Disobbedire al pensiero unico
Contro le stragi di migranti nel Mediterraneo bisogna andare a prendere i deportati nel deserto
Gli speronamenti delle barche sono seguiti dalle deportazioni nella sabbia tra la Tunisia e l’Algeria. A volte riescono a comunicare la loro posizione. Dobbiamo vincere la paura e andare lì come abbiamo fatto per il mare
Cronaca - di Luca Casarini
Il 2024 si è chiuso con due naufragi, altri due. Venti persone sono affogate davanti a Lampedusa, tra loro c’erano 3 bambini. Solo sette i superstiti, fra loro c’è un bambino siriano di 8 anni. Anche davanti alle coste tunisine persone sono scomparse in acqua, tra loro un bambino di cinque anni.
La Tunisia sta rapidamente diventando la Libia. Forse per pericolosità e violazione dei diritti umani, l’ha superata. La pratica degli speronamenti in mare delle barche dei migranti, documentati in vari casi e raccontati da moltissime testimonianze di sopravvissuti, si è accompagnata a quella delle deportazioni nel deserto, a sud ovest, in quel mare di sabbia che va dai dintorni di Tezeur al confine algerino. Donne, uomini e bambini sono caricati in autobus e pick-up, e scaricati come rifiuti tra le dune. A volte sono riusciti a comunicarci la loro posizione, ma noi, nonostante appelli e pressioni, non siamo riusciti a fare niente: lì sono rimasti, oppure chissà dove sono adesso. Quella ragazza incinta, quell’uomo con il bambino in braccio, quello con il buco di un proiettile sul polpaccio…
Riguardiamo i piccoli video e le foto che ci hanno inviato dal deserto. Supplicano, supplicano noi, ma invano. Non siamo riusciti, non sappiamo come fare. Nessuno sembra preoccuparsi troppo per quello che accade dall’altra parte del Mediterraneo. Se non è una ferita questa per noi, che cosa lo può essere? La colpa è nostra, non solo di quelli che non ascoltano, e non solo di quelli che finanziano questo sistema terribile di “respingimento e governo della migrazione “. È nostra, perché dobbiamo prima o poi vincere la paura, e andare lì, come abbiamo fatto per il mare. Dovremmo almeno provarci, anche se ci fermeranno prima, magari direttamente in aereoporto a Tunisi per rispedirci indietro. Anche se è probabile che ci arrestino, magari accusandoci di “complicità con i trafficanti”.
Lo fanno già in Italia, perché non dovrebbero in un paese che ha sbattuto in galera perfino i candidati presidenti delle opposizioni all’autocrate Saied prima delle elezioni? Ma quei video, quelle grida dei video, quei messaggi, sono rivolti a noi. Certo, diciamo che sono appelli a tutto il mondo, a quella che autodefiniamo “la nostra civiltà”, rispolverando antiche origini di umanità e giustizia, che oggi per la verità appaiono così lontane da farci sorgere dubbi sul fatto che siano realmente mai esistite. Ma non c’è niente da fare: loro chiamano noi. Sono davvero fratelli e sorelle dunque? A tal punto da farci vincere la paura di rischiare la nostra vita, per andare a soccorrerli, li nel deserto?
Antigone, su questo legame di sangue, da “fratelli”, trova il coraggio di sfidare Creonte. Se dunque rovesciamo il piano, per essere davvero fratelli e sorelle, dobbiamo avere il coraggio di sfidare Creonte. Che non era un tiranno diverso dagli altri tiranni, cioè più cattivo o sanguinario. Si comportava, nei confronti di un Polinice traditore, esattamente come avrebbero fatto tutti i Re. La polis deve rimanere in piedi, grazie alle leggi che Creonte stesso fa, e applica. Per il bene del “sistema”, perché il Regno, quello degli uomini, possa rimanere in piedi. Antigone disobbedisce alle leggi di Creonte, in ragione di “leggi non scritte”, che vengono ben prima e stanno bene sopra quelle degli uomini. Le leggi di Dei eterni, come eterno è il mondo dei morti. I vivi, quelli che fanno le leggi, non possono vantare nessuna eternità. Antigone disobbedisce, sapendo che questo la condurrà alla morte, ma la sua punizione è destinata a divenire una colpa collettiva, come urla il Coro: «Non lasciar morire Antigone, Creonte! Porteremo tutti questa piaga al costato per secoli!».
Si, sarà una piaga che ci porteremo nel costato per generazioni, quella di aver permesso che degli innocenti, che l’unica cosa che hanno tradito è l’imposizione a non avere speranza, venissero sottoposti a sofferenza e morte, in nome della legge. È la stessa legge, nomos, fatta dagli uomini, che abbiamo visto interpretare nel processo a Salvini: una interpretazione fatta dal giudice, perché i giudici non “applicano” semplicemente la legge, ma sono anche chiamati ad interpretarne il significato profondo. Lo dovrebbero fare tenendo conto di quel rapporto inquieto, contraddittorio, difficile, tra legge e giustizia, che non si esaurisce nei “fatti”, ma guarda a Dike che indica Themis: qualcosa di trascendente l’umano raziocinio, la contabilità dei cavilli che compongono la norma. Qualcosa capace di promanare un “senso” di giustizia nella decisione. Sul caso Salvini si può dire che è stata applicata la legge, ma non è stata fatta giustizia. Le sofferenze e la violazione della dignità umana di quelle 147 persone inermi, non hanno conosciuto, per ora, giustizia.
C’è chi dice, come l’avvocata Buongiorno che ha costruito la difesa di Salvini, che questo sia dovuto al fatto che l’imputato era quello sbagliato: la colpa sarebbe del comandante della Open Arms, che ha “bighellonato” per giorni senza trovare una soluzione alternativa allo sbarco in Italia dei naufraghi. Mi è subito venuto in mente il caso nel quale sono stato direttamente coinvolto: l’entrata a Lampedusa con 59 naufraghi senza permesso, disobbedendo all’ordine emanato dall’allora ministro degli interni Salvini, il 19 marzo del 2019. Assolto con formula piena. Ho tratto un insegnamento: a volte bisogna disobbedire prima, obbedendo direttamente ad altre leggi, per ottenere giustizia. Anche in quel caso una norma fatta da un Creonte qualsiasi, che diceva di agire per la “difesa della Patria “, aveva espulso Dike da sé stessa. Era un semplice “fatto”.
La decisione di violare “l’ordine impartito da una nave militare” – come recitava il capo d’accusa contro il comandante Pietro Marrone e me, ci era giunta spontanea, naturale. In realtà stavamo attingendo ad altre leggi, ben più sopra l’editto di Creonte. Cosa che poi anche un giudice ha riconosciuto. Ecco, forse bisogna che impariamo a disobbedire prima, a volte. A farlo credendo che senza il tentativo di mettere insieme Nomos e Dike, legge e giustizia, sarà solo la catastrofe, come ci suggerisce Sofocle. Questo credere che il nostro compito di disobbedienza non si debba esaurire nell’affermare un rifiuto, una resistenza, ma debba essere inteso come una funzione fondamentale nel tentativo di raggiungere un equilibrio nella Polis, tra interessi individuali e collettivi, tra diritti e doveri, tra legge e giustizia, restituisce nuova vita ad una “speranza” che diventa un agire concreto, non un’attesa.
Stanno chiamando noi, quegli esseri umani che vogliamo considerare fratelli e sorelle perché pensiamo che la fraternità umana sia condizione fondamentale, nel mondo dell’individualismo proprietario spinto al massimo dal turboliberismo, per ripensare la Polis, la società in cui poter vivere in pace. Dovremmo avere il coraggio di sperare, e dunque, disobbedire al pensiero unico, che ci dice che non vi è soluzione, non vi è alternativa, non vi è altro modo possibile. Sperare, e quindi agire. Fare la nostra parte perché legge e giustizia si vedano tra loro, si parlino. Che il nuovo anno possa portarci questa forza.