Un'edizione molto impegnata
La battaglia di Cannes: Gaza libera, Trump è un fascista
Dal j’accuse di De Niro contro l’autocrazia del tycoon all’appello degli artisti italiani contro il governo Meloni, al festival tira aria di resa dei conti
Spettacoli - di Chiara Nicoletti

È presto per dirlo ma, a giudicare dall’apertura, dai film in programma e dal clima di lotta che si respira sulla croisette, la 78° edizione del Festival di Cannes, appena iniziata, potrebbe essere tra le edizioni più politiche di sempre. Dalla lettera aperta firmata da più di 350 star internazionali che condanna il genocidio a Gaza alle conseguenze positive del movimento #Metoo fino alle dichiarazioni anti-Trump del premio alla carriera Robert De Niro, Cannes apre in sobrietà con un’opera prima francese, Partir un jour ma non abbassa certo la voce.
La notizia di ieri della condanna di Gerard Depardieu per aggressione sessuale è arrivata giusto in tempo per trasformarsi in utile spunto di riflessione in conferenza stampa con la giuria ufficiale del Festival, presieduta da Juliette Binoche che ha dichiarato: “La condanna di oggi a Depardieu è il frutto di quello che è stato fatto negli ultimi anni anche qui al Festival di Cannes, con la presenza di registe donne e in particolare in giuria. La nostra ondata rivoluzionaria ci ha messo un po’ di tempo ad arrivare, ma alla fine è arrivata”. Ed è sempre Binoche, anche presidente dell’European Film Academy a commentare chirurgicamente la politica di dazi imposti da Donald Trump sull’audiovisivo: “Capisco che stia cercando di proteggere il suo paese, ma noi abbiamo una comunità cinematografica molto forte in Europa. Credo che stia lottando e cercando in molti modi diversi di salvare l’America e di salvarsi il culo”.
E sempre contro Trump si scagliano le parole di De Niro durante la consegna del suo premio dalle mani di Leonardo DiCaprio: “Il presidente filisteo americano si è fatto nominare capo di una delle nostre principali istituzioni culturali. Ha tagliato i finanziamenti e il sostegno alle arti. Stiamo lottando per difendere la democrazia, che un tempo davamo per scontata. Questo riguarda tutti. Perché le arti sono, per loro natura, democratiche. L’arte è inclusiva; unisce le persone. L’arte è una ricerca di libertà. Accoglie la diversità. Ecco perché l’arte è una minaccia oggi. Ecco perché noi siamo una minaccia per gli autocrati e i fascisti di questo mondo”. Se il cinema europeo e internazionale è in fermento, lo stesso si può dire di quello italiano, vista la lettera aperta indirizzata al ministro Giuli e firmata da tantissimi artisti del cinema italiano come Elio Germano, forti del discorso del maestro Pupi Avanti durante la cerimonia dei David di Donatello, in cui si chiede un incontro per risolvere la crisi del cinema italiano.
Tra i firmatari, Pierfrancesco Favino, protagonista dell’opera postuma del regista francese Laurent Cantet, diretta da Robin Campillo, Enzo, film di apertura della Quinzaine des Cinéastes. Sulla terrazza del Marriott a Cannes, sulla questione, l’attore dichiara: “Il maestro Avati credo abbia detto tutto con grandissima chiarezza, della necessità di costruire ponti”. Tempo di resa dei conti tra governo di destra e cinema di sinistra? Gli chiedono. “Non mi sembra che Avati sia un gran trotskista” commenta sarcasticamente, “è proprio questa narrazione che secondo me non è utile, o forse serve esclusivamente a non parlare. Io sono più interessato a discutere insieme”. L’attore interpreta il padre borghese di un adolescente che a 16 anni decide di non conformarsi ad una strada accademica già definita per lui ma di iniziare un lavoro “umile” da muratore.
Il film, distribuito da Lucky Red, mostra un Favino che in perfetto francese, incarna un padre in crisi, sommerso di aspettative genitoriali e borghesi: “Da padre mi sono ritrovato nella difficoltà di avere a che fare con un figlio che attraversa quel momento complicato che è l’inizio della costruzione della propria identità – commenta. Ho pensato che l’amore alle volte possa non sempre generare il bene. Pensiamo di essere sempre nel giusto, amando, e forse da genitore non è sempre così. Mi ha fatto domandare molto di me come padre”. Come consuetudine nei film di Campillo e di Cantet, le differenze di classe sono sempre raccontate ed Enzo non è da meno: “c’è una domanda che il film si fa rispetto all’idea di progressismo, di borghesia, cosa significhi appartenere ad ambienti che consideriamo intellettualmente vivi e a volte ignoriamo invece le richieste di qualcuno, come l’adolescente Enzo, che ha bisogno anche di rompere i legami con le proprie radici e trovare il proprio talento”.