Il voto dell'8 e 9 giugno
Referendum: così i lavoratori col Jobs Act hanno perduto potere, salari e diritti
Un buon successo dei sì ai quattro referendum sul lavoro sicuramente metterebbe un freno a questa tendenza che rischia di essere socialmente catastrofica.
Politica - di Piero Sansonetti

Purtroppo fino ad oggi i referendum sono rimasti fuori dal dibattito pubblico. Il governo non è minimamente interessato ai temi del lavoro. E ha imposto il silenzio. A dir la verità, in questi primi quasi tre anni, il governo si è dimostrato appassionato solo a tre argomenti: una stretta giustizialista e repressiva con decine di leggi e di decreti per aumentare le pene e per aumentare i reati; una stretta contro i migranti e le organizzazioni che li soccorrono; una stretta militarista che punta ad aumentare le spese militari a scapito del welfare.
È in questo quadro che i partiti di maggioranza, sostenuti dall’intero schieramento dei mass media, hanno boicottato i referendum. Innanzitutto con il silenzio e poi con la campagna astensionista guidata dalle massime autorità dello Stato, escluso solo il presidente della Repubblica.
Le domande fondamentali che i referendum pongono agli elettori sono due. La prima riguarda i rapporti di lavoro. Il referendum chiede la modifica del Jobs Act e il ritorno alla piena applicazione dello Statuto dei lavoratori, che fu una grande conquista del Psi e dei riformisti negli ultimi anni Sessanta. Lo smantellamento dello Statuto, e soprattutto dell’articolo 18 che era quello che difendeva la sicurezza del posto di lavoro, ha prodotto in questi dieci anni un fortissimo ridimensionamento del potere contrattuale dei dipendenti nei confronti dell’impresa. E questo ha comportato tre cose: riduzione dei salari (unico paese in Europa), riduzione drastica dei diritti, peggioramento delle condizioni di lavoro. Naturalmente ha avuto anche un effetto positivo: l’aumento dei profitti e, di rimbalzo, anche l’aumento delle rendite. E quindi un doppio aumento degli squilibri tra parte più ricca e potente della popolazione e parte più debole. Un buon successo dei sì ai quattro referendum sul lavoro sicuramente metterebbe un freno a questa tendenza che rischia di essere socialmente catastrofica.
Il referendum sulla cittadinanza invece si limita ad affermare un vecchio principio che fu alla base della rivoluzione americana, alla fine del 700, e della nascita degli Stati Uniti d’America. Un principio assolutamente liberale, anzi, un pilastro del pensiero liberale: “No taxation without representation”. Cioè: se pago le tasse ho diritto ad essere rappresentato e ad essere cittadino. Oggi la legge prevede che prima devi pagare per almeno 10 anni, poi puoi chiedere la cittadinanza, e non è detto che ti sia concessa. Il referendum dimezza l’attesa. Come vedete è una richiesta molto moderata. Come si fa a dire di no? È complicato. Per questo l’establishment ha preferito far calare il silenzio e proporre una “azzeccagarbugliesca” astensione.