campagna di arresti arbitrari e deportazioni, è stata preceduta e accompagnata da un inquietante aumento dell’incitamento all’odio e del discorso razzista contro gli stranieri, sui media sui canali online». Esattamente ciò che è avvenuto anche in Tunisia, all’inizio di quella che sarebbe divenuta poi la campagna sulla “crisi migratoria”, con il suo strascico di morte ed orrori che tutti stiamo vedendo. L’autocrate Saied nel febbraio di quest’anno, incitò alla caccia al nero attraverso un discorso ufficiale parlando di un piano per «la sostituzione etnica in Tunisia». «Vogliono trasformarci da paese arabo musulmano a paese puramente africano» disse.
Subito partirono linciaggi per strada dei profughi sub-sahariani, anche con morti. E forse la notizia delle fosse comuni di Sfax, con oltre mille cadaveri dentro, frutto di affondamenti in parte provocati dalla Garde National che ha l’ordine di fermarli ad ogni costo, anche in Tunisia ha fatto così meno rumore. La strategia in questi paesi, per poter far digerire quello che sono chiamati a fare dall’Europa e dall’Italia in cambio di soldi, sembra essere quella della creazione dell’emergenza migranti, nonostante di problemi ne abbiano un’infinità prima di questo. Tutto il mondo è paese, è il caso di dirlo.