Parola alla politologa
Intervista a Nadia Urbinati: “Trump vuole la guerra interna per usare poteri dittatoriali”
«Quella che lui chiama “invasione” degli immigrati è la giustificazione per un intervento discrezionale del commander in chief. Per fortuna ci sono ancora delle Corti indipendenti, anche l’economia sarà un ostacolo per il suo piano scellerato»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla prestigiosa Columbia University di New York. La Guardia nazionale, i marines impiegati a Los Angeles e in altre grandi città americane. Professoressa Urbinati, sono prove tecniche per lo stato di polizia?
Sabato è stata la giornata della grande mobilitazione “No kings”, che è coincisa con la parata militare svoltasi a Washington per celebrare il 250° anniversario dell’Esercito americano che ha coinciso con il compleanno di Trump. Trump e i governatori repubblicani hanno sferrato un attacco contro gli stati democratici dell’Unione, e nel farlo utilizzano e utilizzeranno tutti i mezzi, anche quelli illeciti, come infiltrare agenti provocatori tra i manifestanti, per provocare disordini in modo da giustificare un impiego massiccio delle forze dell’Ice (La United States Immigration and Customs Enforcement è un’agenzia federale statunitense, parte del Dipartimento della Sicurezza Interna degli Stati Uniti, responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione, ndr) e soprattutto della Guardia nazionale. Trump ha tutto l’interesse a radicalizzare il conflitto. L’abbiamo visto in California: l’azione di una minoranza di cittadini che hanno contestato l’arresto di lavoratori immigrati è stato il pretesto per mandare la Guardia nazionale, l’esercito e addirittura i marines.
Trump vuole lo scontro…
Per quali finalità?
Idealmente eliminare l’opposizione. La vuole eliminare negli stati. Dopo la California, l’altro stato democratico che ha un numero elevato di immigrati, è quello di New York. C’è da aspettarsi il bis della California. Le offese e le minacce al Partito democratico sono quotidiane. In secondo luogo, il tycoon ha l’ambizione di inaugurare una “nuova America”. Nello slogan “Make America Great Again”, quell’ “again” non implica una riedizione del passato. Sarà un progetto etno-nazionalista e suprematista bianco legato al tempo presente che ha caratteristiche nuove. Il disegno di una “nuova America”, per andare in porto, implica l’uso del potere presidenziale in un senso sempre più accentratore e assolutistico. E qui entra in gioco un fattore decisivo…
Quale, professoressa Urbinati?
La Costituzione americana, che prevede, in alcuni momenti, un potere quasi dittatoriale per il Presidente. Ricorda l’idea delle “prerogative del monarca” di cui parlava John Locke nel Secondo trattato del governo. La questione è “quando”, in quali casi. E l’interpretazione del quando e delle occasioni nelle quali questo potere discrezionale della presidenza può essere esercitato è nelle mani del Presidente.
Per Donald Trump, per usare un gioco di parole, quando è questo “quando”?
Lui ritiene che il “quando” sia oggi, a causa di quella che chiama l’invasione da parte di nemici come gli immigrati senza permesso o irregolari. L’invasione è una giustificazione per la dichiarazione del potere di eccezione e quindi di un intervento discrezionale del commander in chief. Il potere emergenziale è ormai un potere di governo ordinario. Trump interpreta il “nemico” come gli immigrati interni e coloro che li appoggiano. Quindi i nemici sono “dentro”. Non c’è mai stato un dispiegamento di marines come quello recente in California in relazione non a disordini o spargimento di sangue o guerriglia. Trump la guerra la porta all’interno. È questo che dovrebbe far rabbrividire. Se viene dichiarato lo stato di guerra, il Presidente ha, per Costituzione, poteri eccezionali per risolvere la questione della guerra. Non sarà facile portare a compimento questo disegno scellerato. Ci sono ancora corti che dimostrano una certa autonomia e nonostante tutto sono equilibrate. Non hanno, ad esempio, riconosciuto la legalità di mandare i marines in California. E prima ancora, non avevano riconosciuto la legalità dell’espulsione senza “rule of law” degli immigrati. C’è poi un altro attore che può essere determinante nella limitazione del potere di Trump…
Di che si tratta?
L’economia, che è la cosa che interessa di più in America. Il fatto che Trump abbia fatto perseguitare casa per casa tutti quelli che avevano un pur vago sentore di essere immigrati, ha messo in ginocchio, per una settimana e più, l’economia. Chi va a lavorare nelle campagne? Stiamo parlando di migliaia e migliaia di ettari di terra. Attività che si reggono sugli immigrati, molto spesso irregolari. E poi gli alberghi, le pulizie, le attività che gli americani non fanno più… Venerdì scorso, Trump ha scritto un tweet dove ha detto che forse è il caso di cambiare politica perché l’economia ne soffre, mentre lui dice di volerla “più grande che mai.” L’associazione dei coltivatori, come quella dei ristoratori e altre ancora, si sono mobilitate facendo pressione sul Partito repubblicano perché stanno perdendo lavoratori. Questi fattori – la giustizia, l’economia – saranno quelli che peseranno di più nella possibilità di limitare il potere di questo tiranno.
Tiranno?
Assolutamente sì. Perché lui ha una disposizione personale che è quella classica del tiranno. Si fa perfino assaggiare il cibo da altri. Non mangia nulla che non sia stato prima verificato dagli “assaggiatori”. Come i tiranni classici. Le norme lo limitano, anche se sempre troppo poco. Ma soprattutto a limitarlo è l’interesse economico che sta molto a cuore anche ai suoi repubblicani che temono di vedersi franare la terra sotto i piedi. Loro vogliono essere rieletti, anche dopo la fine del secondo mandato di Trump. Hanno tutto l’interesse a non appiccicarsi a lui come francobolli. Non so quanto gli riuscirà, però si sono intraviste delle prime schermaglie; certo, è ancora troppo poco.
Lei insegna in una delle più prestigiose università degli Stati Uniti, la Columbia University. Prima della militarizzazione del territorio, i bersagli dell’amministrazione Trump sono stati e continuano ad essere, i campus universitari.
Trump ha due nemici: i migranti e la cultura. Ed è indicativo che li tenga assieme. Entrambi valicano i confini, entrambi sfidano gli ostacoli che ne limitano la libera espressione o il libero muoversi. La cultura non è ideologica come a Trump o a Vance sembra. È storia, sociologia, antropologia, letterature: sono quel che chiamiamo discipline umanistiche che vivono di libera ricerca, di visioni critiche, di pluralismo. La cultura umanistica vive e si alimenta in sistemi politici, economici, giuridici che siano in grado di garantire la libertà di pensiero e di ricerca. La cultura sta insieme all’immigrazione necessariamente. Il mondo della cultura è fatto di immigrati, nel senso di cercatori e ricercatori. Si esce dal proprio paese per studiare e per lavorare. Immigrazione, nel caso della ricerca e della cultura, vuol dire andare dove si lavora meglio, dove c’è un clima culturale migliore. La cultura non ha confini. Come gli esseri umani che cercano una vita migliore, come gli immigrati. Per questo Trump li attacca insieme. L’attacco alla cultura è anche l’attacco a quella che i trumpisti chiamano sprezzantemente l’élite. In questo modo, Trump riesce a muovere quella parte di cultura popolare del paese che ha sempre avuto, dal ‘700 in avanti, una indifferenza, nel migliore dei casi, ma più marcatamente ostilità nei confronti di chi è più acculturato, laureato etc. C’è stato un periodo nella storia americana, a partire dagli anni ’60 in poi con la lotta per i diritti civili, in cui la cultura popolare è stata un po’ edulcorata in questo aspetto “anti-culturale”. Questo perché si è ritenuto, per i figli che venivano dal Midwest o dai sobborghi delle grandi città, che andare al college avrebbe migliorato le loro condizioni di vita e le loro aspettative di scalata sociale. Per un po’ di anni questo è stato vero. E non si è avvertita questa polarizzazione tra cultura popolare e cultura universitaria. Oggi le cose sono cambiate.
Nel senso?
Oggi andare al college non paga più. Su questo ci sono dati interessanti. Andare al college, laurearsi, non dà più la sicurezza di avere un salario migliore, un lavoro migliore, una vita migliore. E così tutto quell’odio verso le università è riemerso con forza. E Trump, con Vance e gli oligarchi che conosciamo ne approfittano per fare una scrematura di quelle parti che loro chiamano “liberal”, quella che noi definiamo cultura umanistica di base, per eliminarla completamente. C’è una congiunzione di interessi economici, di trasformazione delle classi sociali, in particolare della middle class, in questo attacco contro le università, che non si fermerà. Un esempio pratico: nella mia università, alcuni giorni fa la presidente ha invitato – invitato perché per legge non può essere imposto – tutti coloro che hanno superato i 60 anni di età ad andare in pensione anticipata, con un incentivo economico. C’è un tentativo di eliminarne alcuni per sostituirne con altri delle nuove generazioni che sono, come dire, più “vaccinate” a questo progetto trumpiano.
Tutto questo avviene mentre il Medio Oriente è in fiamme. Ma per Donald Trump, Benjamin Netanyahu è ancora un solido, affidabile alleato, oppure sta diventando un intralcio rispetto ai suoi progetti nella regione, ad esempio a un rapporto più stretto con le petromonarchie del Golfo arabico, in particolare con l’Arabia Saudita?
Io credo che per Trump, Netanyahu sia sempre il suo alleato e sodale. D’altro canto, l’Arabia Saudita si sta riposizionando e preferisce l’alleanza Trump-Netanyahu piuttosto che l’Iran. È una lotta all’interno del mondo musulmano, una lotta di potere mascherata da scontro religioso tra sciiti e sunniti. L’Iran non ha una politica imperiale, ma una politica strategica sì. Ambirebbe a un controllo, almeno fino all’Egitto, di quell’area del Medio Oriente. Per realizzare la sua politica, si è servito in passato di Hezbollah, di Hamas e di altri gruppi sciiti e anche jihadisti. Questa ambizione di potenza, da parte dell’Iran, si è scontrata con l’ambizione di potenza d’Israele che si è esercitata a Gaza contro Hamas e in Libano contro Hezbollah. La monarchia saudita sta zitta, non cambia politica. Perché ha interesse a indebolire, se possibile azzerare, la costruzione di armi atomiche in Iran. Il lavoro sporco lo fa Netanyahu. E lo fa, questo lavoro sporco, anche per Trump. Va ricordato che fu lui, nel suo primo mandato presidenziale, a porre fine a quella relazione positiva di monitoraggio che aveva aperto Obama, con le Nazioni Unite, in Iran. Uno scontro con l’Iran a Trump non nuoce affatto. Ma non lo fa direttamente, perché deve tenere separati il “guerrafondaismo” interno da quello internazionale. Oggi quello che a lui interessa di più è il fronte domestico, lasciando l’altro ai suoi amici più fidati, e tra essi c’è sicuramente Netanyahu, un trumpiano per eccellenza in Medio Oriente.