La 78esima edizione del Festival

Cannes, la Palma d’Oro va a “It was just an accident” di Jafar Panahi

Dalla pellicola Palma d’oro di Panahi, “It was just an accident” dedicata all’oppressione in Iran alla Sapienza di Martone ai migranti dei Dardenne, sulla croisette impera la lotta contro l’oppressione

Spettacoli - di Chiara Nicoletti

27 Maggio 2025 alle 14:30

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Photo by Scott A Garfitt/Invision/AP
Photo by Scott A Garfitt/Invision/AP

La 78esima edizione del Festival di Cannes si è conclusa questo weekend con un risultato degno delle origini della manifestazione o dei suoi anni più combattivi, se la si guarda sotto il punto di vista dei messaggi politici, di denuncia che sono stati veicolati. Non c’è stato giorno senza che gli artisti in programma non abbiano usato la loro voce per attirare l’attenzione sui temi scottanti che affliggono questo tornante problematico della storia. Un’edizione dunque che è stata quasi più efficace e incisiva per ciò che è stato affermato – prima e dopo – che non nella messa in scena delle pellicole.

Il concorso ne ha portate tutte di qualità alta ma senza colpi di fulmine, come era stato l’anno scorso per Emilia Perez e The Substance. Fanno eccezione la Palma d’Oro di questo 2025, It was just an accident di Jafar Panahi, in sala prossimamente con Lucky Red, un film di dissidenza, di misericordia, di domande catartiche e scottanti e Sirat di Oliver Laxe, vincitore del Premio della Giuria, pellicola imprevedibile, ansiogena, drammatica. Jafar Panahi, finalmente libero dopo la lunga prigionia, ha dimostrato di non perdere mai un colpo, sempre lucido nel rappresentare la realtà del suo paese e porsi le domande giuste. Il regista iraniano ha raggiunto il record che solo Michelangelo Antonioni aveva conquistato: il POLP, acronimo che sta a indicare i quattro premi più prestigiosi che si possano vincere ai Festival internazionali. Panahi aveva all’attivo infatti un Pardo d’oro a Locarno per Lo Specchio, un Orso d’oro a Berlino per Taxi Teheran, un Leone d’oro a Venezia per Il cerchio e gli mancava solo la Palma di Cannes per doppiare il nostro Antonioni. E l’ha raggiunta con il suo film più politico di sempre, un racconto paradossalmente intriso di ironia che vede un uomo alle prese con un dilemma che rappresenta forse quello di un’intera nazione di cittadini oppressi, l’Iran.

All’incontro con una persona in cui riconosce il suo torturatore durante il periodo di prigionia (per cause assurde) l’uomo si interroga se vendicarsi o essere esempio virtuoso di misericordia e perdono. Questo interrogativo, lungo il film, si farà sempre più invadente e coinvolgerà molte altre persone che portano il peso di trascorsi in carcere ingiusto e tortura. Ricevuto il nullaosta a girare in Iran, Panahi ha comunque realizzato l’intero film di nascosto, perché “non c’era alcun modo per sottoporre una sceneggiatura alla commissione e avere un’approvazione” ha dichiarato durante la conferenza stampa del film. Ritrae poi, Panahi, per la prima volta in un suo film, una donna senza velo: “Dopo la morte di Masha Amini, qualcosa è cambiato. La maggior parte delle donne si era tolta il velo e, nonostante tutta la repressione e tutti i conflitti che c’erano stati sull’argomento. E questa era una cosa totalmente nuova. Qualcosa che rappresentava la nuova realtà della nostra società. E così mi sono detto tra me e me: ‘poiché siamo registi sociali rappresentiamo la realtà del nostro Paese. La realtà della nostra società’. Ed è per questo che quando ho girato il film, ho mostrato questo personaggio come sarebbe stato nella sua vita reale”.

Sul palco della cerimonia di chiusura, il regista, visibilmente incredulo ed emozionato, ha rivolto il pensiero al suo paese: “Credo che sia il momento per chiedere a tutti gli iraniani che sono nel mondo: mettiamo da parte i problemi, le differenze, la cosa più importante è la libertà del nostro Paese”. Oltre a Panahi e Laxe, in concorso c’erano nomi altisonanti nel panorama internazionale del cinema d’autore, dal nostro Mario Martone con Fuori al solito Wes Anderson con La Trama Fenicia e le dirompenti Julia Ducournau con Alpha e Lynn Ramsay con Die, my love. Erano 7 le registe in concorso su 22 film complessivi e tanti sguardi, anche maschili, sulle donne e la condizione femminile. E di donne, giovanissime e già alle prese con scelte difficili da affrontare parla invece Jeunes Meures dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, vincitori del Premio alla miglior sceneggiatura e anche loro portatori di un altro bel record: questa di Cannes 78 è stata la loro decima volta in concorso a Cannes. Hanno celebrato dunque questo anniversario con il primo film corale, un ritratto di cinque ragazze madri, in un centro di aiuto e accoglienza a Liegi, in Belgio.

Un po’ Rosetta e un po’ Sonia di L’enfant queste giovani donne sono rappresentate nel loro percorso di acquisizione di un nuovo status, quello di madri e la decisione di esserlo veramente. Seguite con un approccio documentaristico, sono spesso figlie di genitori inesistenti o completamente assenti, soprattutto emotivamente. Partorire non significa diventare madri, lo capiscono lentamente e prendono delle dolorose decisioni in merito. Meno in linea con la direttiva dissidente di quest’anno, il mancato premio, da parte della giuria presieduta da Juliette Binoche all’attualissimo seppur ambientato nella Russia del regime totalitario di Stalin, Two Prosecutors di Sergei Loznitsa che, amatissimo dalla stampa internazionale, avrebbe potuto essere una scelta piuttosto sensata nel Palmarès. Non si è portato a casa un premio ma il favore della stampa italiana e un buon riscontro da quella oltre confine, un gioiellino tutto italiano presentato in un’altra sezione competitiva del Festival di Cannes che è Un Certain Regard: l’opera prima di Francesco Sossai, Le città di pianura.

Con il suo racconto di un incontro improbabile tra due ex operai di fabbrica e spiantati cinquantenni dediti all’alcol e un giovane studente di architettura, è una commedia che mescola la vera tradizione della commedia all’italiana con influenze scandinave alla Aki Kaurismaki e statunitensi alla Jim Jarmusch. Alcol, amicizia e architettura per un film che tra il serio e il faceto, ci ricorda, senza retorica che alcune realtà stanno sparendo, gli umanisti non sognano più ma c’è ancora tempo per trovare una virtuosa via di mezzo tra serate fino all’ultimo bicchiere e passeggiate a parlare d’amore e di bellezza. Cannes 78 si conclude, infine, con un atto simbolico, quello del Palais du Cinema, il palazzo del cinema e le sue sale, le uniche ad essere illuminate e a funzionare durante un black out doloso che ha colpito la giornata di Sabato e ridotto senza luce ed elettricità l’intera città e suoi dintorni. C’è chi ha intravisto speranza per il futuro del cinema, che resiste nonostante gli attacchi esterni.

27 Maggio 2025

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