Il presidente dell'Associazione
Parla Gonnella di Antigone: “Carceri senza respiro e speranza, ecco il modello Meloni”
“Le rivolte? Avvengono in un quadro disperato e disperante. Il governo ha deciso di legittimare un carcere dove la pena è mera punizione"
Interviste - di Angela Stella

Professor Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone, negli ultimi giorni ci sono state tre rivolte nelle carceri. La situazione sembra sempre più peggiorare.
II quadro entro cui queste proteste avvengono è un quadro disperato e disperante, drammatico, che noi abbiamo raccontato nel recente rapporto, intitolato non a caso Senza respiro. È un quadro fatto di condizioni igienico-sanitarie complicatissime, con un sovraffollamento che aumenta nei momenti di grande caldo rendendo la situazione ancora più opprimente. E poi abbiamo la chiusura delle celle e delle sezioni, che è chiusura della vita. Assistiamo a un’ingiustificata e insensata restrizione di occasioni e progetti che arrivano dal mondo esterno, dal volontariato, dall’associazionismo, dalle scuole. Noi raccogliamo il disagio di tanti mondi che erano abituati a essere protagonisti nella vita penitenziaria, offrendo opportunità di intrattenimento culturale, sportivo, ludico, scolastico o universitario. Oggi è tutto difficile, quasi impossibile, ti viene risposto ‘no’ anche alla richiesta per fare una partita di calcio.
E ciò cosa comporta?
Si respira in molti istituti tensione nel personale, fra gli operatori, e tra i detenuti. Abbiamo 16 mila reclusi in più rispetto alla capienza effettiva e manca qualsiasi prospettiva di farsi carico di quello che sta accadendo: come si può pensare che la situazione resti tranquilla?
Le responsabilità di chi sono?
Penso che manchi completamente una visione di quella che deve essere la pena del carcere: si è persa completamente negli ultimi tempi ogni progettualità. Le responsabilità sono politiche, non del singolo dirigente o operatore. Questo è il modello di carcere che questo governo ha deciso di legittimare, un carcere chiuso e senza speranza, un carcere dove la pena è mera punizione, diversamente dal dettato costituzionale. Nonostante questo scivolamento costituzionale purtroppo non avvertiamo scricchiolii nella maggioranza.
Nordio ieri ad un evento del Cnel ha dichiarato che molti suicidi tra detenuti avvengono perché preoccupati della vita che li aspetta dopo. Quindi molti avvengono tra quelli che stanno per uscire. Condivide?
Purtroppo è sempre avvenuto. Comunque Nordio non è un sociologo, è un ministro. Non gli chiediamo di interpretare passivamente, gli chiediamo di amministrare umanamente. E allora se lui pensa che sia così, di conseguenza si attivi per organizzare corsi di preparazione e rilascio, attivi rapporti con i territori, con i Comuni, faccia un’immediata conferenza dei servizi con le Regioni per aprire nelle grandi case circondariali degli sportelli di orientamento che aiutino le persone per l’anagrafe, il lavoro, la previdenza, la casa. Abbiamo bisogno di fatti, di welfare, di risorse per i servizi sociali, di aumentare le telefonate per i detenuti; non abbiamo bisogno di interpretazioni.
In queste settimane si parla molto dell’apertura del presidente La Russa alla proposta di Roberto Giachetti. Pensa che rimarrà una voce isolata?
Auspico che le parole si traducano in fatti veri e concreti, perché altrimenti si creano delle fratture ancora più pericolose di quelle già presenti, si creano delle aspettative che rischiano di andare deluse. E questo è ancora più frustrante. Quello che servirebbe è un provvedimento che preveda un indulto per chi ha ancora due anni da scontare. Se non si vuole percorrere questa strada allora si discuta su una riorganizzazione in termini estensivi delle misure alternative, che sia la proposta Giachetti sulla liberazione anticipata o altro: va bene tutto. Purché ovviamente non siano parole. Chi ha responsabilità istituzionali è importante che sappia – e questo sono certo che il presidente del Senato ne è consapevole- che ogni sua parola poi può avere una ricaduta nel reale. Lo abbiamo già visto in passato, non è la prima volta. Noi quando andiamo in carcere, anche di recente, la prima cosa che ci chiedono è: “ma è vero, ma c’è speranza?”.
Dato questo quadro, c’è il rischio di un aumento delle rivolte in carcere?
Spero di no, anche perché adesso dopo ogni protesta seguono anni di carcere, a causa del delitto di rivolta penitenziaria presente nel dl sicurezza. Questo è quello che hanno voluto alcune organizzazioni sindacali di polizia penitenziaria. Ovviamente questo significa che noi stiamo seppellendo in carcere chi protesta.
Ma secondo lei però c’è il rischio?
Certamente esiste questo rischio. In qualunque contesto sociale, più crei tensione più si risponde ad essa con le proteste. Io, per mia cultura e per mia storia, sono del tutto alieno ad una qualunque legittimazione di qualunque forma di violenza sulle cose e sulle persone. Detto questo, la situazione è drammatica. E le proteste arrivano dai ceti più marginali, dai più vulnerabili, da persone che hanno condizioni psicofi siche deteriorate. Quindi non si vada a cercare una regia, perché è già accaduto con le rivolte del 2020. E poi si verificò che questa regia non c’era.
Un’ultima domanda: si è dimesso l’avvocato Mimmo Passione che assisteva il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Secondo Lei l’organo sta facendo quello che dovrebbe?
In primo luogo conosco le qualità, le professionalità e l’etica dell’avvocato Passione. Noi siamo stati quelli che nel 1998 presentarono la prima proposta per dar vita alla figura di quello che chiamavamo Difensore civico penitenziario. Sin dal primo momento auspicavamo che fosse una figura indipendente. Una figura che visiti, ispezioni, stia nei processi per tortura. Una figura che sia il controcanto del potere. Così oggi non è. Sin dall’inizio avevamo espresso i nostri dubbi su una nomina che non aveva i caratteri curriculari di indipendenza rispetto all’amministrazione che dovranno controllare, provenendo dal Dap. Se si sceglie una figura all’interno della stessa amministrazione penitenziaria arriviamo ad una confusione di ruolo tra controllore e controllato.
A discapito, quindi della vigilanza sulla tutela dei diritti.
L’assenza di terzietà fa sì che ovviamente poi si rischi che l’impatto sia ben diverso. Questo è il problema del Garante nazionale. Però ci preoccupa la tendenza di alcuni Comuni e di alcune Regioni ad individuare i garanti in base all’appartenenza politica e non alla competenza, alla imparzialità, alla autorevolezza in materia di diritti umani, all’esperienza nel monitoraggio. La logica spartitoria nel campo dei diritti umani è veramente disdicevole. Inoltre non è mai opportuno che si traslochi dalla amministrazione penitenziaria ad organismi di controllo esterni. È accaduto in alcune regioni. All’interno del Dap ci sono straordinarie professionalità, ma le funzioni dei Garanti richiedono competenze evidentemente diverse