Il leader dell’area liberal Pd

Intervista a Enrico Morando: “Referendum? Una sciagura, ora salari e unità sindacale”

Il leader dell’area liberal del Pd dice che «è stato un errore andare alle urne sapendo che non ci sarebbe stato il quorum e che i quesiti non erano importanti. Il problema della Meloni? Aumentare la produttività»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

14 Giugno 2025 alle 10:00

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Photo credits: Sara Minelli/Imagoeconomica
Photo credits: Sara Minelli/Imagoeconomica

Enrico Morando, leader dell’area liberal del Partito Democratico e presidente dell’Associazione Libertàeguale, già viceministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni: Lei è d’accordo con quanto ha sostenuto l’europarlamentare PD e vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno, per la quale quella referendaria è stata “Una sconfitta profonda, seria, evitabile. Purtroppo, un regalo enorme a Giorgia Meloni e alle destre…”?
Che si tratti di una dura sconfitta è certo. Parlo ora del PD, perché per il principale promotore -la Cgil di Landini- il discorso è, almeno in parte, diverso. La domanda da cui partire è di ordine generale: quando e su cosa un grande partito a vocazione maggioritaria, che aspiri ad essere l’asse dell’alternativa di governo al destra-centro, può ricorrere con fiducia all’arma estrema del referendum abrogativo previsto dalla nostra Costituzione?

Bella domanda. E la sua di risposta?
La risposta consta di due elementi: a- quando la questione affrontata nel quesito sia di primario interesse per larghissima parte dei cittadini e non possa trovare ragionevole soluzione in Parlamento (ripeto: larghissima parte dei cittadini , non dei dirigenti e degli iscritti a quel partito); e b- quando ci sia una ragionevole probabilità di raggiungere il quorum e di far prevalere i Sì. È del tutto evidente che, nel caso dei referendum in questione, mancavano sia il primo requisito, sia il secondo: il referendum “principe “, quello sul Jobs Act, affrontava un tema che non è quello prioritario per i lavoratori italiani: i licenziamenti in Italia si sono ridotti, nel 2024, al minimo storico degli ultimi 20 anni (42 licenziamenti ogni 1000 lavoratori con contratto a tempo indeterminato); il contenzioso giudiziario è crollato. Anche i contratti “precari“ si sono, in percentuale, ridotti e molte sono state le trasformazioni in contratti a tempo indeterminato.

Quindi tutto bene?
Assolutamente no. Ma al centro dell’attenzione della larga maggioranza dei cittadini-lavoratori è il tema dei salari troppo bassi (conseguenza della stagnazione della produttività totale e dei fattori capitale e lavoro; e di un nemico nascosto e micidiale come il fiscal drag, all’opera dal ‘21 al ‘23. Poiché non posso immaginare che la Segretaria del PD ignori questo dato fondamentale, debbo dedurre che abbia scelto di concentrare la sua iniziativa su di un tema non prioritario, ritenendo che la propaganda avrebbe avuto ragione della realtà. Di solito non succede. Infatti, non è successo. Quanto alle ragionevoli probabilità di successo, basterà ricordare che la stessa Schlein, per chiarire le ragioni di fondo della promozione del referendum, non ha esitato a mettere in chiaro che a muoverla sia stata l’intenzione di dare evidenza ad una “autocritica“ rispetto alle scelte del PD al governo. Debbo dedurre che i promotori pensassero alla possibilità che la maggioranza dei cittadini elettori fosse coinvolgibile attivamente in questo lavorio interno al PD. Un’aspettativa palesemente non ragionevole.

Quindi?
La sconfitta è davvero pesante, perché nasce nell’atto originario: il PD, questi referendum, non doveva promuoverli. A questi limiti di partenza si è aggiunta la complessità dei quesiti, che ha indotto a semplificazioni arbitrarie e contrastanti con la realtà economica e sociale (“vota SÌ per ridurre la precarietà”: la precarietà è certamente un male da ridurre, ma i dati dimostrano inoppugnabilmente che in vigenza del Jobs Act (2015) il tasso di contratti “precari“ rispetto al numero dei rapporti di lavoro si è ridotto). Post hoc o propter hoc? Io propendo per il propter, ma a far traballare il messaggio basta e avanza il post.

Non mi ha risposto sul “favore” a Meloni…
Mi scuso. Il cantare vittoria di Meloni è del tutto stonato: io ricordo bene la durissima opposizione di Meloni in sede di approvazione del Jobs Act, con tanto di ostruzionismo e con la scelta di far mancare… il quorum (il numero legale) al momento del voto finale, con l’abbandono dell’Aula, sia alla Camera, sia al Senato. Certo, questi squilli di tromba apparirebbero per quello che sono, addirittura grotteschi, se si fosse evitato di trasformare il referendum in un mega sondaggio sul consenso del governo…

Si riferisce alla teoria: se i SÌ sono più numerosi dei voti del destra-centro alle Politiche, è un avviso di sfratto?
Mi riferisco ad ogni tentativo di trasformare i voti di qualsiasi referendum nei voti di un partito o di una coalizione di partiti. La storia di questi tentativi è lunga come la storia repubblicana. Nel 1946, al referendum per la scelta tra Repubblica e Monarchia, i voti per quest’ultima furono ben 10.700.000. Di qui l’illusione dei due partiti che avevano sostenuto la Monarchia -il partito monarchico e il partito liberale – che larga parte di quei voti fossero traducibili in consenso per loro alle Politiche del ‘48. Gli elettori erano gli stessi, ma i voti per il partito monarchico e quello liberale furono ben distanti dai 2 milioni. Tentativi analoghi, con relative amare delusioni, ci sono poi ripetuti negli anni, fino al 2016, quando si pensò che il 40% ottenuto dalla riforma costituzionale Renzi fosse in larga misura traducibile in consenso per il PD. Sappiamo, purtroppo, com’è andata a finire. Naturalmente, questo non significa che l’esito del voto referendario non influenzi l’evoluzione successiva della situazione politica, i mutamenti di opinione pubblica e, di conseguenza, il livello del consenso dei partiti. Il referendum sulla scala mobile-tenuto dopo la scomparsa di Berlinguer, che aveva fortemente voluto che fosse il PCI a promuoverlo – segnò un mutamento di fase e una sconfitta del PCI che andò molto oltre il merito del quesito (i punti di scala mobile). Ma la pretesa di trasformare automaticamente i voti al referendum in voti ai partiti è priva di fondamento. E quando prevale (la cosiddetta “politicizzazione”), fa male a chi la promuove e, purtroppo, anche all’istituto del referendum.

L’attacco a Elly Schlein è iniziato. La segretaria del PD – si sostiene – è stata subalterna a Landini, ed ecco i risultati.
È stata la Segretaria Schlein a voler schierare il PD tra i promotori del referendum sul Jobs Act…È quindi normale che oggi si chieda che sulle ragioni della sconfitta si sviluppi un’analisi seria e un confronto sulle vie da percorrere per uscire da una difficoltà che ci siamo autoinflitti. Non mi sembra che questo sia un “attacco“. È una posizione di buon senso, volta a promuovere l’interesse del partito nel suo complesso.

E sul rapporto con la Cgil e con Landini che mi dice?
Io non la metterei sul terreno della subalternità o meno. Mi sembra che si ponga un problema di ben altro rilievo, che provo a spiegare in poche parole: questo è un momento di elevata conflittualità fra le tre grandi organizzazioni sindacali. La forza contrattuale dei lavoratori italiani ne risulta indebolita, proprio nel momento in cui la centralità della questione salariale e l’urgenza di dar vita a nuove forme di democrazia economica imporrebbero un salto in avanti nel processo unitario. Mi sembra di rilevare che i rapporti tra i sindacati di categoria stiano migliorando (c’è stata una buona stagione di rinnovi contrattuali, anche se non sufficiente per recuperare lo scempio del fiscal drag), ma quelli tra le confederazioni continuano a peggiorare. In questa situazione, cosa dovrebbe fare un partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria? A me viene naturale rispondere: consapevole delle difficoltà che al suo progetto politico arreca la divisione crescente tra le grandi confederazioni, il PD dovrebbe “testardamente” riproporre l’esigenza dell’unità sindacale. Non è una questione secondaria: se è vero, come ha scritto Daniel Chandler nel suo “Liberi e uguali “, che lo sviluppo e la generalizzazione della democrazia economica costituisce un architrave del disegno di trasformazione in senso egualitario della nostra società, allora il rilancio del ruolo e della capacità di contrattazione del sindacato è una componente fondamentale della strategia politica del partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria. Lungi dal contribuire a dividere, è necessario lavorare nel merito dei problemi aperti (la legge sulla rappresentanza; il sostegno fiscale alla contrattazione di secondo livello), ricercando il consenso e la partecipazione di Cgil, Cisl e Uil. Promuovere referendum che piacciono agli uni e sono avversati dagli altri è stato un errore che va rapidamente riconosciuto come tale, per intraprendere una strada nuova (o forse tornare sulla vecchia: l’unità sindacale è stato uno dei frutti migliori della grande stagione di lotte operaie iniziate a metà degli anni Sessanta del 900).

Il segretario generale della Cgil ammette che l’obiettivo non è stato raggiunto, aggiungendo che la marea del non voto testimonia una “crisi democratica evidente”.
I padri costituenti hanno previsto che per abrogare una legge approvata dal Parlamento fosse necessaria la partecipazione al relativo referendum almeno della metà più uno dei cittadini elettori. È una regola di garanzia. La crisi democratica c’è, ma non la si vede nell’astensione ai referendum abrogativi, bensì nel crescente astensionismo alle elezioni locali, regionali, nazionali ed europee.

La destra esulta: sconfitto il tentativo di far cadere il governo.
Approfitto di questa domanda – cui in parte ho già risposto -, per porre una questione sull’efficacia della nostra opposizione. Il Governo Meloni ha, non da oggi, due enormi problemi: 1-sta letteralmente ignorando il principale problema economico del Paese: la produttività che non cresce (di cui la stagnazione dei salari è l’aspetto socialmente più rilevante); e, 2- non è in grado di assicurare il protagonismo del Paese nella costruzione di una nuova Unione Europea, in grado di influenzare il processo di costruzione di un nuovo ordine globale. Sembrerebbe ragionevole concentrare su questi due temi gran parte della capacità di iniziativa dell’opposizione: essi, infatti, sono i temi su cui è massima l’attenzione del Paese ed è evidente la difficoltà del Governo. Per farlo, è necessario avere una posizione forte e chiara: sul tema produttività e salari, una piattaforma che comprenda la riproposizione, aggiornata, di Industria 4.0 (o c’è da fare autocritica anche su questo?), la fiscalità di vantaggio per il lavoro delle donne e per la contrattazione di secondo livello, una regola di neutralizzazione del fiscal drag, la legge sulla rappresentanza e quella sul salario minimo, un sistema di regole e incentivi per lo sviluppo della democrazia economica. Sul tema della costruzione della nuova Unione: coi “volenterosi “per la costruzione del pilastro europeo della Nato, utilizzando la flessibilità di bilancio già consentita, ma soprattutto ratificando il MES, per essere credibili nel proporre il modello Next Generation EU per affrontare il tema dell’autonomia strategica e della realizzazione dei Rapporti Draghi e Letta.

14 Giugno 2025

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