Il premier time al Senato
L’inutile show di Meloni tra armi, Ucraina e Gaza
Dall’aumento delle spese militari alla questione palestinese, Meloni tronca e sopisce cumulando solo chili di retorica. Duro scontro con Renzi e Calenda
Politica - di David Romoli

Il premier time, evento raro, l’ultimo era stato un anno e mezzo fa, è un rito che attiene più allo spettacolo che alla politica: un rappresentante per gruppo prova a mettere in difficoltà, se dell’opposizione, o a magnificare, se della maggioranza, il presidente del Consiglio.
Ieri però la spettacolarità era attutita dalla location, il Senato dove non siedono i principali leader della maggioranza e si sa che le scintille proliferano invece quando Giorgia Meloni si confronta con Elly Schlein e Giuseppe Conte, che sono però, purtroppo, deputati. Le lame si incrociano solo con Renzi e lo scambio di cattiverie, tra un “io non farei mai niente già fatto da lei” e un “In effetti si vede perché noi facevamo riforme”, permette almeno un pronunciamento chiaro: la promessa di ripristinare le preferenze se ci sarà una nuova legge elettorale. Le domande, poi, vanno presentate con largo anticipo, tanto più che l’appuntamento è slittato di parecchi giorni causa decesso del pontefice. Così finisce che magari proprio gli argomenti che campeggiano sui quotidiani non figurino in agenda, non perché qualche settimana fa sembrassero meno importanti ma meno appunto “spettacolari”.
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Capita così che proprio il tema sul quale tutti accusano Meloni di glissare, Gaza, non sia oggetto di nessuna domanda. Molti, dal capogruppo Avs De Cristofaro al 5S Patuanelli fanno in modo di citarlo comunque ma la premier ha gioco facile nello svicolare ribadendo la sua speranza e la sua fiducia nella “mediazione dei Paesi arabi” senza i quali sarà impossibile risolvere davvero l’eterna e sanguinosa crisi. Boccia, per il Pd, si fa schermo della richiesta di informativa e dibattito in aula. Patuanelli assicura che il Movimento avrebbe voluto interrogare la presidente proprio su Gaza: purtroppo le domande erano state inoltrate tempo fa. Però, per la verità, non è che Gaza sia in fiamme da pochi giorni… Non ci sono domande precise neppure sull’Ucraina ma lì è la stessa presidente a dire chiaramente che ci vuole il cessate il fuoco incondizionato e che a deciderlo deve essere la Russia. L’Ucraina, il Paese aggredito, lo ha già fatto. Significativa non è la formula ma il tono battagliero tornato a essere quello di una volta, dunque ben diverso dal belato della Casa Bianca. Ma va da sé che quando si gioca in casa è un’altra cosa.
Sul riarmo, capitolo sul quale in un modo o nell’altro tornano in molti, Giorgia si affida alla retorica: “Difesa vuol dire sicurezza e sicurezza vuol dire libertà”. La quale, lo sanno tutti, “non ha prezzo”. Calenda, terragno, insiste sul prezzo: ma comprate nuove armi, spendete fantastiliardi o no? Giorgia svicola. Patuanelli riprende la questione, perché per spendere miliardi in modo da arrivare al 2% del Pil pattuito anni fa con la Nato: “O si taglia, o si tassa o ci si affida alla supercazzola”. La terza che ha detto. La presidente farfuglia che ci sono spese che sono a tutti gli effetti per la difesa e che tali devono essere considerate. Insomma, supercazzola o manovra contabile che dir si voglia. De Cristofaro torna sul noto colloquio della Casa Bianca: era partita per convincere Trump a eliminare i dazi, è tornata avendo promesso una quarantina di miliardi a spese del contribuente. Giorgia sbotta: “Ma da dove le ha tirate fuori il senatore queste cifre?”. Il 2% per la Nato era un impegno assunto da una sfilza di governi precedenti: non che lei non concordi ma non le si dia la responsabilità primaria. I 10 miliardi di investimenti “sono quelli che erano già previsti”. Nessuna promessa, insomma, solo una segnalazione nel quadro di fecondo scambio di investimenti. Certo resta il gas liquido, e costa parecchio… “Seguiamo la strategia di differenziare le fonti energetiche adottata dopo l’invasione dell’Ucraina: Tunisia, Caucaso, Usa”. Con gli americani, poi l’accordo sulla forniture era stato preso quando alla Casa Bianca c’era Biden: “Siccome adesso il presidente è repubblicano dovremmo tornare a rifornirci da Putin?”.
Sui conti va in scena la solita versione in politichese italiano di Rashomon: i dati sono gli stessi ma Patuanelli e Boccia, per il Pd, li interpretano come un disastro, Giorgia, forte della promozione di Standard and Poor’s e dello spread, come un successo. Patuanelli ironizza: “Adesso spread e agenzie di rating vi piacciono”.
Sulla sanità e sulle liste d’attesa, però, non c’è Rashomon che tenga. Il verdetto è unanime: disastro. La premier però punta l’indice sulle Regioni: “Noi ogni anno stanziamo risorse e non gestiamo le liste d’attesa. Le gestiscono le Regioni e alle Regioni devo fare appello”. Non che abbia tutti i torti. La Sanità regionale è in effetti l’aspetto più devastante della pessima riforma federalista voluta nel 2001 dal centrosinistra. Ma non è che questo governo, tra una riforma e l’altra, abbia pensato di abolire l’oscena riforma. Al contrario, vuol portarla con la riforma di Calderoli alle estreme conseguenze.
La premier si tiene i fuochi artificiali per l’ultima risposta, quella che viene dal capogruppo del suo partito Malan. Lui introduce il capitolo immigrazione e intesa con l’Albania. Lei sbandiera i pronunciamenti della Commissione che sui Paesi sicuri le danno ragione, rivendica l’aver cambiato corsia in corsa spedendo oltremare gli immigranti già in via di rimpatrio, “E in una settimana il 25% dei trasferiti sarà rimpatriato, segno che le nostre procedure funzionano”. Solo che anche questa nuova e diversa ondata potrebbe essere riportata in Italia su ordine della magistratura. Il colpo a effetto è leggere l’elenco dei reati a carico dei trasferiti e sono tutti piuttosto pesanti: “Questa è la gente che vogliono far restare in Italia”. Il premier time è uno show e sul piano dello show la chiusura, dal punto di vista della star-presidente, funziona.