I filo-atlantisti progressisti in azione

I guerrafondai del Pd mettono nel mirino Elly Schlein: è partita la caccia alla segretaria

A “Otto e mezzo” il processo alla segretaria accusata di tradimento perché contraria a riarmo e interessi Usa: gli stessi di Cairo, Elkann e De Benedetti

Politica - di Michele Prospero

18 Marzo 2025 alle 13:00

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Foto di Cecilia  Fabiano/LaPresse
Foto di Cecilia Fabiano/LaPresse

Non c’è pace nel Pd. Dopo l’esplosione della questione delle armi europee, a Otto e mezzo il partito è stato messo apertamente in liquidazione dalle bocche di fuoco di Cairo, Elkann e De Benedetti, stavolta saldamente associate. Sono bastate alcune frasi pronunciate da Schlein in direzione per agitare tutte le galassie orbitanti attorno ai progressisti italiani. La caccia alla segretaria pare iniziata. Massimo Giannini reputa la sua gestione “aberrante”, addirittura “al di sotto della decenza”. L’insubordinazione dei parlamentari europei contro le indicazioni unanimi della leadership nazionale è soltanto l’inizio della battaglia. L’esito dello scontro, con gli uomini della “tessera numero 1” che invocano un congresso straordinario, appare incerto.

L’insurrezione viene ordinata dalle truppe d’assalto del partito americano trasversale: una super-élite euro-atlantica che opera dentro e oltre il Pd. Si tratta della coalizione dominante, cioè del centro di comando che nella continuità regge le fila del Nazareno (ma non solo) e seleziona le cariche istituzionali. Un blocco storico che dalle cancellerie europee si estende “a macchia di Leonardo” sino ad abbracciare lobby, gruppi di pressione, media, burocrazie interne e sovranazionali. Senza una fedeltà esplicita verso questo metapartito che travalica l’oceano, non si ricevono le minime credenziali necessarie per stare al governo. A ricordare agli smemorati che la genesi del Pd è avvenuta, non a caso, al Lingotto, ci ha pensato prontamente Veltroni qualche giorno fa. Quel luogo venne da lui scelto non certo per un recupero delle radici operaie, ma per offrire un doveroso omaggio al nuovo mondo amico, la Fiat e Marchionne.

Su La7 il primo segretario dem ha benedetto il riarmo annunciato dalla baronessa tedesca e ha preso le distanze da Schlein. In conformità al proverbiale buonismo, ha proposto semplicemente di cambiare il brutto nome “rearm” prescelto dalla Commissione europea, sostituendolo con un termine che suoni più gentile. È la classica ipocrisia del “Walter State”, che accumula le bombe ma le cela sotto una montagna di metafore edificanti. Prima di lui, a riconquistare ruolo e visibilità, è stato Romano Prodi. Lamentando il pericolo di un isolamento del Pd rispetto alla famiglia continentale del centrosinistra (ma non fu proprio Prodi a esortare il Pd ad appoggiare Fitto per spirito nazionale, rompendo così la ferma contrarietà dei socialisti europei alla sua nomina a vicepresidente della Commissione?), il fondatore dell’Ulivo insiste affinché i democratici salgano sul carro (armato) di Von der Leyen. Quasi per riflesso, sono giunte le scomuniche, le irrisioni, finanche il dileggio verso una leader di partito trattata come se fosse in stato di minorità e avesse bisogno di un tutore politico. Lilli Gruber, accompagnandosi a Zanda e Giannini, ha evocato per Elly la parola fatale “unfit”, non adatta al governo del paese: ora che ha idee di pace, Schlein sfigurerebbe al cospetto della levatura di eminente statista mostrata da Giorgia Meloni, che spicca – così assicurano a Otto e mezzo – per “la sua lunga storia di parlamentare”.

In seguito al disastro di Letta, i registi del naufragio del settembre 2022 hanno designato Schlein perché, in tempo di guerra, il suo passaporto (anche) a stelle e strisce li rassicurava. Erano certi del mantenimento della lealtà all’indirizzo bellicista benedetto dal vecchio segretario chiamato da Parigi. Perciò, a costo di concedere un qualche innocuo (per i cattolici adulti) radicalismo sui valori, hanno inventato una personalità radicale sui diritti ma – così credevano – affidabile su pace e guerra. Non prevedevano un tradimento così eclatante, consumato proprio sul punto cruciale delle armi. Si innervosiscono assai, gli eroi di tante sconfitte, poiché con i turbamenti della giovane Elly vacilla la sedimentazione che da lustri racchiude la costituzione materiale del Pd. Dinanzi all’inaudito affronto, viene esibita la consueta convergenza di capi con interessi accademici, editoriali, finanziari, politici e militari nel segno del ramificato metapartito americano.

Ponendosi fuori dalle grazie delle sentinelle nostalgiche dell’euro-atlantismo, Schlein decide di rischiare la leadership. Naviga ormai in un mare aperto e dovrà vedersela con agguati, voltafaccia, ordigni nascosti dappertutto. La segretaria, che pure ha raccolto un Pd a pezzi e lo ha rilanciato alle europee e alle regionali, è considerata una mina vagante. Media non più amici e notabili mai in fondo deferenti sono disposti a sacrificarla sull’altare della devozione alle più autorevoli sfere d’influenza occidentale. Disobbedendo alla super-élite, Schlein perde settori importanti del suo mondo tradizionale, ma non è detto che nell’urto con capitani usurati e ovunque umiliati dagli elettori sia destinata a soccombere. Deve però condurre una battaglia politica e culturale contro un progressismo euro-atlantico allo sbando.

Quello che del discorso di Prodi convince poco è il passaggio repentino da una impostazione funzionalistica (prima si introduce la moneta comune e poi la politica si accoda come conseguenza ineluttabile) a un paradigma di stampo militarista riciclato come inedita mappa del progetto europeo. Egli ha scandito che “se si fa l’esercito comune, Putin si ferma”. Davvero la casa europea può essere resa più solida se fondata sulla menzogna di una Russia (145 milioni di abitanti, per giunta sparsi lungo una superficie largamente disabitata che è quattro volte quella europea) pronta ad invadere ogni lembo di suolo disponibile arrivando sino a Lisbona (cioè a colonizzare col Terrore mezzo miliardo di persone)?

La conversione rabbiosa dal funzionalismo (l’arido denaro propedeutico all’accendersi del cuore di un patriottismo europeo) alla mimetica (una pioggia di miliardi sciupata in bombe per approdare alla terra promessa di una sovranità federale) pare avviata a un fiasco strategico. Si ripresenta infatti lo stesso scenario del percorso cominciato con Maastricht, quando si sostenne che all’integrazione negativa della moneta sarebbe meccanicamente succeduta l’integrazione positiva di una forma statuale europea. E, come non ha prodotto granché, in termini di unità politica, la spinta propulsiva della moneta, altrettanto sterile potrebbe rivelarsi il fucile nell’accelerare l’integrazione europea.

La politica non segue la moneta e le armi, piuttosto le precede. Illudendosi di rispondere per le rime al traditore Trump, l’Europa in realtà aderisce proprio alla sua richiesta imperativa di riarmo, utile anche per rimpinguare le onnivore casse dell’apparato militare-industriale di Washington. In un club con 27 Stati che sono ancora sovrani, e quindi vantano una capacità economica e bellica asimmetrica e persino competitiva, autorizzare la corsa agli armamenti è una pura follia. La Polonia, che reclama l’atomica, è già una potenza militare temibile lasciata crescere a dismisura nel disinteresse miope dei governi europei. Riempire gli arsenali di una Francia assediata da Le Pen, o consentire la militarizzazione di una Germania minacciata dalla AfD, procura sconcerto. Altro che sicurezza, si sta giocando con il fuoco.

Senza la decisione monopolizzata da una sfera politica comune, il riarmo costruisce le condizioni di un potenziale stato di guerra tra paesi che rimangono in competizione fra loro (Berlino non ha forse fatto fallire la Grecia per il debito?). E’ la coesione politica di un continente adesso del tutto afono sul riassetto del nuovo ordine mondiale, e non la condivisione delle bombe, la sola garanzia per una Unione pacificata e rispettata nel sistema divenuto multipolare. Che dall’Europa dei soldati possa nascere un’Europa dei cittadini, con una posizione omogenea sulle finanze, il bilancio, la politica estera, il commercio, il lavoro, i servizi pubblici, è un’allucinazione dannosa. Schlein fa bene a lasciarla ai redivivi Prodi, Veltroni, Gentiloni e ai suoi tanti nemici che votano contro le vincolanti direttive di partito o abbaiano a reti unificate denunciandola come inaffidabile.

18 Marzo 2025

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