Il direttore di Limes
Parla Lucio Caracciolo: “Bibi ha fallito in Iran, sta portando Israele al suicidio”
“Netanyahu avrebbe voluto far implodere il regime di Teheran ma non ci è riuscito. E non ha intaccato neppure il programma nucleare. E a Gaza, nonostante il massacro di civili, non è riuscito a indebolire Hamas. Aver aperto tutti questi fronti danneggerà Tel Aviv”
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

Il Medio Oriente in fiamme, sospeso tra una guerra totale e precari cessate-il-fuoco. L’Unità ne discute con Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più autorevole rivista italiana di geopolitica.
Professor Caracciolo, tra tregue annunciate, poi subito disattese e successivamente riproposte, il Medio Oriente è una polveriera esplosiva. In questo scenario terremotato, c’è chi dice e scrive che Benjamin Netanyahu, primo ministro d’Israele, sia diventato il “padrone del mondo”.
Non mi pare. Quello che emerge, nonostante il cessate-il-fuoco che vedremo se e in che misura verrà rispettato, è che gli obiettivi centrali che Israele si era posto nella guerra contro l’Iran, non sono stati raggiunti.
Quali questi obiettivi e perché non sono stati raggiunti?
Nell’ordine: nel medio-lungo periodo, l’obiettivo era quello di “somalizzare” l’Iran, cioè non di cambiare il regime ma far crollare lo Stato. Tutto questo prevede un processo lungo, che dovrebbe partire da una insurrezione all’interno del Paese, un misto di proteste popolari, di sollevazioni nelle Forze armate, e di sollevazioni nelle regioni più delicate al confine con il Pakistan, penso al Belucistan e naturalmente alla parte curda. Per ora non ci sono segni che portino in questa direzione. Questo è l’obiettivo strategico che oggi mi sembra più lontano di ieri per Israele, perché è fallito il tentativo di stroncare una volta per tutte il programma iraniano, direttamente o con l’aiuto degli americani. In realtà, per potersi liberare dell’atomica iraniana, o quantomeno dell’incubo che l’Iran possa costruirla da un giorno all’altro, la condizione finale, cioè la fine dello Stato o in subordine la fine del regime, è premessa di questo obiettivo e non la conseguenza. Tu non puoi togliere a chiunque, tantomeno all’Iran, un programma atomico segreto, non puoi abolire questo programma, se non assumendo il controllo del Paese oppure se il Paese perde il controllo di se stesso. Non c’è alcun tipo di bombardamento che possa assicurare nulla. Tanto è vero che una delle poche certezze che abbiamo è che l’uranio arricchito, in notevole quantità da parte iraniana è stato messo non sappiamo dove ma certamente per ora al sicuro. D’altronde, sarebbe stato francamente un po’ incredibile che essendo l’attacco israeliano e anche americano, annunciato da tempo l’Iran non avesse provveduto a proteggere ulteriormente le centrifughe di nuova generazione, l’uranio arricchito e quant’altro. Come presentare questa obiettiva sconfitta alla sua opinione pubblica e al suo governo, è certamente quanto occupa e preoccupa in questo momento Netanyahu.
Perché, professor Caracciolo?
Perché dal 7 Ottobre 2023 in avanti, Netanyahu ha lanciato Israele in un percorso potenzialmente infinito di guerra, che alcuni identificano con la sua necessità di restare al potere, di evitare processi e condanne. Ma a mio avviso va molto al di là della sua persona e riguarda la tendenza apocalittica che oggi sembra regnare nel governo israeliano e a quanto pare anche in una parte notevole dell’opinione pubblica, cioè che Israele sia impegnato in una lotta tra la vita e la morte, con il rischio che, credendosi impegnato in questa lotta esistenziale, finisca per suicidarsi.
Vorrei che restassimo ancora su questo punto. Nel panorama editoriale italiano, Limes è la rivista che più e meglio ha affrontato la questione israeliana, e proprio per questo lei è forse la persona più indicata per rispondere ad una domanda che in molti si fanno: cos’è Israele oggi?
È un Paese che sta cambiando pelle e cambiando di fatto anche regime. Nel senso che siamo in piena emergenza bellica e in questa emergenza bellica il governo israeliano, e Netanyahu in particolare, stanno gestendo il Paese con metodi sempre più autoritari e con obiettivi, più o meno discutibili, che difficilmente potranno raggiungere. Stanno spingendo il Paese verso una guerra che così concepita può solo danneggiare Israele.
Vale a dire?
Mi riferisco intanto alla guerra di Gaza, che ormai è diventata un massacro di popolazione civile, ma non ha, a quanto pare, impedito ad Hamas di mantenere le sue strutture, o almeno parte di esse, a Gaza, e anzi di reclutare nuove forze, se è vero, come stima l’Esercito israeliano, che Hamas possa oggi contare su circa 40mila uomini armati in zona. La situazione in Libano e in Siria appare invece oggi più favorevole a Israele, anche se l’idea che il cosiddetto “Asse della resistenza” sia stato stroncato è, a mio avviso, un po’ troppo ottimistica. Le strutture di Hezbollah e anche le milizie irachene sono ancora esistenti, gli arsenali missilistici esistono ancora. Il vero successo di Israele, secondo me, è stato raggiunto, almeno dal punto di vista tattico, non attraverso una guerra ma attraverso il crollo del regime di Assad e la penetrazione, di qualche chilometro ma importante, d’Israele in territorio siriano, oltre le alture del Golan, ciò che permette agli avamposti israeliani sul monte Hermon e alle sue radici di avere praticamente Damasco a un tiro di schioppo: sono circa venti chilometri in linea d’aria. Il problema è capire cosa succederà nel resto di ciò che rimane della Siria, cioè molto poco; capire se Israele si trovi di fatto di fronte la Turchia oppure semplicemente il caos. Tutto questo, comunque, dal punto di vista tattico per Israele è certamente un vantaggio importante, perché sappiamo come decisivo sia il Golan, il lago di Tiberiade e tutta l’area nord per mille motivi, non ultimo quello dell’acqua. Infine, ma non per importanza, la Cisgiordania, o meglio la Giudea e Samaria, dove ci sono due elementi che saltano agli occhi…
Quali?
Il primo, e che quella che una volta si chiamava l’Autorità nazionale palestinese è ormai ridotta ai minimi termini, tenuta in piedi con gli spilli da Israele per fare funzione di pseudo governo. E dall’altra, che i coloni hanno ormai in mano la situazione, anche perché sono rappresentati direttamente al governo e sembrano essere loro a dire a Gerusalemme quello che bisogna fare piuttosto che il contrario.
Professor Caracciolo, se io le nomino Onu, Nato, Unione europea, lei cosa risponde?
Che l’Onu si è prefigurata un compito che ovviamente non può svolgere, cioè quello di garantire la pace nel mondo, ma è nata in conseguenza della Seconda guerra mondiale e continuerà ad esistere, se non altro come luogo di incontri e scontri diplomatici, senza particolari effetti al di là del Palazzo di Vetro. Per quanto riguarda l’Unione europea, per ora non riesce ad andare oltre la sua dimensione economica, anche perché ogni volta che si allarga rende più difficile la possibilità di aumentarne la coesione interna, tanto è vero che ormai su ogni dossier ognuno va per conto suo. E lo stesso vale per la Nato, con la differenza che essendo una organizzazione militare finora guidata dagli americani, e avendo deciso gli americani che lo spazio atlantico è per loro di secondaria importanza, fors’anche terziaria, evidentemente la tendenza a fare ognuno gli affari propri è diventata ancora più forte.
In questo giro di orizzonte geopolitico, è opportuno soffermarsi sull’America e il complesso circolo trumpiano. In Italia, c’è chi ha sostenuto che per noi e per l’Europa l’isolazionismo del tycoon fosse una cosa buona e giusta, perché così ci saremmo evitate altre guerre a trazione statunitense. Insomma, Steve Bannon un pacifista…
Più che di Trump parlerei dell’America che lo sostiene, e che è, fino a prova contraria, maggioritaria. C’era prima e ci sarà, non so se maggioritaria, anche dopo di lui.
Trump è interprete di una rivoluzione identitaria, quasi antropologica negli Stati Uniti, e non è certo la causa di tutti i mali o di tutti i beni. In secondo luogo, come si faccia a definire isolazionista, un signore che appena va al potere comincia una guerra commerciale a 360 gradi, questo mi pare francamente un po’ bizzarro e alquanto azzardato e difficile da spiegare. Terzo, un signore che sia pure per un brevissimo periodo è pronto a fare quello che nessun altro presidente ha mai fatto, cioè scendere in campo con Israele bombardando l’Iran, anche qui è un isolazionismo un po’ sui generis. Il problema di fondo, a mio avviso, è che l’America vive una crisi talmente profonda da impedirle di avere una strategia, ammesso che l’abbia mai avuta dopo la fine della Guerra Fredda, e quindi rende i suoi comportamenti piuttosto erratici. Resta sullo sfondo, ed è anche il motivo per cui Trump sta cercando se non proprio di chiudere, quantomeno di mettere una parentesi alla vicenda mediorientale, l’idea che l’America debba occuparsi innanzitutto di se stessa e poi della Cina. Tutto il resto viene molto dopo. Cina che, come nel caso ucraino e anche in quello mediorientale, tutto sommato trae profitto dalle contraddizioni e dalle incertezze degli americani.
C’è chi sostiene che il low profile di Vladimir Putin sull’Iran sottintenda una contropartita da parte di Trump sul fronte ucraino. Lei come la vede?
Credo che Trump e Putin s’intendano abbastanza bene. Sono due personalità, però, direi quasi opposte, più che diverse, malgrado le apparenze e malgrado la tendenza autoritaria che indubbiamente li contraddistingue. Putin è un professionista dello spionaggio, un uomo dello Stato profondo; Trump è tutto il contrario. Ciò detto, credo che alla fine la decisione di Trump e della sua amministrazione sarà quella di costringere, in qualche modo, l’Ucraina e la Russia ad arrivare a un qualche compromesso prima che la situazione sfugga di mano al punto che l’America debba riconcentrarsi su quello scenario e quindi perdere di vista la situazione cinese.
Noi tendiamo a dimenticare sempre questo fatto, seguendo la cronaca perdiamo di vista la sostanza. E la sostanza è lo scontro Stati Uniti-Cina. È interessante notare come, per esempio, in questi ultimi giorni, quando l’America ha deciso di concentrare il grosso delle sue forze militari in area mediorientale-mediterranea, si sia scatenata nel Pentagono una disputa interna, con alcuni dei capi del Pentagono che accusavano altri, in particolare il capo del Comando centrale americano, di avere distratto risorse strategiche dalla Cina portandole in Medio Oriente. E questo è considerato un errore da parte di chi guarda un po’ più lontano.