Il portavoce di Amnesty Italia

Parla Noury: “Riarmo? C’è bisogno dell’Europa dei diritti”

“Repressione delle manifestazioni, legislazioni punitive, uso illegale della forza: in tanti stati europei si riduce ancora lo spazio di riunione pacifica, inclusa l’Italia. La deriva verso una società basata sulla sorveglianza fa comodo a chi governa”

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

11 Aprile 2025 alle 08:00

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Foto di Cecilia  Fabiano/LaPresse
Foto di Cecilia Fabiano/LaPresse

Riccardo Noury, Portavoce di Amnesty International Italia: Lo scorso anno, di questi tempi, Amnesty International denunciava la profonda crisi del multilateralismo. Quest’anno, a che punto siamo?
Alla sua annunciata fine. C’è una data che possiamo appuntare sul calendario: il 20 gennaio, il secondo ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca. Quello è stato l’acceleratore di tutto: delle decisioni estemporanee, al risveglio, per dettare il tema del giorno potenzialmente riguardante miliardi di persone al mondo; della messa dell’Europa con le spalle al muro per farle prendere decisioni improvvisate; delle cose impensabili che diventano non solo pensabili ma anche realizzabili; del trionfo del cattivo gusto e del cinismo. Naturalmente, niente nasce il 20 gennaio 2025. L’autoritarismo di Trump era emerso anche nel suo primo mandato e non possiamo dire che l’amministrazione di mezzo – quella di Biden – abbia portato a una soluzione dei problemi che affliggono il mondo. Tuttavia, notiamo di recente quanti leader stiano trovando conforto nella condivisione, evidente da parte di Trump e Putin riguardo al futuro dell’Ucraina, del disprezzo per il diritto internazionale e dell’idea che i diritti umani e la giustizia possano, anzi debbano essere sacrificati. In queste settimane abbiamo visto cosa ha significato l’annunciata fine, dal punto di vista dei diritti umani, del multilateralismo nell’Unione europea. L’abbiamo visto, con un’azione provocatoria da parte di colui dal quale in fondo non ci aspettavamo sorprese: il primo ministro dell’Ungheria Orbán, che ha invitato e accolto il suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti della popolazione palestinese della Striscia di Gaza. Di fronte alla richiesta di rispettare i suoi obblighi di cooperazione giudiziaria e, di conseguenza, arrestare Netanyahu, Orbán ha annunciato stizzito che il suo paese si sarebbe ritirato dalla Corte. Si è scordato però che, sebbene il ritiro sia consentito ai sensi dell’articolo 127 dello Statuto di Roma, questo vale un anno dopo il deposito della decisione presso l’Ufficio dei trattati delle Nazioni Unite. Quindi ogni volta che Netanyahu o Putin o chiunque altro sia ricercato dalla Corte, da qui all’aprile 2026, vorrà mettere piede in Ungheria, dovrà essere arrestato.

E poi che altro è successo?
Ci sono stati altri gesti, meno eclatanti ma non meno gravi. I tre stati baltici (Estonia, Lituania e Lettonia), insieme alla Polonia e seguiti all’inizio di questo mese dalla Finlandia, hanno dichiarato l’intenzione di ritirarsi dalla Convenzione sulle mine anti-persona del 1999. Già che c’era, la Lituania si è anche ritirata dalla Convenzione sulle bombe a grappolo del 2010. Entrambe mettono al bando munizioni inerentemente indiscriminate, destinate (come ampiamente successo nella storia) a fare danni al momento del loro impiego e per il tempo a venire alle popolazioni civili. Ritiri del genere vogliono dire che si prevede che in futuro sarà necessario usarle. E questo, ovviamente, ha a che fare col tema del riarmo.

Che è il tema del momento…
Alla fine di marzo, nel vertice internazionale di Parigi cui insieme ai leader europei sono intervenuti quelli di Australia, Canada, Corea del Sud, Giappone, Nuova Zelanda e Turchia, è stata ribadita la determinazione di difendere l’Ucraina dall’aggressione della Russia. Ma, neanche tanto dietro le quinte, pare che non ci sia via di mezzo tra due opposti: auspicare “una pace ingiusta” o essere pronti a “una guerra giusta”. Da qui, due conseguenze: la seconda è ovvia, il riarmo. La prima prevede che i diritti umani e la giustizia non debbano intromettersi in soluzioni tutte politiche. Continuiamo ad ascoltare mantra sulla “complicazione delle cose” se nella risoluzione dei conflitti entrano elementi giuridici; si diffonde la domanda “Come si fa a fare la pace se X è ricercato dalla Corte penale internazionale o se addirittura viene arrestato?”, laddove X è di volta in volta Putin o Netanyahu. Vorrei rovesciare la domanda facendone tre, e attenendo risposte: “Come si fa a evitare la prossima guerra se X resta impunito?”; “Se X fosse stato già arrestato, le attuali guerre non avrebbero potuto essere evitate?”; “Con che faccia vi presenterete alle popolazioni ucraine e palestinesi vantandovi, nel caso, di aver raggiunto una ‘pace ingiusta’, ossia una ‘pace senza giustizia’”?

Invece, di che Europa avremmo bisogno?
Di un’Europa che sia sì una coalizione ma di giustizia e di diritti, che sono indispensabili tanto alla pace quanto nei periodi post-conflitto: quella che ha descritto Francesca Mannocchi nel suo intervento alla manifestazione per l’Europa di Bologna del 6 aprile, per intenderci. Abbiamo bisogno che accanto al riarmo e ancora prima del riarmo – che dovrebbe prevedere comunque investimenti circoscritti, il divieto di produrre e diffondere armi vietate e il rispetto del Trattato internazionale sul commercio delle armi e della Posizione comune dell’Unione europea sulle esportazioni di armi – l’Europa investa nei diritti fondamentali: salute, lavoro, istruzione, uguaglianza di genere. Serve un’Europa che abbandoni i doppi standard, diventati un punto cardinale della sua politica estera e che sono emersi clamorosamente nell’aver abbandonato la popolazione palestinese della Striscia di Gaza al genocidio israeliano mentre si sosteneva il diritto, sacrosanto, della popolazione ucraina a difendersi dall’aggressione della Russia. Un’Europa che, a proposito di armi, rafforzi l’embargo su quelle che continuano ad arrivare in Sudan, dov’è in corso da due anni un conflitto interno spaventoso. Un’Europa che si renda conto che, indebolendo il diritto internazionale, perderà sempre più credibilità.

A proposito di manifestazioni per l’Europa, cosa pensa di come è stata descritta nella prima, quella di Roma?
L’ho seguita da vicino, considerandola un’assemblea di persone che avevano timori diversi e speranze diverse. L’immagine più bella che ho di piazza del Popolo è di aver visto, in un unico luogo, le bandiere dell’Ucraina, della Palestina e della pace insieme. Meno bello è stato ascoltare una serie di oratori parlare in toni trionfalistici dell’Europa, elencandone successi e meriti, facendo lunghe liste di persone che hanno fatto grande e unica l’Europa e omettendo quelle che, a citarle, avrebbero rovinato quella narrazione così sublime del nostro continente: da re Leopoldo II di Belgio al kaiser del Secondo Reich Guglielmo II coi loro genocidi in Africa. Già sento arrivare l’obiezione: “A piazza del Popolo si parlava dell’Europa dopo il nazifascismo, dell’Europa in cui, da allora, quelle cose non le abbiamo fatte più”. Vero, però le abbiamo affidate ad altri, ad esempio alla Libia, o abbiamo lasciato che le facessero altri. Mica poi così lontano da noi.

A cosa si riferisce?
Al mito che in Europa abbiamo vissuto ottant’anni in pace. La Bosnia dov’era, in Asia? La Cecenia era in America latina? Il Nagorno-Karabakh era in Oceania? Allora precisiamolo: solo in quel pezzetto di Europa che sentiamo nostro, quello dei padri fondatori e delle madri fondatrici dell’Europa unita, siamo stati in pace. Ma praticando l’orientalismo anche all’interno del continente, abbiamo visto come lontani da noi crimini di atrocità, compreso il genocidio di Srebrenica esattamente 30 anni fa, del tutto europei. Non c’è da essere granché fieri.

E quanto al rispetto dei diritti umani all’interno degli stati europei, come stiamo messi?
Lo spazio già trascurabile di riunione pacifica si è ridotto ulteriormente e in modo drammatico in diversi stati, con azioni repressive dirette in particolare contro chi manifestava solidarietà alla popolazione palestinese della Striscia di Gaza, con legislazioni punitive e con l’uso illegale della forza. In tutti e tre i casi, l’Italia è inclusa. Il rischio è che questo insieme di provvedimenti scoraggi la partecipazione alle attività in favore dei diritti umani di coloro che potrebbero essere i leader e le leader dell’attivismo futuro. Poi, non si riesce a fermare, perché fa comodo a chi governa, la deriva verso la creazione di una società basata sulla sorveglianza. Discriminazione, stigmatizzazione e violenza basate su etnia, religione, sessualità e genere prosperano (vedi i femminicidi in Italia, che ovviamente nessun inasprimento delle pene ferma), insieme a crimini e discorsi d’odio. Si continua a introdurre politiche e pratiche che non danno priorità alla protezione delle vite delle persone rifugiate e migranti rispetto al controllo delle frontiere e a dipendere pericolosamente da stati terzi per impedire od ostacolare le migrazioni.
Le Ong e le persone che difendono i diritti umani subiscono criminalizzazione. In Grecia, ci sono continui procedimenti giudiziari per aver assistito persone rifugiate e migranti. Tre esperti delle Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per le restrizioni dell’Italia sulle attività di coloro che salvano vite in mare.

In cosa dobbiamo sperare allora?
In ogni momento buio, resta accesa la candela della speranza, simbolo anche di Amnesty International che proprio nel 2025 compie 50 anni. Quindi c’è da sperare nelle ragazze e nei ragazzi della Serbia, che da mesi stanno sfidando l’autoritarismo del presidente Vučić; nelle persone che in Georgia resistono alla violenza da parte di assalitori non identificati, in alcuni casi apparentemente incoraggiati o istigati dalle autorità; nei milioni di persone che hanno sfidato i divieti di manifestare imposti dal leader turco Erdoğan dopo l’arresto del sindaco di Istanbul. Questa è l’Europa di cui abbiamo bisogno.

11 Aprile 2025

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