L'ex dirigente comunista si è spento a 98 anni
Chi era Aldo Tortorella, l’ultimo togliattiano morto a 98 anni
Era un allievo di Banfi , studiava filosofia. Poi incontrò il Pci e il Pci lo travolse. Combatté le battaglie di Ingrao e di Berlinguer. Fu uno di quella generazione di comunisti, anima del riformismo vero
Editoriali - di Piero Sansonetti

Se ne è andato per ultimo. Già, Aldo Tortorella era l’unico sopravvissuto di quella generazione di ferro che guidò il Pci dopo Togliatti e trasformò l’Italia e la avvicinò al socialismo. È morto l’altra notte, aveva quasi 99 anni. Dopo Ingrao, Reichlin, Macaluso e Napolitano c’era solo lui ad avere vissuto quegli anni, quel clima, quelle conquiste, quelle batoste. Per molto tempo era stato il braccio destro di Berlinguer. “Caro vecchio” ti diceva quando ti incontrava, anche se tu magari avevi 30 anni. Un’espressione che ho sempre interpretato così: “Sei amico mio ma non prenderti troppa confidenza”. Era nato a Napoli ma era settentrionale, nonostante il nome. Era nato il 10 luglio del 1926, qualche anno dopo la fondazione del partito comunista. Gramsci era ancora libero, lo arrestarono qualche mese più tardi, a novembre.
Tortorella studiò a Milano, fece filosofia e fu allievo di Antonio Banfi, un professore che ebbe una grande influenza nella formazione dei comunisti milanesi. Banfi gli fece conoscere Husserl ed Heidegger. Tortorella voleva fare il filosofo ma poi incontrò quelli del Pci clandestino, soprattutto Eugenio Curiel che era il capo del “Fronte della Gioventù”. Così iniziò a impicciarsi di politica. Da clandestino. Spinto anche da Banfi. Si iscrisse al Pci nel 1943, quando aveva appena 17 anni. I fascisti lo beccarono e lo misero in prigione. Qualche anno fa, quando lo intervistati sul suo rapporto con Berlinguer, mi raccontò di quelle giornate passate in uno stanzone di San Vittore che era una cella per otto detenuti dentro la quale ne avevano stipati 25. Si stava in piedi. Turni per dormire. In un angolo, scoperto, c’era un gabinetto, ed era sempre occupato. Cimici, freddo, neanche una finestra. L’aria per respirare filtrava sotto la porta blindata. Aldo era gracilino e si ammalò. Febbre alta. I fascisti temevano che avesse il tifo e che contagiasse mezza prigione. Lo spedirono in ospedale, piantonato. Ma in ospedale c’era una cellula clandestina del Pci.
Poi uno si chiede come nacque la straordinaria forza del Pci nel Dopoguerra. Nacque così: durante la Resistenza era dovunque, e teneva insieme la parte più coraggiosa della gioventù. Anche uno dei piantoni era comunista. e una notte i compagni organizzarono la fuga. Aldo, di nuovo libero, andò a Genova e iniziò la lotta clandestina. Il nome di battaglia era Alessio, non saprei dire perché. Lo mandarono a preparare tutte le sere un foglio dell’Unità clandestina. Lui aveva 18 anni, ma aveva studiato, sapeva scrivere bene. Allora il Pci era soprattutto operaio, e gli operai, in gran parte, non erano andati a scuola.
Quando Genova insorse, e poi arrivarono gli americani e l’Italia tornò libera, Aldo restò all’Unità. Lo nominarono caporedattore. Aveva 19 anni, e qualche anno dopo fu mandato a Milano e lì diventò addirittura direttore dell’edizione milanese. A Roma il direttore era Ingrao. Poi fu chiamato al partito a fare il segretario della federazione di Milano, che aveva bisogno di giovani che si staccassero dalla vecchia scuola stalinista capeggiata dal mitico Alberganti. C’era lui, c’era Rossana Rossanda, c’era Armando Cossutta. Tutti avevano poco più di vent’anni. La grandezza di Togliatti, probabilmente, più ancora della sua capacità di teoria politica e di strategia, fu quella di aver saputo formare un gruppo dirigente formidabile. Credo che nessun altro partito, nel secondo Dopoguerra, abbia mai avuto un gruppo dirigente così vasto e forte dal punto di vista intellettuale. Non solo in Italia: in tutta Europa.
Quando Togliatti morì, nel 1964, il Pci si divise. Da una parte c’era la cosiddetta destra, guidata da Giorgio Amendola, che più tardi sarebbe stata battezzata “migliorista”, dall’altra parte la sinistra di Ingrao. Amendola mostrava interesse per il centrosinistra e immaginava una fusione col Psi. Ingrao rompeva con Mosca (ma non con Mao) e spingeva verso un Pci movimentista, rivoluzionario e pensava ad un alleanza con i cattolici del dopo Concilio. Tortorella stava con Ingrao. All’XI congresso del Pci, nel 1966, lo scontro fu frontale e Ingrao perse. Tortorella però, come pure Occhetto, si erano defilati dalla battaglia. Già pensavano all’ipotesi di costruire un centro che prendesse in mano il partito. Gli ingraiani furono sbaragliati e molti di loro “degradati”. I “riformisti” però, frenati da Longo, non riuscirono a prendere il potere. E quando si trattò di scegliere il nuovo leader, successe che il luogotenente di Amendola, Giorgio Napolitano, fu sconfitto da Enrico Berlinguer, che era riuscito, all’XI, a non partecipare alla battaglia e che era considerato un togliattiano puro, ma più liberal.
A quel punto Tortorella torna in prima linea, al fianco di Berlinguer, e lì resta fino alla morte di Berlinguer. Fa il direttore dell’Unità, per cinque anni, e poi diventa il numero due del partito, alternandosi in questo ruolo con Chiaromonte. Dopodiché arriviamo alla terza parte della sua vita. Che inizia quando ha quasi 70 anni. Achille Occhetto (che era diventato segretario del partito dopo la morte di Berlinguer e l’interregno di Natta) al quale Tortorella era legato, decide di sciogliere il Pci e di rompere con la parola comunismo. La destra lo appoggia. Tutta o quasi: si dissocia Giancarlo Pajetta, padre nobile del partito. Si oppone naturalmente la piccola componente stalinista, guidata da Cossutta, ma si oppone soprattutto Pietro Ingrao che prende la guida del dissenso.
I berlingueriani sono quasi compatti con Occhetto. Solo poche eccezioni: Adalberto Minucci e , appunto, Tortorella. Che torna a fare asse con Ingrao e guida la battaglia congressuale, che ovviamente perde, ma ottenendo un risultato molto forte, oltre il 30 per cento dei delegati. Una parte dei dissidenti, ma non Tortorella e Ingrao, fonda Rifondazione comunista, che tiene insieme due correnti politiche molto distanti tra loro: gli stalinisti di Cossutta e i movimentisti ingraiani, in gran parte liberal, di Magri, Castellina, Bertinotti, Garavini. Invece Ingrao e Tortorella restano nel nuovo partito, il Pds. Ingrao solo per un paio d’anni, Tortorella fino a quando, nel 1999, il Pds appoggia la guerra e poi l’invasione della Serbia da parte della Nato.
La morte di Tortorella scrive la parola fine su un pezzo decisivo della storia della Repubblica. Era l’ultimo testimone di una generazione grandiosa, che ha spinto l’Italia a riforme profondissime, che ne hanno cambiato il volto e l’ossatura sociale. È il Pci che insieme alla Cgil di Lama e Trentin, ha guidato le lotte sindacali degli anni ‘60 e ‘70, che hanno cambiato i rapporti di forza tra movimento operaio e borghesia. È il Pci che ha imposto grandi riforme sociali, come quella della sanità, l’equo canone, i patti agrari, la legge Basaglia, l’aborto, il divorzio. È il Pci che ha spinto per una forte riduzione delle diseguaglianze sociali, per l’università aperta a tutti, per nuove forme di egualitarismo. Una mole incredibile di riforme che oggi, in gran parte, sono state smantellate.
Da almeno 30 anni la spinta all’uguaglianza è stata rovesciata nel suo opposto, e oggi l’Italia è uno dei paesi più ingiusti in tutto l’Occidente. Non era così fino agli anni ‘80. Però a quei ragazzi di Togliatti noi dobbiamo molto. Alla loro cultura, alla loro capacità di fare politica, intendendo la politica come lotta, conflitto, e non sopraffazione e lucro. Caro vecchio Tortorella, caro Direttore (mi assunse lui), magari ti saresti offeso se te l’avessi detto. Ma è così: tu, voi, siete stati gli unici riformisti veri nella storia di questa Repubblica.