Le testimonianza dalla Tunisia
Viaggio nell’inferno di Sfax, negli accampamenti dove in 30mila fuggono dalle violenze di Saied
“Hanno detto portavano in prigione noi tre perché siamo quelli che fanno i video, denunciamo quel che ci fa la polizia”. “Unhcr dice che non può aiutarci perché non ha capacità di azione indipendente”
Cronaca - di Angela Nocioni

Joy è una giovane nigeriana, bloccata negli uliveti a Sfax insieme ad altre trentamila persone, tutti migranti subsahariani. “Era il 2023, agosto o settembre, non ricordo bene. È allora che sono arrivata in Tunisia – dice lei – da quel momento, ho cercato di dare supporto e lottare per tutti i migranti qui. Attraverso la nostra voce, vogliamo solo far sapere al mondo quello che stiamo attraversando: non stiamo bene. Sì, l’obiettivo di tutti è attraversare il Mediterraneo per una vita migliore, ma sembra quasi impossibile. Il governo Meloni dice di combattere i trafficanti, ma in realtà stanno combattendo noi, non loro. Ci stanno buttando nel deserto, vendendoci ai libici. E da lì, devi trovare un modo per liberarti dalle prigioni, e così via, in un ciclo continuo. Molte persone sono morte, ma sembra che nessuno voglia ascoltarci. Si limitano a seguire quello che il governo Meloni chiede loro di fare. Qualsiasi cosa che possa aiutare a ottenere giustizia e libertà, io la sostengo. È giusto che il mondo veda la verità, non quello che il governo Meloni racconta. Grazie a chi fa sentire le nostre voci”.
Ad ascoltare lei e le altre persone di cui leggerete in queste pagine sono state le ricercatrici e gli attivisti di Memoria mediterranea. Il documento intero lo potete leggere sul sito memoriamediterranea.org e su Melting pot nella rubrica mensile Resistenze ai confini in cui sono raccolti i risultati di lunghe ricerche sul campo con le testimonianze dirette dei migranti. Ora a parlare è Josephus, anche lui migrante ancora in Tunisia: “Ho trovato lavoro Aït Addam, nella zona di Biserta, per fortuna sono riuscito a trovare un lavoro in una fattoria fuori Tunisi. Così mi sono dovuto trasferire con mia moglie e il mio bambino perché lì c’era un posto dove dormire. Lavoravo sempre nelle costruzioni, mi pagavano tre dinari e mezzo al metro. E poi ho avuto problemi con l’uomo per cui lavoravo. All’inizio, nei primi due mesi, mi ha pagato. Poi, al terzo mese, non mi ha pagato, al quarto mese non mi ha pagato, lui continuava a dirmi di aspettare, che mi avrebbe pagato il mese successivo. Non volevo avere problemi con lui perché conosco la situazione qui, quindi ho preso la mia famiglia e sono tornato a Tunisi e sono andato a vivere nella zona di Ariana. Poi, ad Ariana, siamo riusciti a stare con altre persone nello stesso appartamento, per risparmiare. Sono riuscito a trovare un lavoro in un cantiere. Il 21 febbraio 2023 stavo lavorando, e è successa una cosa terribile dopo il discorso presidenziale che ha fatto esplodere tutto. A lavoro ho ricevuto una telefonata da un mio amico che mi ha detto che stavano attaccando i neri nella zona. Molte persone stavano scappando, e molte sono state ferite, alcune sono state uccise”.
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Il 21 febbraio Kais Saied, capo del governo tunisino, ha legittimato ed esortato la violenza razzista già presente contro i neri migranti dalle zone subsahariane additandoli come minaccia demografica e sociale. Dopo il suo discorso si sono moltiplicati attacchi armati, stupri, raid, rastrellamenti e moltissimi neri sono stati cacciati dalle case in cui vivevano e dai posti in cui lavoravano. Raccontano i ricercatori di Memoria mediterranea: “Josephus è stato una delle tante vittime dirette di questa violenza: mentre era fuori, la sua casa è stata vandalizzata e, al suo ritorno, non ha più trovato sua moglie e suo figlio. Disperato, è andato fuori dalla sede dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni, Nazioni unite) e si è rifugiato nell’accampamento informale che si era formato lì. Per paura di nuove aggressioni, molte persone rimaste senza nulla hanno deciso di unirsi al sit-in di fronte alle sedi dell’Oim e dell’Unhcr a Tunisi. Questi luoghi, nonostante fossero bersagli di sgomberi violenti, venivano considerati meno insicuri delle strade della città, ormai teatro di persecuzioni diffuse”. Spiega Josephus: “Sono rimasto fino all’accampamento fino allo sgombero. Stavamo protestando, e alcuni di noi erano in prima linea per denunciare ciò che stava succedendo. Poi è arrivato un momento in cui le cose sono diventate folli. Noi continuavamo a vivere davanti all’Unhcr, sperando che ci proteggesse. All’inizio chiedevamo un’evacuazione, ma ci dicevano che non era possibile. Poi hanno chiesto cosa volessimo, e così abbiamo scritto che avevamo bisogno di un rifugio”.
Tra marzo e aprile del 2023, molti migranti, tra cui Josephus organizzano manifestazioni pacifiche, pubblicano video attraverso il profilo Twitter di Refugees in Tunisia. Joseph racconta: “Chiedevamo una tessera che ci proteggesse un poco per poter andare alla polizia e denunciare un problema, come un datore di lavoro che non paga. La polizia dovrebbe intervenire. I nostri figli dovrebbero poter andare a scuola. Mio figlio è qui da tre anni e non ha mai frequentato la scuola. È assurdo. Dovremmo avere accesso a cure mediche. Tutto questo era contenuto in una petizione che abbiamo consegnato ai dirigenti di Unhcr i quali ci avevano promesso di rispondere entro tre giorni. Sono passati tre giorni senza risposta. Abbiamo continuato a protestare e, dopo una settimana, ci hanno detto che non potevano esaudire le richieste, non avevano capacità di azione indipendente. Una mattina la polizia ha iniziato a sparare gas lacrimogeni. Alcuni di noi sono stati catturati, la polizia li maltrattava, li picchiava, e donne e bambini stavano soffocando per i gas lacrimogeni. Ci siamo spostati tutti all’Oim. La polizia è venuta e ci ha detto che avevamo un’ora per lasciare il posto. Alcuni di noi hanno iniziato a raggrupparsi per andare all’Ambasciata americana, perché era l’unica vicina, e dove potevamo andare e fare sentire la nostra voce. Hanno arrestato molte persone, e io avevo anche dei video. Li ho pubblicati. Stavamo soffocando coi gas, hanno sparato moltissimo gas lacrimogeno. L’aria era irrespirabile, nemmeno per me era facile. Così ho preso una strada che dall’Oim porta dall’altra parte della strada verso l’Unhcr. Quando sono arrivato lì, ho trovato un gran numero di poliziotti schierati. Mentre attraversavo la strada, improvvisamente vedo una macchina fermarsi davanti a me. Ho capito che volevano prendermi, così ho iniziato a correre. Mi hanno inseguito. Poi una moto mi ha bloccato insieme a un’altra macchina. Mi hanno preso e mi hanno chiesto il telefono. Non so perché siano così crudeli o ciechi. Non capisco. Dobbiamo tutti vivere. Se cerco rifugio nel tuo Paese, non significa che tu debba trattarmi in questo modo. Hanno iniziato a picchiarmi, usavano scosse elettriche su di me, spray al peperoncino sugli occhi, e mi hanno preso il telefono. Tra tutti noi, hanno detto che avrebbero portato in prigione solo tre di noi, perché siamo quelli che di solito fanno video e denunciano ciò che fanno i tunisini, specialmente quel che fa la polizia”.
Mem.med.: “Josephus divenne un bersaglio diretto della repressione a causa del suo attivismo perché documentava e denunciava le violenze subite attraverso i social media. Questo aspetto evidenzia una dinamica cruciale: l’assenza di media, attivisti e giornalisti capaci di operare liberamente, combinata con la criminalizzazione della solidarietà, ha costretto i migranti a farsi testimoni diretti delle proprie storie, assumendo un ruolo centrale nella denuncia delle ingiustizie”. Joseph continua a raccontare: “Ho passato un mese in prigione. Quando sono uscito ho visto che la polizia picchiava i neri, i cittadini ci attaccavano, e chiamavamo la polizia senza risposta. Anche i giornalisti avevano paura, non venivano, e non arrivava nessun aiuto, il che significa niente cibo che di solito portano, o materiali, sai, le organizzazioni non facevano nulla, e per me era già chiaro che le organizzazioni mi vedevano come se fossi troppo rumoroso, troppo loquace per i loro gusti. Questo è folle. Quindi ho pensato: beh, meglio che mi muova, magari provo ad andare a vivere a Sfax. Sono arrivato a Sfax, credo fosse luglio 2023”.
Med.mem.:“Le proteste sono proseguite, su scala ridotta, fino al 3 maggio 2024, quando le forze di sicurezza tunisine hanno sgomberato con la forza il campo a Tunisi. Attacco all’alba con gas lacrimogeni e taser. Arresto di centinaia di persone e deportazione di circa 400 migranti verso il confine libico, in aperta violazione delle norme internazionali sui diritti umani. Nel frattempo, l’attenzione mediatica si spostava su Sfax, divenuta epicentro delle traversate del Mediterraneo nell’estate del 2023 e di violenze indiscriminate”. Scrive Med.mem: “Mettere in prospettiva storica e critica la genesi di questi accampamenti informali e delle violenze quotidiane subite da chi vi risiede è essenziale per comprendere come il razzismo, l’esternalizzazione delle frontiere e l’abbandono da parte delle organizzazioni internazionali si intrecciano in un sistema di violenza e disumanizzazione strutturale. Questo sistema non è nato per caso, ma è il prodotto di politiche che stratificano e perpetuano oppressioni sulla pelle delle persone migranti, relegandole ai margini della società. Lo spostamento dell’attenzione da Tunisi a Sfax dopo lo sgombero violento del campo a Tunisi riflette un peggioramento ulteriore delle condizioni. Molti migranti per sfuggire ai raid razzisti sono stati costretti a rifugiarsi nelle campagne e negli uliveti intorno a Sfax, creando accampamenti di fortuna privi di servizi essenziali. Questi luoghi, simbolo di un abbandono sistemico, sono oggi teatro di resistenza quotidiana”.
Continua Josephus: “Tra giugno e luglio 2023 è stato anche il momento in cui la città di Sfax è diventata troppo pericolosa per le persone nere. È quello che è successo a Sfax che ha spinto le persone a vivere nella zona degli ulivi, perché non c’era un posto possibile per noi, ci attaccavano nelle nostre case, la polizia ci arrestava, ci abbandonava nel deserto, ci lasciava in un posto abbandonato. Ci sono stati stupri contro persone nere, molti di noi sono stati uccisi, tanti persone abbandonate nel deserto, la polizia ha semplicemente radunato persone e le ha portate e lasciate da qualche parte, a morire di fame. In quel momento, ero a Sfax. Questo è ciò che mi ha portato alla scelta di andare a vivere nella zona degli ulivi. Non avevamo scelta, eravamo obbligati a fuggire. A poco a poco ci siamo cominciati a spostare negli oliveti, dormivamo lì, non c’erano tende, non c’era niente, dormivamo solo sotto gli alberi. Era estate, un caldo infernale. Non avevamo nessun altro posto dove andare”.
David Yambio è tra i fondatori della rete Refugees in Libya, che ha poi ispirato la creazione di Refugees in Tunisia. È, insieme a Luca Casarini e a Don Mattia Ferraresi (e al direttore di Fan Page, Francesco Cancellato) tra gli attivisti spiati – non si sa ancora da chi, cinque inchieste sono aperte su questo – da sofisticatissime spyware prodotte da Paragon. Secondo quanto ha scritto Il Giornale, senza che siano arrivate smentite, esisterebbe una inchiesta della procura distrettuale di Palermo sulla tratta di persone in Libia e ci sarebbe anche David Yambio tra gli indagati. Dice David Yambio: “Questi uliveti, prima che diventassero accampamenti improvvisati, venivano usati come luoghi di nascondiglio per attraversare il Mediterraneo. Erano già un rifugio prima che scoppiasse la violenza. Gli uliveti offrono riparo, ombra, ma offrono anche un rapido accesso al Mediterraneo. E penso che fosse tipo sì, a giugno o luglio 2023, che anche la situazione a Sfax non era più vivibile per le persone e hanno iniziato a spostarsi lì”.
Med.mem: “La trasformazione di Sfax da fiorente hub economico a simbolo di crisi umanitaria riflette le contraddizioni profonde nel rapporto tra la Tunisia e la migrazione. Situata strategicamente sul Golfo di Gabès, a soli 130 km da Lampedusa, Sfax è diventata un punto di partenza cruciale per le rotte migratorie verso l’Europa. Mentre la sua economia aveva inizialmente tratto vantaggio dalla presenza migrante, le difficoltà economiche e la retorica discriminatoria promossa dal governo hanno alimentato tensioni sociali e un crescente clima di ostilità. Il presidente Saïed, in cerca di consenso in un contesto di declino economico e instabilità politica, ha adottato una propaganda populista e xenofoba, accusando i migranti di rappresentare una minaccia per l’identità culturale e sociale del Paese. Questa retorica ha trovato eco nelle politiche repressive messe in atto a Sfax, culminando in una serie di violenze sistematiche, raid e rastrellamenti. A partire dal luglio 2023, le autorità tunisine hanno intensificato le operazioni contro i migranti subsahariani presenti in città.
Numerosi raid sono stati condotti nelle aree urbane, compresi quartieri popolari e punti di ritrovo come la storica piazza del mercato di Bab Jebli, dove le persone si riunivano in cerca di lavoro o supporto. Lo sgombero forzato di Bab Jebli ha segnato uno dei momenti più emblematici della repressione, con centinaia di persone costrette a lasciare i propri ripari e a disperdersi. Contemporaneamente, i rastrellamenti nelle strade e nei luoghi di lavoro hanno aumentato il senso di insicurezza e precarietà, mentre la polizia intensificava i controlli e i fermi arbitrari. Molte persone sono state letteralmente spinte fuori dalla città e portate con la forza in aree remote, in particolare nelle regioni desertiche al confine con la Libia e l’Algeria.
Le deportazioni nel deserto – condotte a luglio, centinaia di persone abbandonate senza acqua, cibo o protezione in un ambiente ostile – hanno colpito non solo individui in situazione irregolare ma anche persone regolarmente registrate presso le organizzazioni internazionali. La violenza sistematica, le deportazioni e l’abbandono hanno reso evidente il fallimento di un approccio che ha scelto la via della repressione e della disumanizzazione. La crisi di Sfax non è solo una questione locale, ma riflette il più ampio fallimento delle politiche di esternalizzazione delle frontiere, che delegano la gestione della migrazione a Paesi di transito come la Tunisia, trasformandoli in zone grigie di violenza”.