La premier sogna di prendersi il paese
Meloni ha la sua Legge Acerbo per le elezioni: da Fratelli d’Italia a Padroni d’Italia
Ripristino delle preferenze, indicazione del premier, robusto premio di maggioranza al partito vincente che avrebbe il 55% dei seggi. Meloni sogna di prendersi il Paese come accaduto un secolo fa
Politica - di David Romoli

La legge elettorale è da vent’anni la croce senza alcuna delizia della politica italiana. È anche il riflesso preciso dello stato paludoso dal quale il sistema politico non riesce a venire fuori. In effetti il caso di un Paese senza vera legge elettorale da un ventennio è probabilmente unico. Tutte le leggi proposte e approvate, peraltro a colpi di maggioranza, dal 2006 sono state modificate e sforbiciate o dal capo dello Stato o dalla Consulta perdendo così ogni razionalità e intento strategico.
La notizia, che in realtà circola da mesi, di un possibile tentativo anche di questo governo di colmare la non trascurabile voragine sarebbe dunque in sé positiva. Se non fosse che, a quel che se ne sa, la legge di Giorgia ripercorre gli stessi errori dei procedenti fallimenti e sembra pertanto destinata a finire allo stesso modo: è calibrata sugli interessi di parte, e in questo caso per parte non s’intende neppure una coalizione ma solo un partito e naturalmente si tratta di FdI, e finge che non esista una Corte costituzionale che in materia non è mai stata disposta a transigere. Va però specificato che parlare di proposta di nuova legge elettorale in questo caso è del tutto fuori luogo. Si tratta, per ora, di idee, suggestioni e desideri che in effetti trapelano da mesi da Chigi ma che non sono mai arrivati a diventare una vera ipotesi proposta a rivali e alleati. Se mai si arriverà a un vero disegno di nuova legge elettorale ci sarà quindi ampia possibilità di correggere gli strafalcioni evitando di sbattere di nuovo contro il muro della Consulta.
La legge si basa tre punti essenziali, oltre al ripristino delle preferenze che in realtà nessuno vuole ma che tutti sono obbligati a fingere di perseguire. Ci sarebbe l’indicazione del premier, che non avrebbe valore vincolante almeno fino a che non sarà completato con tanto di referendum il premierato, ma che spingerebbe lo stesso verso l’obbligo di coalizione e dunque verso il bipolarismo. Ci sarebbe un robusto premio di maggioranza, che porterebbe automaticamente la coalizione (o il partito) vincente al 55% dei seggi se superasse il 40% dei consensi reali. La spinta più forte verso l’obbligo di coalizione sarebbe in realtà questa. Ci sarebbe infine un ritorno totale al proporzionale, su collegio nazionale e con soglia di sbarramento ancora da definirsi ma presumibilmente tra il 4 e il 5%. I collegi verrebbero invece del tutto eliminati.
In un disegno del genere la premier ha tutto da guadagnare. Il premierato verrà approvato dalle camere in questa legislatura ma i referendum confermativi slitteranno alla prossima per evitare che un’eventuale sconfitta trascini a fondo la destra anche in elezioni politiche che arriverebbe per forza di calendario a stretto giro. L’indicazione del premier già nella legge elettorale però prefigurerebbe quella riforma e dunque ne moltiplicherebbe le probabilità di successo nel referendum confermativo. Il premio di maggioranza consentirebbe alla leader della destra di disporre di una vasta maggioranza anche nel caso, al momento probabile, di vittoria di misura. L’eliminazione dei collegi costringerebbe i partiti alleati ad abbassare le pretese e accontentarsi di una rappresentanza parlamentare non sovrastimata come è oggi e come resterà se si tornerà a votare con questa legge. In più, ma non si tratta di un particolare, le proiezioni su cui si basano gli ingegneri elettorali di palazzo Chigi dicono che al sud molti collegi se li aggiudicherebbe il campo Pd-M5S-Avs anche senza supporti centristi.
Solo che nessun altro partito ha interesse in una simile legge. Non quelli di destra, che ne uscirebbero con una rappresentanza elettorale ridotta. Non il Pd che dovrebbe fare i conti, se sconfitto, con una maggioranza ampia e dunque solida invece che risicata e quindi fragile. Non Elly Schlein che dovrebbe mettere in palio la sua candidatura a premier in primarie di coalizione con il rischio di essere battuta da Conte che proprio su quella carta punta. Alla solita Consulta, poi, non andrebbe giù il collegio nazionale al Senato, dal momento che la Carta impone di eleggere la Camera alta su base regionale ma la Corte aveva anche indicato molto chiaramente l’obbligo di non esagerare con il premio maggioritario e un premio che qui può arrivare al 15% suonerebbe invece probabilmente esagerato. Tentare di dare agli elettori una vera legge elettorale, insomma, sarebbe da parte della premier meritorio. Se riuscisse a evitare l’eterna tentazione bipartisan di inventarsi leggi elettorali pensando al proprio tornaconto invece che a quelli della rappresentanza democratica e della razionalità del sistema.