L'Europa messa in ginocchio dai dazi
Draghi fa squadra con l’Ue, ma Meloni gioca per Trump…
Servirebbero investimenti comuni per 800 miliardi all’anno. È questa la terapia d’urto per contrastare la decadenza, dice l’ex premier. Ma l’irruzione del tycoon favorisce i sovranismi e le divisioni di cui Giorgia è maestra
Politica - di David Romoli

I nobili valori dell’Europa ci sono e Mario Draghi non manca quasi mai di citarli. Le esigenze della difesa possono esserci, non perché l’orso russo stia per avventarsi su Berlino o Roma ma perché in una fase di profondissimi stravolgimenti come questa tutto diventa possibile: Draghi le ha brandite come argomento risolutivo. Ma ci sono soprattutto gli interessi ed è soprattutto su quel tasto che ha battuto due giorni fa, di fronte all’europarlamento, l’ex presidente della Bce.
Il mondo di oggi è tutt’altro da quello nel quale l’ex premier italiano aveva stilato il report sulla competitività ed è lo stesso autore ad ammetterlo. La ricetta rimane però la stessa: integrazione a passo di carica, agire come se si fosse uno Stato per diventarlo domani davvero. Basta con i lacci e i lacciuoli, col “dire no a tutto” altrimenti il mercato interno collassa, affondato dall’irruzione della produzione cinese che, ostacolata sul mercato Usa dai dazi, non potrà che rivolgersi a quello europeo, inondandolo. Difesa comune perché presto resteremo soli e soli, in questo caso, vuol dire impotenti in una sfida nella quale di nuovo il peso delle cannoniere sarà decisivo per orientare i flussi del commercio. Se vuole sopravvivere come Unione, ma anche e soprattutto se vuole restare ricca, la vecchia Europa deve darsi una mossa e spendere oggi per incassare domani. Spendere tanto, tantissimo, 800 miliardi all’anno se va bene, impensabile senza il debito comune.
- Vertice di Parigi sull’Ucraina, Meloni da Macron tra dubbi e ambiguità: boccia il formato e si schiera con Vance
- Dazi, Trump annuncia la guerra all’Europa: anche l’Italia colpita, a rischio 44mila imprese e costi fino a 7 miliardi
- Cosa prevede la pace di Trump in Ucraina: UE e Ucraina messe all’angolo
Super Mario conosce a fondo le magie dell’opportunismo. Sa bene che solo le crisi, come profetizzava già Prodi 25 anni fa, possono smuovere gli egoismi nazionali e costringere i Paesi europei a muoversi più in fretta. Lui stesso ha dato il primo esempio, sfruttando la crisi dei debiti sovrani per imporre il suo “Whatever It Takes”. Un secondo passo, peccato che solo in via eccezionale, è stato fatto grazie al Covid e resta modello brillante a parte il fatto che tra un applauso e un altro molti e molto potenti non vogliano imitarlo. Ora in ballo c’è qualcosa in più di una semplice crisi e Draghi ci riprova, con tutto l’impeto di cui è capace. Chiedersi se a muoverlo siano gli alti ideali europeisti o il calcolo secco dei vantaggi e dei potenziali danni sarebbe ozioso: per Draghi i due aspetti sono perfettamente sovrapponibili, perennemente inseparabili, e probabilmente ha ragione.
Ma sulle chances di successo è probabile che lo stesso ex presidente della Bce sia ben poco ottimista. La realtà è che, dietro il paravento della retorica ufficiale, l’Europa affronta il momento più difficile della sua storia come Unione europea, tanto difficile da non essere neppure immaginabile sino a pochissimo tempo fa, tenuta al palo dalle corde spesse dei soverchianti interessi nazionali. Per la Germania la guerra in Ucraina è stata il colpo sotto la cintura dal quale non sa come riprendersi. Che segua le fantasie belliche di Macron non è improbabile ma impossibile. Lo sarà ancora di più dopo le elezioni di domenica, perché comunque vadano l’affermazione di AfD ci sarà e figurarsi se qualcuno vorrà offrire alla forza di estrema destra in ascesa un nuovo piedistallo per ulteriori balzi. La Spagna ha già fatto sapere che a portare le spese militari al livello folle del 5% del Pil non ci pensa neppure. Si potrebbe continuare non all’infinito ma almeno per 27 voci: tante quanti sono i Paesi dell’Unione, arrivando a 28 con la Gran Bretagna.
Per la premier è un nuovo dilemma, l’ennesimo. L’europeismo scoperto solo dopo essersi insediata a palazzo Chigi continua a pagarla. Il sostegno della Commissione europea al suo progetto di esternalizzazione della barriera anti-immigrazione, del quale il protocollo con l’Albania dovrebbe essere solo il prologo, è un aiuto prezioso in un capitolo sin qui fallimentare. L’accordo con l’Albania sinora è costato molto, in soldi e in credibilità, senza restituire nulla. Con Draghi, poi, è sempre andata d’accordo e anche nel vertice di Parigi ha chiesto di cogliere lo shock rappresentato da Trump come un’occasione per prendere sulle proprie spalle la responsabilità della propria autodifesa: “Dobbiamo farlo non perché ce lo chiede l’America ma perché serve a noi”. Ma nessuno, a palazzo Chigi come del resto al Quirinale, nasconde quanto poco probabile sia fare in poche settimane quel che non si è riuscito a fare nei decenni. Giorgia non spaccherà l’Europa ma se scatterà la corsa al grido di “Ognun per sé” è già piazzata in pole position e pronta allo scatto.