Il ricordo

Chi era Pietro Ingrao: leader fragile, timido e geniale

“Volevo la Luna” è il titolo del libro autobiografico che è stato ristampato e va in libreria. Goffredo Bettini, che è stato suo amico e allievo, ci racconta il profilo umano e politico di un comunista fuori da tutti gli schemi

Politica - di Goffredo Bettini

22 Febbraio 2025 alle 12:00

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@Archivio Publifoto/Lapresse
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In occasione della ristampa del libro “Volevo la Luna”, è utile tornare sulla figura umana e politica dell’autore, Pietro Ingrao. Gli sono stato amico fin da giovanissimo: dai primi anni Settanta, quando militavo nella federazione giovanile comunista di Roma. Introdotto nella sua casa dal figlio Guido, compagno di lotte giovanili. È difficile dire quanto debba a Ingrao: guida autorevole, rigorosa, assidua e amorevole per decenni. Ci fu silenzio tra noi per tre anni, dopo la svolta del Pci nell’89, che divise le nostre strade. Scelsi il “sì” con sofferenza e poca convinzione. Egli scelse il “no”, certo che la parola “comunista” non fosse affatto esaurita o riferibile solo all’esperienza dei Paesi dell’Est; piuttosto, sebbene tradita, rimanesse viva come orizzonte di liberazione umana.

Quei tre anni sono stati difficili. Poi, quando lasciò la Camera nel 1992, gli dedicai un lungo articolo su “Paese Sera”. Traboccava d’affetto e coglieva la complessità del suo cammino. Scrissi che in lui vi erano “l’incanto e il disincanto”. Mi inviò, subito dopo, una lunghissima lettera (successivamente decidemmo di pubblicarla, con una mia risposta) nella quale confidò che raramente aveva avvertito cogliere così bene un aspetto decisivo del suo animo: la passione del “fare” e, contemporaneamente, il desiderio di appartarsi, di immergersi nella quiete del “convento”. Arrivò a dire: sono “scisso”, amo tenacemente la lotta terragna per sollevare le condizioni degli ultimi e degli “offesi” e mi impiccio persino della tattica; eppure, in certi momenti sorge in me un senso di lontananza e non appartenenza a questo mondo.

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Tale contraddizione, andando avanti negli anni, è sembrata a me, sempre più bruciante e attuale. Ingrao è stato un uomo passionale, basta pensare ai suoi comizi, veri riti di trasmissione reciproca di forza tra chi parla e chi ascolta. Le passioni lo attraversavano e scuotevano il corpo, oltrepassando, tuttavia, i confini della pura politica e interrogando il senso intero della vita. Ingrao è stato il comunista italiano più consapevole della necessità di inoltrarsi in territori mai prima calpestati: la psicanalisi, il femminismo, le rivolte giovanili, il cinema, la letteratura europea più azzardata nell’avvertire la crisi dell’Occidente e quella americana, innovatrice nella scrittura e nella rappresentazione della realtà.

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Se Ingrao ha “dubitato”, non è per una incertezza nelle scelte politiche. Anzi, quelle che ha compiuto (giuste o sbagliate) sono state nette e mai furbesche. E le ha pagate. Il suo dubbio è stato più radicale. Ha riguardato la pochezza degli stessi strumenti della politica per rappresentare le luci e le ombre dell’esistenza. Una strutturale incapacità di cogliere l’essenza dell’umano e del vivente non umano. La “scissione” di Pietro si risolveva, non di rado, nell’equilibrio fragile, ma risolto e suggestivo, delle sue poesie. In quella dimensione, i due mondi che viveva contemporaneamente si incontravano e interagivano.

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Un giorno mi propose di prendere un gelato a via Cola di Rienzo, in un noto bar, con tanti tavolini all’aperto. Appena seduti, tentai di allacciare la conversazione, come eravamo abituati a fare con assoluta informalità. Era assorto e pensoso. Al mio incalzare, mostrò insofferenza. Ad un certo punto, laconico, mi disse: “Restiamo in silenzio e guardiamo per un po’ la gente che passa”. Sorpreso, mi adeguai. Dopo una quindicina di minuti, senza fronzoli, esclamò: “Hai osservato l’umanità che ci è passata davanti? Che ne sappiamo noi di loro? Conosciamo o intuiamo le loro speranze, i loro dolori, i loro desideri più intimi, la loro condizione esistenziale?”. Poi continuò: “Caro Goffredo, non sappiamo nulla. E con il nostro mestiere sarà difficile, anche in futuro, poterlo indovinare”.

Un’altra significativa occasione fu sulla terrazza del Parlamento. Nel periodo in cui era Presidente della Camera, andavo quasi tutti i giorni a pranzo da lui. Qualche volta, mi capitava di andare anche di sera. Dopo una cena, volle farmi ammirare il panorama notturno di Roma, dal punto più alto del palazzo di Montecitorio. Capitò in una notte bellissima e piena di stelle. Pietro, lasciando divagare le parole, mi invitò a riflettere sull’immensità delle distanze che ci separano dal fondo dell’universo. Miliardi di anni luce. Una vastità impensabile. “Ci affaccendiamo ogni giorno per migliorare le cose e renderle più giuste. Eppure, siamo un pulviscolo. Apriamo conflitti, spargiamo sangue con le guerre”. Mi sembrò richiamare, con queste parole, Leopardi. Il mio anziano maestro voleva intendere che sarebbe stata necessaria, di fronte all’imponenza dell’oscurità che incombe su di noi, una “social-catena”. Una fraternità che, invece, manca. Un rifiuto radicale della guerra, che aborriva e le cui immagini in tv lo portavano a commuoversi.

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Per Ingrao, lo spazio che va oltre la politica era indispensabile alla politica stessa. È stato un dirigente immerso totalmente nella storia del Novecento. Conosceva bene gli effetti di una politica totalizzante. Titanica. Con la pretesa di modellare gli esseri umani secondo le proprie aspettative. Dando parametri e misure al respiro interiore che Ingrao considerava, invece, “irriducibile e smisurato”. Mi scrisse: “Il mondo ci esamina ogni giorno come fossimo sempre alla visita di leva”. Le idee generali pretendevano di sovraordinare la parte sfuggente, libera, per certi aspetti sacrale dell’umano. Quello che è sembrato ad alcuni un sognatore affascinante ma privo di concretezza, fu nei fatti il più lucido e realistico leader della sinistra, in grado di vedere le fragilità della politica e della democrazia. Cogliendone la serialità e il linguaggio che, alla fine, taglia qualcosa di importante; lasciandolo in sospeso a cercare altre vie, carsiche, per manifestarsi.

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Ingrao è stato incessantemente alla ricerca di una vita autentica, per sé e per gli altri. Amava la vita. Si incaponiva a viverla, con disciplina e, tuttavia, in tutte le forme a lui gradite. Il tennis, le lunghe passeggiate, il mare di Sabaudia, del Circeo, di Sperlonga, il cibo semplice ma gustoso, l’arte e il piacevole conversare con gli amici e le compagne e i compagni. Ha onorato la vita. Non sfuggendo le domande prive di risposta certa. Accettando il mistero che ti condiziona e inquieta, smorzando la presunzione di onnipotenza, fonte di ogni sopruso.

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Il suo “pensare”, anzi il suo “sentire”, è quanto mai utile nell’arena dei conflitti e degli sconvolgimenti dell’oggi. Il capitalismo finanziarizzato, per riprendere un concetto di Marx, ha “cosizzato” il mondo. Il vissuto umano sta lasciando il campo alle merci, al puro calcolo, al prezzo rispetto al valore, alla volontà di sostituire intere parti del corpo della nostra specie, al dominio di pochi, all’esaltazione guerresca. Rendendo i cittadini semplici consumatori e vana la parola democrazia. La vittoria di Trump ha spettacolarizzato ciò che da anni è avanzato nelle pieghe della storia. Mario Tronti dialogò, in particolare nella fase finale della vita, con i monaci appartati nei conventi.

Pietro Ingrao, come ho ricordato, il convento “lo invocava” come spazio di libertà. Non è un caso: a fronte dell’annientamento della vita autentica, il cristianesimo e il socialismo si possono incontrare o, almeno, cercare; per frenare il nichilismo e rilanciare un “oltre” alternativo al presente. La tecnica si è autonomizzata totalmente e si determina a partire da se stessa. Un gruppo di miliardari gestisce a proprio vantaggio le occasioni che essa velocemente determina. Il resto del mondo assiste, ignaro e sottomesso. Questo scenario è opprimente. La stanchezza contagia gli esseri umani. Si moltiplica il disagio mentale, soprattutto tra i giovani. Vedremo che sorte avrà in futuro l’intelligenza artificiale. Ma essa, sostituendo le operazioni mentali della nostra specie, spingerà verso la pigrizia dell’animo, spingendo alla trasformazione di tutti nell’”immobile pietra”. Avrà prevalso, così, l’istinto di morte. Quel desiderio inconscio, di cui parlava Freud, a tornare nella pace e nel silenzio della materia inanimata.

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Leggere Ingrao, nell’attuale temperie, è respirare a pieni polmoni. Ergersi a spirito libero. Aperto all’esperienza del “fare” e del meditare. Leggere Ingrao svela la natura del potere, tanto più di quello dei nostri giorni che richiama la brutalità metallica della forza materiale, piuttosto che l’anelito umano del ricordo e del sogno.

22 Febbraio 2025

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