Intervista all'eurodeputato Pd
Parla Benifei: “Le piazze per la Palestina chiedono risposte”
«Le manifestazioni hanno intercettato un sentimento profondo e diffuso: come si può accettare il genocidio in atto a Gaza? La sfida successiva è parlare a chi in quelle strade non c’era e senza cui non c’è possibilità di cambiare le cose»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

Brando Benifei, eurodeputato dal 2014 e capodelegazione del Partito Democratico al Parlamento europeo dal 2019 al 2024, il Medio Oriente è in fiamme. Alla mattanza di Gaza si è aggiunta la guerra Israele-Iran. L’Europa non riesce ad andare oltre i soliti appelli alla moderazione. Siamo condannati all’irrilevanza?
L’Europa, al di là di alcune espressioni sgradevoli che abbiamo sentito in questi giorni, è largamente posizionata per la de-escalation del conflitto e per fermare il reciproco lancio di missili, per riprendere il dialogo diplomatico che peraltro era in corso fra USA e Iran proprio sul programma nucleare. Ma le parole che arrivano da Kallas e dalla Commissione appaiono poco incisive e mostrano a tutto il mondo la fragilità della costruzione europea, incapace nella sua forma attuale di incidere in questa complessa vicenda. In queste ore la Aiea, la Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ha ridimensionato molto la preoccupazione per il possibile sviluppo di una bomba da parte dell’Iran e dunque anche questo argomento pare cadere: il diritto internazionale deve essere ripristinato, ma è chiaro che nel mondo che si sta delineando davanti a noi ci sarà bisogno di difendere questi principi avendo la forza di deterrenza dalla propria parte. Ma anche su questo oggi l’Europa appare divisa e in corsa a realizzare un riarmo nazionale che politicamente e finanziariamente non è efficace per la strada che dobbiamo intraprendere.
E quale sarebbe questa strada?
Non serve scomodare figure della sinistra europea, ma basta citare Draghi e le sue audizioni al Parlamento italiano e all’Europarlamento per sapere che, senza nuovo debito comune e risorse proprie europee e senza maggiore integrazione politica, la difesa comune non si fa e diventa incapace di svolgere quella funzione assertiva per supportare una politica estera comune. Diventa spesa inefficiente e con poca efficacia difensiva. Questo dibattito è importante e ineluttabile vedendo la direzione che stanno prendendo i conflitti globali e la mancanza di una presenza sufficientemente marcata dell’Europa. A patto però che l’Europa non tradisca se stessa, perché se anche noi abbandoniamo i principi dello stato di diritto e del diritto umanitario e internazionale non ha più senso il nostro agire comune. Si veda ad esempio quanto stanno portando avanti alcuni governi sull’abbandono delle convenzioni internazionali sulle armi vietate. È davvero il momento in cui capire chi vogliamo essere come europei.
Da Roma a Bruxelles, la “diplomazia dei popoli” ha riempito il vuoto della diplomazia degli Stati: i 300mila di Roma, gli oltre 100mila di Bruxelles, le tante manifestazioni in Italia con la Palestina nel cuore. La speranza è nelle piazze?
Le piazze servono appunto a ricordarci che dietro le istituzioni ci sono battaglie, valori, passioni, che vengono da lontano e vivono anche oggi nell’impegno di chi vuole salvaguardare le nostre istituzioni democratiche e i principi di pace e giustizia. Nello spazio democratico, la piazza, ovviamente anche con idee diverse e distanti, va preservata come luogo di espressione libera e necessaria per dare forza alle nostre democrazie. Quelle per la Palestina sono state indubbiamente un successo perché hanno intercettato un sentimento profondo, diffuso nel nostro popolo: come si può accettare la strage, io dico il genocidio perché oggi di questo parliamo con tutta evidenza, in atto a Gaza? La politica delle istituzioni deve costruire i necessari accordi e mediazioni, ma non ha più credibilità se non risponde a questioni di fondo, basilari, come il rispetto per la vita e la stessa esistenza di un popolo oggi prostrato, non solo nella Striscia ma anche in Cisgiordania. A quelle piazze bisogna saper dare rappresentanza e risposte, sapendo però che la sfida successiva è convincere e parlare a chi in quelle strade non c’era e senza cui non c’è possibilità di cambiare le cose, perché le avanguardie, anche ampie, che costruiamo in questi contesti non bastano poi per cambiare gli indirizzi di fondo delle società e dei loro governi. C’è molto lavoro da fare.
Ancora sulla mobilitazione: una stampa mainstream ha accusato la dirigenza del PD, la segretaria Schlein, di posizionare il partito su una linea iperpacifista e antisraeliana.
La nostra linea è invece chiara, nonostante il dibattito spesso complicato nel nostro partito e nel campo dell’opposizione, ma a volte volutamente confusa da osservatori interessati: noi vogliamo un’Europa politica con la capacità di parlare con una propria voce nel mondo e questo riguarda anche la materia della difesa e della sicurezza. Io mi occupo in prima linea di digitale e innovazione e so bene che, se non investiamo massicciamente in cybersicurezza, saremo preda di avversari, terroristi e criminali. E la minaccia russa non è una invenzione. Questo però significa anche mettere al centro una visione politica, una nuova idea di multilateralismo. Oggi queste idee appaiono perdenti e deboli, ma io credo vadano difese fino in fondo, in maniera adeguata a un mondo profondamente cambiato, ma senza sacrificare le uniche possibilità che abbiamo per evitare il ritorno a un mondo spartito secondo sfere di influenza e basato su un mero equilibrio di terrore.
Non vogliamo tornare lì, anche se assistiamo ancora oggi a un peggioramento della situazione.
A proposito di piazze calde. In America Trump ha mandato la Guardia nazionale e i marines a Los Angeles e non solo. Lei è reduce da una importante missione dell’europarlamento negli Usa. Che idea si è fatto della situazione?
Trump sta agendo ai limiti della Costituzione e sicuramente ha violato più volte le richieste dei giudici, provocando perfino la reazione del prudente ex presidente Obama, che ha parlato esplicitamente di clima politico che si avvicina a quello delle autocrazie. La trattativa fra Usa e Europa sul commercio sta andando avanti ma richiede molto sangue freddo da parte europea, perché l’attacco alle politiche della presidenza da parte dei giudici e da parte dei governatori presto potrebbe essere affiancato da un atteggiamento più critico dal congresso, oggi privato dei suoi poteri di trattare la materia degli accordi economici internazionali. Cedere adesso a concessioni unilaterali sarebbe un errore esiziale, le prossime settimane saranno decisive per arrivare a dei risultati soddisfacenti o in alternativa a pesanti contromisure, scenario comunque non auspicabile. Ma non siamo più in alcun modo in uno scenario tradizionale, anche rispetto al primo Trump. Nei miei incontri coi democratici, da Bernie Sanders a Nancy Pelosi alla nuova generazione con Maxwell Frost, abbiamo convenuto che è davvero arrivata l’ultima chiamata per costruire una risposta globale al network reazionario che si è stabilizzato intorno al Cpac, la riunione dei parlamentari e dei rappresentanti dei governi ultraconservatori, che sta alla base della rete internazionale di Trump e del Maga. Finalmente si è capito che quanto sta accadendo con AfD in Germania, Reform di Farage nel Regno Unito, le ultime elezioni in Polonia e quelle in arrivo in Francia, ci pongono un imperativo di solidarietà e di impegno transnazionale che deve andare oltre le varie singole iniziative dei progressisti, democratici e socialisti che abbiamo visto frammentarsi nei decenni passati. Ne abbiamo bisogno nel momento in cui i nazionalisti hanno costituito la loro “Internazionale”.