Una storia di pensiero e lotta

L’erdeità luminosa di Grazia Zuffa: con le donne per le donne

A Roma l’incontro alla Casa internazionale delle donne per ricordare la grande intellettuale femminista recentemente scomparsa

Politica - di Marisa Nicchi

18 Marzo 2025 alle 15:00

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Photo credits: Alessandro Paris/Imagoeconomica
Photo credits: Alessandro Paris/Imagoeconomica

Luminoso è l’aggettivo più giusto per descrivere l’incontro con Grazia Zuffa. Avviene nella seconda metà degli anni 70, lei femminista, dirigente dell’UDI, io segretaria regionale della Fgci. Eravamo nel pieno dei movimenti di donne e di giovani che infiammavano le scuole, le università, la società, esprimendo una inedita politicità che atteneva al corpo, alla soggettività femminile, alla sessualità, all’aborto, alla violenza maschile sulle donne, ai sentimenti, ai sogni.

Una materia fino allora oscura per la politica su cui trovai in lei un’interlocutrice preziosa per valutarne i significati profondi. Il sommovimento sociale e culturale era impetuoso e spiazzante, imponeva alla FGCI di lasciare consunte liturgie e di rinnovare culture politiche perché quelle tradizionali della sinistra stavano perdendo forza. Furono anni di trasformazioni sociali e mutamenti nella soggettività di tante donne, cancellati troppo superficialmente da una lettura che li identifica solo come “anni di piombo”. In quella temperie è nato il nostro rapporto e si è consolidato nel PCI di Firenze e della Toscana, dove è stata Responsabile della Commissione femminile, della Commissione Sanità, Consigliere Comunale, per essere infine Senatrice dall’87 al ‘94.

Nel dipanare i ricordi di quei decenni ho ripensato al nostro quotidiano vivere gomito a gomito nella sede di via Alamanni, sino alla sua elezione al Senato, quando la distanza ha imposto al nostro rapporto altre modalità. Rimarrà tra i ricordi più belli quella nostra intensa frequentazione con la piccola figlia Irene che, in attesa della fine dell’ennesima riunione, si divertiva con le luci del centralino, o quando ci trovavamo intorno ai tanti piatti caldi che Grazia era solita offrire alle amiche. Con lei ho appreso quanto sia importante che la politica metta al primo posto le relazioni. La finezza e il rigore intellettuale con cui Grazia era capace di illuminare le relazioni politiche erano uniti ad una delicatezza di sentimenti, tutta sua. Una “grazia”, ha scritto Ida Dominijanni con un gioco di parole calzante. A ripensarci oggi, salta agli occhi quella peculiare vitalità che si espresse a Firenze.

In quegli anni, con lei e con altre importanti studiose femministe, Maria Luisa Boccia, Tamar Pitch, Ida Dominjanni, Monica Toraldo di Francia, Francesca Izzo, Patrizia Meringolo e tante altre, ferveva il lavoro politico e culturale del Collettivo che aveva dato vita alla rivista “Rosa“, la cui prima uscita risale al febbraio 1974. Una storia di uno speciale rapporto tra femministe e comuniste che rifletteva sulla nuova politicità e la pratica dell’autocoscienza, storia che Anna Scattigno ha ben ricostruita (Memoria 19/20 1987). Nel crocevia di quelle riflessioni e pratiche che hanno coinvolto donne del movimento e militanti del PCI hanno preso a stringersi alcune relazioni tra donne che sono divenute riferimenti fondamentali nella scena femminista nazionale, e si sono misurate, anche nei decenni successivi, in comuni vicende politiche a sinistra, in battaglie culturali e hanno attraversato la complessità della vita di ciascuna.

Anche l’UDI di Firenze aveva reagito alla scossa del movimento femminista, spingendosi nella ricerca di inedite forme organizzative e di rappresentanza non più mutuate da quelle del movimento operaio, avvertite come palesemente inadeguate. Un fecondo tentativo di passare dalle tradizionali “politiche per le donne” a “soggetto politico autonomo”. Grazia Zuffa ne fu acuta interprete e artefice saggia. Anche per suo merito l’UDI fiorentina riuscì a mantenere la sua forza storica e ad aprirsi svolgendo un proprio ruolo sia nel movimento che nel rapporto con i partiti, in particolare con il PCI. In quel confronto/scontro, Grazia Zuffa si distingue per la sua postura autonoma e differente, sostenuta da relazioni privilegiate con alcune delle donne citate e da una rete diffusa di legami femminili sedimentati nei movimenti, nell’UDI e tra le militanti dei partiti. Il suo essere femminista non ha mai avuto il tratto della chiusura: dialogo, ragionamento, scambio, confronto, sono stati la sua cifra anche in quei tempi di profonde inquietudini.

Il femminismo aveva messo in discussione le certezze delle politiche di emancipazione che non riconoscevano la differenza femminile, e aveva generato il travaglio delle militanti comuniste nel rapporto con il partito innescato dal principio “il personale è politico”, tant’è che la doppia militanza “diviene allora una forma consapevole di espressione della vivente contraddizione tra diverse sfere e pratiche della propria esperienza”, (G. Zuffa, Memoria 10/20 1987). È questo il suo modo di attraversare la vita del PCI, un partito certo con rigidità culturali e politiche verso la pratica politica del femminismo e la nuova elaborazione delle donne comuniste, ma di cui si riconosceva la radicata politica di massa, in cui le militanti “…compiono un’esperienza ricca, di rapporto con la realtà, di formazione e di realizzazione personale.”, tant’è che “La crisi della doppia militanza per le comuniste non giungerà mai ad una rottura con il partito come avvenne per le militanti della nuova sinistra”. (Memoria/1987).

La proposta di un suo impegno diretto del PCI fiorentino e poi toscano fu il segno di un’attenzione lungimirante da parte di quel partito ai mutamenti sociali in atto di cui il femminismo era parte significativa. Un’apertura che tuttavia risentiva di una lettura restrittiva di tali mutamenti che erano intesi più come espressione di disagio sociale, oppure mero allargamento lineare delle alleanze sociali senza una riconsiderazione dell’impianto culturale, delle forme e della strategia politica. Erano gli anni della solidarietà nazionale con i segni già evidenti delle difficoltà del PCI ad accogliere le novità insite nell’allargamento dei consensi elettorali del 1975.

D’altro canto, la disponibilità che Grazia dette a tale proposta fu l’accettazione lucida e consapevole da parte sua, compiuta in relazione con altre donne, della sfida che implicava il tentativo di portare direttamente il femminismo nel partito, dato che il nucleo fondante del femminismo, la libertà era ostico alla tradizione dell’emancipazione, e anche in considerazione del fatto che la pratica politica da cui il femminismo nasceva, “il partire da sé”, collideva con una militanza che relegava la soggettività in secondo piano. Nel bilancio di quella sfida ci sono luci, ma anche questioni rimaste aperte che la fine del PCI ha lasciato irrisolte.
È sull’aborto e nella conseguente discussione sulla legge che il femminismo ha trovato una via di penetrazione diretta attraverso il conflitto aperto dalle donne, che la vide fra le protagoniste.

A Firenze, in particolare negli anni che precedettero l’approdo alla legge 194, ci fu uno scontro aspro negli attivi di partito, nelle assemblee pubbliche, negli organismi di partito, con dirigenti autorevoli come Adriana Seroni, rispettata dirigente fiorentina e responsabile nazionale delle donne, contestata e poi convinta ad uno spostamento di posizione. Il PCI partiva da una linea molto arretrata il cui riferimento era il Testo unificato elaborato in Parlamento, nel dicembre 1975. In esso si riconosceva alla donna la possibilità di abortire solo in condizione di violenza o di pericolo per la salute della madre o del feto, e si accettava la discrezionalità della decisione del medico, intesa come corresponsabilità della società. Nell’atteggiamento del partito non pesava solo la costante preoccupazione di evitare scontri e lacerazioni frontali, soprattutto col mondo cattolico, e di realizzare schieramenti larghi, ma una non comprensione del nocciolo del problema che il movimento aveva posto in modo dirimente: l’autodeterminazione della donna.

Le donne giocarono la loro egemonia in alleanza con gli uomini più illuminati. Va ricordata a tale proposito la presa di posizione contraria alla linea espressa dal partito, di Cesare Luporini, autorevole filosofo fiorentino e ascoltato dirigente del partito, che espresse tutto il suo “turbamento quale non aveva mai avuto nella vita di partito in nessuna circostanza precedente” in una lettera rivolta a Alessandro Natta nel dicembre 1975, (Filippo Magni, Rivista Il Ponte, maggio /giugno 1918). Se la mediazione conclusiva della legge contempla il riconoscimento della decisione finale della donna, è perché una forza femminile dirompente fuori e dentro il partito seppe convincere e vincere nel determinarne l’orientamento. A Firenze, con Grazia, facemmo la nostra parte con determinazione e senza esclusioni di colpi. Nel mentre nel movimento si continuava dibattere sul significato da dare a quella battaglia, sul giudizio della legge e della mediazione contenuta in essa. Si fronteggiavano due culture, quella di chi privilegiava l’aspetto della libera determinazione di sé, dunque della maternità e sessualità come scelta, e quella di chi vedeva prevalentemente una donna in condizione di svantaggio da “aiutare a decidere”, e un’ ingiustizia sociale da colmare.

Ho ricordato questa vicenda perché sul significato di quella lotta politica e culturale Grazia svilupperà l’elaborazione che diventerà un punto di riferimento della discussione, anticipando con Maria Luisa Boccia i dilemmi sulle tecniche di riproduzione assistita, (“L’ eclissi della madre“ 1998), affrontando i rinnovati e mai sopiti attacchi “trasversali” alla legge 194 (da ricordare la polemica con Giuliano Amato), cimentandosi con il tema del fine vita e quello complesso della gestazione per altri/e. Questioni su cui ha dato contributi fondamentali nel Comitato Nazionale di bioetica. Un pensiero critico, il suo, che tiene fermo un criterio ordinatore dei conflitti impliciti in queste materie: l’autodeterminazione come principio etico, “al di fuori dei panni stretti e impropri del diritto individuale, come libertà di essere se stessa che non si contrappone alla responsabilità verso l’altro” (Reti,1989), quella che lei denomina una “libertà relazionale“. Un’elaborazione che orienterà la sua attività legislativa e la discussione su questi temi dentro e fuori il Parlamento, e segnerà l’esperienza vissuta nel “Gruppo interparlamentare donne”, e i suoi rapporti con il Gruppo della Sinistra Indipendente, soprattutto con Mariella Gramaglia e Pierluigi Onorato a ennesima dimostrazione della sua capacità di creare ponti culturali e generazionali.

Anche su quest’esperienza conviene ricordare una sua riflessione che mette in luce una sua costante preoccupazione: “la convinzione che l’impegno delle elette di render conto del loro operato alle elettrici non è la banale traduzione al femminile di un sacrosanto principio di moralità politica, bensì lo sforzo di rendere visibile, e perciò discutibile e correggibile, un percorso tutto da inventare” (Reti, 1990). Sì, perché in Grazia pensiero e azione, confronto scientifico e pratica sociale vanno di pari passo. Il pensiero vive in scelte concrete costruite in rapporto con i soggetti sociali interessati con una “rara capacità di azione politica trasformata” come ha ricordato il costituzionalista Andrea Pugiotto.

I semi piantati sono innumerevoli. Come responsabile della sanità ebbe parte decisiva nella fondazione del Sistema Sanitario Regionale toscano (bei tempi!), affermando il modello della rete dei consultori in sintonia con l’elaborazione su maternità e sessualità dei movimenti. Fu promotrice dei servizi innovativi nel campo della salute mentale all’insegna della cultura anti manicomiale, dell’uso delle droghe, delle dipendenze anticipando le politiche della riduzione del danno. Come componente della Commissione Regionale di bioetica propiziò un regolamento dei centri di fecondazione, il primo in Italia, a tutela della salute delle donne e dei nascituri sulla base delle competenze regionali.

Grazia Zuffa ha considerato cruciale, nel percorso femminista dentro il partito, la pratica dell’autonomia politica, intesa come processo in cui le donne comuniste acquistano coscienza di sé, del proprio ruolo e si danno valore tra loro: “Per me l’eredità più viva del femminismo è proprio il conquistato riconoscimento del nostro valore, con la scoperta che dipende da noi, e solo da noi, saperlo riconoscere”, dirà nell’intervento alla VII Conferenza Nazionale delle donne di Roma, (1983), guidata da Lalla Trupia. È da lì che inizia a prendere forma in modo più netto l’autonomia che poi, la “Carta itinerante delle donne”, (1987), ridefinirà radicalmente sia nel senso che nella pratica. Con la Carta infatti, si afferma un esplicito atto di soggettività: “Siamo donne comuniste“ si dichiara all’inizio, poi si prosegue: deriva “dalle donne la forza delle donne”. Frase che riassume in modo efficace il senso della relazione tra donne in un luogo maschile come un partito politico. Con la Carta è fiorita una primavera politica delle donne comuniste guidata da Livia Turco, promossa con esponenti del femminismo della differenza, Alessandra Bocchetti e Franca Chiaromonte, attraverso un legame cementato nell’occasione della mobilitazione e della riflessione critica sull’incidente di Chernobyl (Convegno “Scienza potere e coscienza del limite” Aprile 1986).

Una primavera animata dal protagonismo di una comunità di donne comuniste rafforzate dalla relazione tra loro diventata pratica costitutiva e non solo di alcune.
Sulla scia della Carta, alle elezioni del 1987, il PCI fece eleggere il 30 percento circa delle di donne, un traguardo considerevole viste le percentuali degli altri partiti. Al XVIII Congresso il PCI riconosce la differenza sessuale come aspetto costitutivo del genere umano, e la necessità di costruire un mondo a misura dei due sessi.
Un bel salto in avanti: le donne occupavano un posto centrale. In relazione tra loro, non si sentono più secondarie, relegate nello “specifico”, sentono addirittura di poter agire, si ripeteva nelle riunioni “come se il PCI non ci fosse”, incuranti dei suoi lacci. A Grazia Zuffa non sfuggiva però come quell’atto di soggettività fosse tutt’altro che un pacifico avanzamento dei contenuti a prescindere dal partito.

La pratica della relazione tra donne apriva conflitti sulle forme e pratiche del partito, sui meccanismi che lo reggevano e sulla qualità del progetto di trasformazione, Non si poteva ignorare la fase che il partito stava attraversando alla ricerca di una chiara identità, stretto sempre di più tra l’arrembante neoliberismo di Reagan e Thatcher e la crisi del mondo dell’URSS. Il punto non era agire “come se il PCI non ci fosse”, semmai era cambiare il PCI. A cominciare dal superamento del centralismo democratico. Nell’intervento al Comitato Centrale in preparazione del 18° Congresso del PCI, Grazia Zuffa è chiara e coraggiosa: ”L’autonomia delle donne ha già rotto il centralismo democratico superando il momento della sintesi perché la contraddizione uomo donna non è sintetizzabile”. Era necessaria una rottura di continuità, che tuttavia rimarrà irrealizzata perché di lì a poco il PCI avrebbe deciso di cambiare nome e identità.

Quella che si aprì dopo l’annuncio del cambio del nome alla Bolognina, sarà una svolta che verrà condotta in un modo distruttivo, il contrario di quella cura che le donne evocavano. Così fu azzerata l’audacia del tentativo di cambiamento in cui avevano investito le donne della Carta. La conta dei sì e dei no alla svolta risucchiò l’autonomia politica delle donne comuniste. Grazia Zuffa e con lei un gruppo di donne, Maria Luisa Boccia, Letizia Paolozzi, Franca Chiaromonte, Gloria Buffo, Anna Maria Carloni, Lilli Rampello e altre cercarono una via autonoma per esprimere la loro contrarietà con una propria mozione “La libertà è solo nelle nostre mani”. (Vicenda ricostruita da Franca Chiaromonte, Letizia Paolozzi, “Il taglio. Due femministe raccontano la fine del PCI” 1992). Era il tentativo di creare uno spazio differente entro la colata lavica della logica degli schieramenti compatti e contrapposti, una logica che, tuttavia prevalse e travolse idee, sentimenti, relazioni, pensieri e portò, dopo due congressi, allo scioglimento del PCI. Fu un’operazione di incuria politica, al di là della pluralità e della profondità delle ragioni e delle passioni che si scontrarono.

Schierarsi con Aldo Tortorella e Pietro Ingrao contro la svolta per Grazia non aveva il significato di una resistenza al cambiamento, ma la scelta di una direzione che esso doveva avere, della sua cultura e della sua pratica politica. Il tema era maturo ben prima del crollo del muro di Berlino, ben prima della dissoluzione del cosiddetto “socialismo realizzato”, mondo agli antipodi della cultura politica di Grazia Zuffa. E lo era, seppure non nello stesso modo, anche per una parte del PCI, almeno di quella che al Congresso di Bologna del 1990 si riconosceva nella mozione di Ingrao e Tortorella. Non è qui, in questa parziale ricostruzione dell’impegno di Grazia, che si può approfondire una vicenda così complessa e coinvolgente. È alle nostre spalle. Dopo poco, al termine della legislatura al Senato, Grazia Zuffa, esce dalla politica partitica e istituzionale, volgendo la sua energia per un’altra fase del suo impegno politico nei luoghi più abbandonati e accidentati della vita: il carcere, le tossicodipendenze, gli ospedali psichiatrici… sempre con il suo approccio che vedeva nelle persone, ultime più ultime, “non vittime, quando andava bene, ma soggetti che hanno competenze e sapere sulla propria condizione”, (Cecilia D’Elia, nel ricordo in Senato 12 marzo 2025).

L’ultima fase al Senato fu caratterizzata dall’urto di “Mani pulite”, lei l’attraversa con la bussola del suo limpido garantismo, senza cedimenti al giustizialismo del tempo. Di nuovo una prova di autonomia. Così era fatta Grazia. Chi ha camminato con lei conosce bene la fortuna di averla incontrata. La memoria, quella collettiva e quella più intima, terrà Grazia ancora con noi. Avvalersi dei suoi pensieri “affilati, rigorosi, spiazzanti” la farà continuare a vivere nelle battaglie che continueremo insieme al suo amatissimo Franco Corleone. Ma che dolore.

18 Marzo 2025

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