Il viaggio nell'altra America

Al Chicago Festival protesta contro Trump sulle note blues

Dal cuore della capitale mondiale della musica nera, il racconto di un’America che resiste: gospel, chitarre, corpi liberi e vecchi hippie.

Spettacoli - di Filippo La Porta

18 Giugno 2025 alle 16:00

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Photo by Rob Grabowski/Invision/AP – Associated Press/LaPresse
Photo by Rob Grabowski/Invision/AP – Associated Press/LaPresse

Qual è la migliore chiave di lettura per capire l’America, il paese che la mia generazione ha amato e odiato più di ogni altro? La frase che ne La Luna e i falò dice Anguilla, il protagonista, tornato nelle sue Langhe da oltreoceano: “C’è di bello che sono tutti bastardi”. Una nazione di immigrati, di bastardi senza patria, che ha trovato una nuova patria, basata non su sangue e suolo ma sul consenso a valori comuni. Questo è il migliore antidoto, gelosamente depositato nelle sue radici, contro ogni tentazione autoritaria e angustamente identitaria del Grande Paese. E che genera oggi una solidarietà – per noi inconsueta – di parte della società civile con le rivolte dei migranti.

Ma ora voglio raccontarvi il Festival Blues di Chicago, svoltosi dal 5 all’8 giugno, il più grande e prestigioso del mondo, nel centralissimo Millennium park, davanti al lago Michigan (ricordo come il blues, nato nel delta del Mississippi, negli anni 40 si trasferì a Chicago, dove emigrarono molti musicisti neri, e dove si elettrificò: sua figura carismatica è Muddy Waters, con cui suonarono perfino i Rolling Stones). Bisogna andarci per tornare ad amare l’America! Quattro giorni di pace, amore e musica, con l’aggiunta di un po’ di rabbia e rassegnata malinconia. Se volete, una Woodstock appena senile. D’accordo, un terzo dei partecipanti era under 40, ma non ho mai visto una tale (gioiosa) concentrazione di ex: ex fricchettoni, ex sessantottini, ex militanti New Left, ex Pantere Nere

Il festival si svolge dentro un parco in mezzo ai vertiginosi e luminescenti grattacieli di Chicago, e prevede quattro postazioni: la terrazza coperta dell’Hotel Harris (ultime tendenze del blues), il palco piccolo della sezione sul Mississippi, il capannone di Rosa’s lounge e finalmente il Jay Pritzker Pavilion, un immenso anfiteatro, un auditorium a forma di conchiglia ideato da Frank Gehry ((lamiere ondulate, ragnatela di tubi sospesi in aria), che contiene 4.000 posti a sedere e altri 7.000 in piedi. Il festival, interamente gratuito, è abbastanza affollato ma non troppo: la folla si diluisce ogni giorno in un ampio spazio di tempo che va dalle 14 alle 21,30. Onestamente: pensavo di raggiungere una saturazione di blues, ma in realtà la magia di questa musica è che, pur reiterando all’infinito la sequenza delle 12 battute (con dissonanze interne etc., si origina dalla pentatonica minore africana), si tratta di un paradigma capace ogni volta di arricchirsi e svilupparsi in più direzioni, esprimendo una gamma quasi infinita di tonalità emotive: non è solo “triste” (la parola inglese “blue”), ma vibrante, gioioso, spavaldo, verbosamente lamentoso, energico, sfrontato, sensuale. Viene in mente la definizione di Victor Hugo della “malinconia”: “gioia di essere tristi” (che vale anche per tre quarti della poesia di ogni epoca).

L’offerta di gruppi, cantanti, jam session etc. è inesauribile. Confesso una predilezione personale per la sezione Mississippi (con formazioni “da camera”, base ritmica chitarra e armonica, senza la sezione fiati: straordinario John Primer), ma quando sul palco centrale è salito con la sua chitarra Christone “Kingfish” Ingram (dal Mississippi), di smisurata mole, vestito in un pigiama bianco da bambino con pantaloncini corti, il pubblico era rapito. I suoi assoli sono in debito con B.B.King (cui è stato offerto un tributo) e Jimi Hendrix, e davvero si potrebbe dire che vengono direttamente dall’anima: l’espressione del volto, a occhi chiusi, era al tempo stesso dolente, stremata e felice. Ha chiuso Mavis Staples, una “veterana” di cui potete ascoltare in rete una versione di Happy day in duetto con Aretha Franklin: voce roca e grande presenza scenica Ma la sua esibizione, inappuntabile, aveva qualcosa di accademico. Più emozionante un concerto sul palco piccolo dedicato alle “Women in blues”, con tributo a Denise La Sally. Nell’ “ora più buia” dell’America del nuovo millennio, venire al festival e poi partecipare alle manifestazioni del “No Kings day” mi sembrava un gesto militante e una dichiarazione di antifascismo.

Ora, nel pubblico del festival – visceralmente partecipe (noto solo che quando accompagnano la musica battendo le mani non accentuano il battere come in Italia!) – non c’erano solo radical e reduci dei 60. Suppongo che vi si trovassero anche molti elettori convinti di Trump. Il blues è trasversale e non sopporta etichette politiche. Azzardo però che questi elettori, mentre ascoltavano estasiati il blues, in un certo senso “tradivano” se stessi e si proiettavano in una comunità inclusiva e utopica, più ampia delle loro fedi ideologiche. Va bene, Trump aprì alcuni comizi cantando rhythm and blues, però tra lui e il blues vi è evidente incompatibilità. Lui intende elevare muri, schernisce e insulta, vuole annettersi intere regioni con la forza, chiama i marines per sedare le manifestazioni, rivendica aggressivamente il primato degli americani. Il blues è universalistico, “accogliente” e polifonico, può essere sognante o incazzato, ma l’ultima parola non è mai l’odio.

Certo, l’altra America – da noi spesso idealizzata (i beat, la rivolta di Berkeley, Bob Kennedy e Malcolm X, Dylan e Blues Brothers) – è intrecciata con l’America ufficiale più di quanto pensiamo: come ci mostrò Warhol bevono tutti Coca-Cola, mangiano da McDonald’s, amano le Harley-Davidson, oltre a basket e baseball, rispettano le regole civiche, condividono valori e consumi, e il mito vitalistico dell’energia. Ma c’è una differenza importante: l’altra America – che i colletti blu trumpiani identificano con lo scintillante star system – non è quasi mai autoindulgente, convive con i suoi sensi di colpa, non si assolve e perciò si impegna, si prende cura dell’ambiente, dei poveri, della comunità. O almeno così mi piace pensarla.

L’America contiene moltitudini, come sapeva Walt Whitman (ridivenuto popolare anche grazie ad una importante citazione nella serie Breaking bad), non può separare né discriminare. Proprio come il “fagiolo” gigante di Anish Kapoor, una grande scultura ellittica di acciaio inossidabile al centro del Millennium park, ispirata al mercurio liquido: alto 10 metri, rispecchia tutta la gente intorno, il paesaggio urbano, il cielo e le nuvole.

18 Giugno 2025

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