Lotta al maccartismo

Proteste negli Usa, saranno i latinos a salvare la democrazia?

Sono scesi in piazza non solo a Los Angeles per fermare il disegno di Trump di seppellire il vecchio conservatorismo democratico e liberale e di costruire il nuovo capitalismo autoritario e militarizzato

Esteri - di Piero Sansonetti

12 Giugno 2025 alle 18:30

Condividi l'articolo

AP Photo Jae C. Hong – Associated Press / LaPresse
AP Photo Jae C. Hong – Associated Press / LaPresse

La rivolta si è estesa. A quasi tutte le grandi città americane. New York, Chicago, Atlanta, Filadelfia, Dallas: i migranti sono in piazza per difendere i propri interessi vitali. Ma con loro ci sono pezzi di popolo che semplicemente temono la svolta reazionaria di Trump. La sindaca di Los Angeles ha proclamato il coprifuoco notturno nel centro della città. E ha chiesto a Trump di ritirare le truppe dei marines e della Guardia Nazionale. Il governatore Gavin Newsom ha pronunciato un discorso durissimo contro la Casa Bianca. Ha detto che l’invasione da parte delle truppe federali mette a rischio i pilastri della democrazia americana. Più precisamente lui ha detto che è “un attacco al fulcro della democrazia”.

Trump, svolgendo il suo solito comizio incendiario di fronte a un folto gruppo di militari abbastanza esaltati, ha parlato invece di invasione straniera. Lui dice che la presenza in California di molti lavoratori latino americani, in particolare messicani, è un atto di guerra. Chissà se ha imparato questo slogan dal nostro Salvini, che effettivamente nel campo della propaganda contro i migranti può vantare la primazia, o se si ispira al generale Custer. Ieri la polizia ha beccato due inviati della Cnn, gli ha legato le mani dietro la schiena, li ha portati lontani dal luogo degli scontri e ha intimato loro di non avvicinarsi mai più ai manifestanti. Immaginatevi se avessero fatto così in Italia, o in un altro paese pienamente democratico, cosa sarebbe successo. Dopodiché uno pensa e si chiede: se si procede su questa strada, se la destra mondiale non rinsavisce, c’è il rischio che succeda anche da noi?

Difficile capire come si svolgerà questa battaglia, e chi la vincerà. I due eserciti che si combattono sono “asimmetrici”. Da una parte ci sono le persone più povere e deboli d’America, appunto gli immigrati, in gran parte irregolari. Dall’altra parte c’è l’esercito più potente del mondo. Da una parte le forze che aspirano a conquistare nuovi diritti collettivi. Dall’altra uno schieramento politico, quello guidato da Trump sia sul piano interno sia su quello internazionale, che punta a seppellire il vecchio liberalismo – per quanto selettivo e di classe – della destra tradizionale americana, e a costruire una nuova ideologia politica fondata sulla forza, sulla riduzione delle libertà, sull’autoritarismo, sulla sfida allo stato di diritto e poi alla sua demolizione.

L’idea di Trump è questa. Lui pensa che la nuova destra non possa essere quella che si trascina i vecchi valori, non dico di Lincoln, ma nemmeno di Eisenhower e di Nixon. Cioè la ricerca di una compattezza sociale, il moderato ma solido progresso verso la fine del razzismo, il rafforzamento sia del welfare che dello stato di diritto. E distanze abbastanza modeste con i valori del partito democratico e con il kennedismo. Trump immagina una destra nuova che usa la forza per sottomettere gli strati più deboli della società e ridurli a forza di manovra funzionale ad un nuovo stato forte ed efficiente dove il potere del capitale è controllato, indirizzato, garantito e protetto dalla forza militare: sorvegliare, controllare, punire.

Non è una politica disordinata, quella di Trump. È ben solida e coerente. Lui sfida l’Europa perché considera l’Europa il ventre molle della vecchia democrazia occidentale. Che va rasa al suolo. Lui impone i dazi, perché il suo disegno ha bisogno di una America fortissima che non tratta, non va a compromessi, ma sottomette e comanda gli alleati. Con la Cina è un’altra cosa. La Cina è pari grado. I deboli non sono pari gradi, sono vassalli di una società e di un mondo che torna alle gerarchie, perché negli anni duemila solo le gerarchie possono consentire al capitalismo di non soccombere di fronte allo sviluppo della scienza e l’irrompere dei popoli e degli Stati emergenti. Tra i vassalli c’è anche la Francia, c’è la Germania, c’è l’Italia. Trump immagina di sottometterli facendo saltare i cancelli della democrazia politica.

Non è la prima volta che il colosso liberale americano vacilla di fronte a una proposta autoritaria. Ne abbiamo già parlato su queste pagine. All’inizio degli anni Cinquanta, quando il presidente era un democratico, Harry Truman, il paese finì nei fatti nelle mani di un senatore repubblicano iper-reazionario che si chiamava Joseph McCarthy. Che avviò una feroce campagna anticomunista e anti-liberal che colpì e travolse i piani alti dell’intellettualità americana. Furono proprio i repubblicani alla fine a stroncare il maccartismo e a riprendere la tradizionale via moderata dei conservatori, guidati da un personaggio di grande spessore, Ike Eisenhower, cioè l’uomo che aveva guidato gli Stati Uniti alla vittoria della seconda guerra mondiale. A settant’anni abbondanti di distanza l’America si ritrova sullo stesso crinale. Incerta tra liberalismo e maccartismo. Fu la moglie di Franklin Delano Roosevelt, la signora Eleonora a bollare il maccartismo come una forma di fascismo.

12 Giugno 2025

Condividi l'articolo