Le 170 proposte dell'ex premier
Tutti i problemi dell’Ue secondo Draghi: “Se non cambia è spacciata”
Un report composto da 170 proposte che individua i mali dell’Ue: zero innovazione, no al green dei sovranisti, mancanza di difesa comune
Politica - di David Romoli
La sfida è “esistenziale”. Se non la si vince l’Unione europea si avvierà lentamente verso l’agonia, costretta a scegliere tra “il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà”. Per vincere quella sfida serve “un cambiamento radicale” e non in un incerto futuro ma subito perché, sottolinea Mario Draghi presentando in conferenza stampa con Ursula von der Leyen il suo report sulla competitività, “non c’è bisogno di aspettare un nuovo Covid o una nuova crisi: siamo già in modalità crisi. Non riconoscerlo significa ignorare la realtà. Dobbiamo abbandonare l’illusione che solo rimandando si possa preservare il consenso. La procrastinazione ha solo prodotto una crescita più lenta e di certo non ha prodotto consenso”.
Dunque è “il momento di agire” e le 170 proposte contenute nel suo rapporto sono l’azione possibile. Una rifondazione politica dell’Unione europea ammantata da catalogo di necessità tecniche urgenti. Tecnico era del resto il Rapporto sulla competitività commissionato all’ex presidente della Bce dalla presidente uscente e rientrante della Commissione Ursula von der Leyen. Draghi ci ha lavorato un anno, fornendo a tratti eloquenti anticipazioni. Lo presenta in due versioni, quella riassuntiva non va oltre una sessantina di pagine, quella dettagliata, proposta per proposta, arriva a 300. Prima di lui, mesi fa, aveva presentato il suo rapporto sul mercato europeo Enrico Letta: procedono in parallelo, convergono nelle conclusioni.
I pilastri che richiedono intervento drastico e profondissimo per Draghi sono tre: l’innovazione tecnologica, la riconversione energetica e la difesa. Sul primo capitolo i dati parlando da soli: tra le 50 aziende di tecnologia avanzata più importanti solo 4 sono europee, il divario di crescita tra Usa e Ue è passato in meno di 25 anni dal 15 al 30%, e il 30% delle startup europee con valore da un miliardo di dollari in su negli ultimi anni ha veleggiato verso altri lidi, di solito proprio gli Usa. La dipendenza tecnologica è schiacciante: l’importazione di chip dall’Asia sta tra il 75 e il 90%. Non è che se non ci si dà una mossa l’Unione sarà lasciata indietro. L’Unione è già stata lasciata indietro.
Sulla decarbonizzazione la Ue si è data obiettivi adeguati e ambiziosi. Ma senza una strategia adeguata e senza i mezzi per trasformarla in realtà la riconversione energetica rischia di frenare “competitività e crescita”. Certo, l’Europa sconta la mancanza di materie prime ma sconta anche l’incapacità di dotarsi di un vero mercato comune integrato (falla già denunciata con toni persino più definitivi e allarmati da Letta nel suo rapporto). È per questo che industrie e famiglie “non riescono a cogliere appieno i benefici dell’energia pulita” ed è sempre per questo che “tasse elevate e rendite elevate aumentano i costi dell’energia per la nostra economia”. Quel che l’ex premier italiano non dice, ma è sottinteso, è che tra le conseguenze di questa incapacità di rendere la decarbonizzazione vantaggiosa per cittadini e industrie c’è anche quella levata di scudi contro il Green Deal che sta gonfiando le vele dei partiti sovranisti e antieuropeisti.
La difesa, fondamentale anche per l’economia perché senza sicurezza non ci sono investimenti, è un paradosso. L’Europa spende per la difesa e spende tanto, più di chiunque altro a eccezione degli Usa. Ma spende male perché ciascuno fa da sé e questa produzione “frammentata” fa sì che mentre gli Usa hanno razionalizzato e producono un solo modello di carro armato l’Unione ne produce 12 tipi diversi e non è in grado di lanciare una vera “produzione su vasta scala”. In apparenza Draghi ha illustrato un quadro oggettivo e suggerito sia a grandi capitoli che paragrafo per paragrafo i passi necessari per affrontarlo e uscire dalla crisi invece che sprofondarci fino al collo e irreversibilmente. Ma quel quadro maschera e postula una rivoluzione politica. L’intervento drastico sui tre settori individuati dal rapporto richiede un aumento di fondi di dimensioni inaudite, pari “a cinque punti percentuali di Pil in più, il doppio del Piano Marshall”.
In soldoni costerà, o costerebbe, 800 miliardi all’anno. Le esigenze sia del recupero sul fronte della tecnologia avanzata che su quello della decarbonizzazione, per non parlare dell’esercito, non sono nemmeno vagamente raggiungibili senza un potenziamento senza precedenti della cooperazione rafforzata e senza una svolta nell’integrazione del mercato. Il modello di governance attuale è solo un ostacolo che rende ogni decisione lentissima, in media 19 mesi per legge, e deve fare i conti su tutto con il parere vincolante di ciascun Paese membro. Draghi ipotizza pertanto la marcia che possa fare a meno di chi punta i piedi, la definisce “una coalizione di volenterosi”.
Non è tecnica, è politica. Nessuno obietterà sulle mète e sugli obiettivi intermedi indicati da Mario Draghi. Tutti, chi più chi meno, giureranno di volerli raggiungere a tutti i costi. Ma la realtà è opposta. A ostacolare il debito comune o il mercato integrato non sono i Paesi sovranisti, quelli di cui la “coalizione dei volenterosi” potrebbe fare a meno. Sono le locomotive dell’Unione, Germania in testa. Senza aver prima ragione di resistenze che sono politiche e forse anche culturali ma certo non tecniche lo sforzo di Draghi e Letta resterà encomiabile ma inutile.