Gli Usa a ferro e fuoco
La democrazia Usa insorge contro Trump: la protesta in difesa dello stato di diritto
Quella di oggi non è una ribellione rabbiosa come a Los Angeles nel ‘92, ma una protesta in difesa dello Stato di diritto
Esteri - di Lanfranco Caminiti

Questa in America non è la rivolta di Watts – quei tremendi sei giorni del ‘65, con trenta morti, mille feriti, quattromila arresti; né è la rivolta di Los Angeles del ‘92 dopo il pestaggio di Rodney King, con i suoi sessanta morti, duemila feriti, dodicimila arresti. Questa non è una delle rivolte che punteggiano la storia recente degli Stati Uniti. così come, guardando alla nostra Europa, non è una delle rivolte di Francia, dopo l’uccisione di un ragazzo delle banlieue. Questa è una guerra scatenata dalla torsione autoritaria di Trump, a freddo.
Il ricorso all’Insurrection act non è certo una novità – lo fecero Eisenhower e Kennedy per imporre agli Stati del sud (Arkansas, Mississippi, Alabama) la desegregazione – mandarono la guardia nazionale contro i governatori e la polizia che traccheggiavano e sguazzavano nel loro razzismo, nel loro sistema di potere, per far entrare gli studenti neri nei licei e nelle università. Eisenhower e Kennedy ne fecero cioè un uso “progressivo”. Lo scandalo cioè non sta nell’uso centrale del potere contro il potere periferico e decentrato. Lo scandalo sta nel fatto che qui si compie esattamente l’inverso – qui non c’è un processo “inclusivo”, che è stato il cuore, duro e violento ma reale, dell’America come nation building, ma un processo “esclusivo”. Espulsivo. Qui la storia non si ripete come farsa, ma di nuovo come tragedia. Trump vuole fare più bianca l’America. Come un nuovo colono, come un padre pellegrino che cacciava i pellerossa dai loro territori, Trump vuole espellere i “non bianchi” – gli alieni, gli invasori – cioè, una buona parte della popolazione della California dove, per capirci, la prima lingua è lo spagnolo, anzi, lo spanglish. La “new frontier” di Kennedy («la frontiera delle speranze incompiute e dei sogni») si è trasformata in una costruzione di muri, di valichi, di ghetti. Lo scarto perciò sta qui.
Il punto è che c’è una frattura verticale e non solo orizzontale, dentro la società, ma tra istituzioni. La torsione autoritaria di Trump attacca le leggi, le normative, le regole, i giudici, i governatori, i sindaci. Il che comporta: non c’è solo “insurrezione” (e meno che mai deve esserci “insurrezionalismo”) ma un processo costituente, una democrazia sorgiva, direbbe Cavarero, in cui emergono nuove forme della democrazia, la difesa della Costituzione, la vitalità di nuova linfa delle battaglie. Che anche il governatore della California, o la sindaca di Los Angeles stiano contro Trump – questo è il succo nuovo delle cose. Qui c’è la brutalità – che è stata la chiave vincente di Trump: il potere nudo e crudo. Assoluto. Senza balances and checks. Il 6 gennaio di Capitol Hill fu “la marcia su roma”, ora Trump ha il potere. A me sembra azzeccatissimo quel meme del “no kings” con Trump raffigurato con una corona in testa – perché richiama in un certo senso quello spirito proprio americano (quello che aveva colpito Tocqueville) del tea party, della milizia civile e di cui la destra s’era appropriata.
Che siano gli immigrati a volere incarnare l’America è la qualità speciale di queste rivolte – qui non c’è Jimi Hendrix che distorce l’inno americano, non siamo alle bandiere a stelle e strisce messe sottosopra o bruciate. L’America è stata fatta grande dagli immigrati, scrivono. In una foto a San Francisco, una minuscola centroamericana tiene accanto a sé con fierezza la bandiera americana a petto degli energumeni in divisa. È vero, sventolano bandiere argentine e messicane, soprattutto. Ma loro vogliono stare lì, nella città sulla collina, nella terra del latte e del miele. Trump sta brutalizzando l’America, il mondo (vedi Gaza, vedi Ucraina) gli interessa fino a un certo punto. E comunque per governare davvero il mondo deve mettere sotto il tallone di ferro la California, l’America. strafottendosene di leggi, di governatori, di giudici, di sindaci.
L’état c’est moi. È contro questo assolutismo (il tratto comune che ritroviamo in tutti i poteri oggi, dall’autoritarismo al fondamentalismo, a tutte le latitudini) il senso della rivolta – e che passi per l’immigrazione e che passi per l’America – il paese “simbolo” dell’emigrazione – è obbligatorio. Ma questa non è perciò una insurrezione, è una rivolta in nome della dichiarazione del 1776: ogni uomo nasce uguale, hanno tutti eguali diritti, tra i quali il perseguimento della felicità. Non è cioè la rabbia distruttiva dopo Rodney King. Qui c’è una democrazia insorgente, o che resiste alla brutalità dell’assolutismo trumpiano. In questo senso, è guerra civile – perché lì ci sono americani contro americani, una guerra fratricida. e come ogni guerra fratricida il nemico è a fianco, il nemico siamo anche noi. Ma questa, paradossalmente, è una insurrezione “costituzionale”. una insurrezione della democrazia, per la democrazia.