The Donald non è folclore
Abbandona il liberismo e salva il capitalismo: il socialismo reazionario di Trump e Vance, è la nuova destra mondiale
Trump-ideologia. Fa appello alle masse senza interrompere il potere delle élites. I soldi diventano strumento e fine del comando sociale. Tutto questo è possibile perché manca un progetto di sinistra radicale
Editoriali - di Michele Prospero
La nuova destra è sempre più un fenomeno mondiale adoperante ovunque la stessa lingua. Ha assai stupito gli osservatori la coppia Trump-Vance, che non si dichiara più liberista, scaglia anatemi contro le élites, maledice la finanza, denigra il capitale globalizzato e accarezza la classe operaia abbandonata. Nel rimarcarne il connotato ideologico inedito, sul “Sole 24 Ore” Sebastiano Maffettone isola nel lessico dei Repubblicani in corsa per lo Studio Ovale taluni accenti caratteristici di un “socialismo umanitario del secolo scorso”. Forse, però, la definizione che meglio si sposa con la elegia di chi versa lacrime sull’America industriale che non c’è più è quella di Marx che parlava di un “socialismo reazionario”. Diventate inutilizzabili le usurate immagini liberiste, un segmento del capitale ruba simboli e parole alla sinistra per incriminare la componente rivale, anch’essa in possesso di infinite sostanze, e proclamarsi addirittura alfiere della classe media, disprezzata dalle destre quando gli operai disponevano di un’autonoma soggettività politica.
Nella censura solamente postuma del liberismo, con la descrizione impietosa delle distruttive conseguenze della deindustrializzazione selvaggia di cui proprio il liberismo attraverso la deregulation è la causa, il conservatorismo statunitense perfeziona quella che Marx chiamava una retorica “metà lamentazione, metà pasquinata, metà riecheggiamento del passato, metà minaccia del futuro”. Lo strumentale tocco di socialismo serve ai campioni della destra a stelle e strisce per affondare il colpo sulla dinamica del presente, percosso “con un giudizio amaro e sarcastico, ma sempre con effetto comico a partire dalla sua totale incapacità di comprendere il corso della storia moderna”. In assenza di una reale organizzazione operaia che prepara l’assalto al cielo, i conservatori progettano la conquista di ceti popolari passivizzati ricorrendo al repertorio del sentimentalismo demagogico, che fa breccia nei territori dove i partiti hanno smobilitato. “Questi signori – incalzava Marx – agitavano come una bandiera la proletaria bisaccia da mendicante, per raccogliere il popolo dietro di loro. Ma tutte le volte che esso li ha seguiti, ha scorto sul loro didietro i vecchi blasoni feudali e si è disperso scoppiando in una scrosciante e irriverente risata”.
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In effetti, dopo aver sedotto i lavoratori con la promessa di protezione dalle delocalizzazioni e di incrementi salariali, la presidenza Trump ha disvelato il suo volto autentico prescrivendo una dose massiccia di liberismo pro-impresa (flat tax per i facoltosi, piano per rimodulare la legislazione fiscale, annientamento del tentativo obamiano di una copertura pubblica della salute). Se si vuole capire la “New Right” che indossa la tuta blu, è utile inquadrarla con gli arnesi della storia delle idee. Lo ha fatto con efficacia Corey Robin (The Reactionary Mind. Conservatism from Edmund Burke To Donald Trump, Oxford University Press, 2017), che mostra come i tratti più freschi del conservatorismo contemporaneo in realtà siano pezzi alquanto stantii. Egli scrive che i temi anti-sistema, le venature di razzismo e populismo, l’aggressività e lo spregio per il diritto, per le istituzioni e per le classi dirigenti, la battaglia contro i demoni della correttezza politica “non sono recenti o sviluppi eccentrici della destra americana. Sono invece gli elementi costitutivi del conservatorismo, le cui origini risalgono alla reazione europea contro la Rivoluzione francese”.
Il leader della odierna destra populista, che si atteggia a idolo dell’impoliticità, avanza incurante dei vincoli di coerenza e, in nome del disordine e del caos, ripudia costantemente il rigore dell’argomentazione, è il lontano epigono del conservatorismo ottocentesco, il quale rigettava le catene della ragione, percependo come costrizione ogni pensiero logico applicato alle cose politiche.
Tra l’attuale odio verso la politica ridotta a schema lineare, che spinge Trump a esclamare “vale la pena essere un po’ selvaggi”, e le riflessioni di Edmund Burke, che esaltava “la generosa selvatichezza del donchisciottismo”, sussiste una – pur leggera – continuità di suggestioni. Qualsiasi conservatorismo di ieri e di oggi intende demolire l’idea stessa che la società sia riconducibile a un ordine coerente, a un disegno armonico. La politica come agire completamente insensato ben si addice a dei capi irregolari che per emergere professano la loro estraneità e ostilità al Palazzo. “Alla maniera di George W. Bush, il cui fare da cowboy ha ispirato il titolo sgargiante ‘Ribelle in capo’, Trump interpreta il ruolo del felice bucaniere, sempre impolitico, che beffeggia l’elegante cultore di principi, dell’aritmetica politica e della geometria morale” (Robin). In questo bagaglio vetusto che contrappone l’impulso vitale alla noia della politica, spiega Robin, l’obiettivo è “fare appello alle masse senza interrompere il potere delle élites o, più precisamente, sfruttare l’energia delle masse per rafforzare o ripristinare il potere delle élites”.
Nella élite che trionfa con la maschera dell’anti-establishment, e si avvale del sostegno del popolo per congelare le antiche posizioni egemoniche, è racchiuso il segreto eterno del conservatorismo. La novità della filosofia economica di Trump è che, allo scopo di trascendere i limiti di un capitalismo privo di anima, non esibisce i muscoli della grande politica (corsa al riarmo, guerra, grandeur nazionale, leadership imperiale), ma coltiva – salvo poi imporre dazi per arginare i concorrenti stranieri – il mito della competizione di mercato come galvanizzante contesa la quale richiede “atti di eroismo da parte di una classe economica che considera se stessa e la propria attività il fondamento naturale del dominio”. Nella disputa tra il combattente e l’uomo d’affari, Trump sta col fuoco sacro del denaro, da lui venerato come la solida giustificazione del prestigio accordato all’individuo sfiorato dalla gloria. L’arena contrattuale che tributa onori al sorridente magnate è la sola attestazione di verità che importa. Non a caso il rimprovero che il sedicente “figlio della classe operaia” Vance rivolge a Kamala Harris è di non aver mai aperto un’azienda.
Oltre a non disdegnare il soccorso dello Stato qualora i conti non tornino, Trump, che pure posa a conservatore con velleità antimercatiste, “vede nelle questioni politiche nient’altro che transazioni commerciali. I soldi sono lo strumento e il fine del comando statale. Chiunque aspiri ad esercitare il potere pubblico dovrebbe essere un esperto di quattrini: il successo o il fallimento nel mondo degli scambi è la migliore prova del coraggio politico. Anche nel momento in cui Trump cerca di usare il gergo dell’hard power – violenza, coercizione, autorità – non può evitare di ricadere negli idiomi del mercato che conosce così bene” (Robin). Lo stile populista, che piange per lo spaesamento operaio nelle rudi aree interne, rientra nell’armamentario di autodifesa degli ambienti del privilegio entro collettività stabilizzate dalla disfatta dell’alternativa socialista. Quando Trump gioca la carta del tycoon che sculaccia il settore finanziario, del ricco sfondato che punzecchia le plutocrazie, lo fa perché consapevole che non esiste alcuna sinistra che contesta l’assetto sociale.
In uno scenario monco di soggetti radicali credibili, la destra può proporsi quale forza popolare e schierata dalla parte del lavoro. Nell’epoca in cui il conflitto capitalismo-socialismo era ancora dall’esito incerto, come nella seconda metà del XX secolo, per le classi dominanti sarebbe stato del tutto impensabile affidarsi a capitani squilibrati, bugiardi, sleali, improvvisatori. La nuova destra è la espressione della euforia di un universo borghese che ha riassorbito la frattura capitale-lavoro e può consegnare lo scettro allo sregolato e volubile Trump (celebre è la sua frase “potrei stare in mezzo alla 5th Avenue e sparare a qualcuno senza perdere un voto”). Il novello credo conservatore è il prodotto di una overdose da vittoria che induce la borghesia a ritenere, ingannandosi, di potersi permettere, in mancanza di un nemico, persino di lasciare dissolvere il costituzionalismo e i suoi poteri bilanciati nella condotta di un capo cui è concesso in perpetuo di essere irresponsabile.
La conclusione di Corey Robin, circa la prevedibile parabola declinante nei consensi del presidente con ambizioni insurrezionali, peccava di ottimismo affermando che “la follia di Trump rischia di rendere lui e il suo movimento marginali. Senza una sinistra genuinamente emancipatrice a cui opporsi, la rabbia di Trump sembra essere niente più di quello che è: il delirio di un anziano”. Il vittimismo (“è la più grande caccia alle streghe contro un politico della storia americana!”), la denuncia di brogli, il rifiuto della sconfitta, l’amplificazione della simbologia razzista e religiosa, l’annuncio reiterato di una guerra civile, l’accusa alla sfidante Harris di portare al comunismo, rivelano che la scommessa sull’avvenuta pacificazione delle società occidentali è per lo meno affrettata