Il leader dell’area liberal Pd
“Svegliare Europa e destre liberali, ecco la missione dei progressisti contro le nuove autocrazie”, parla Morando
«Dietro le sparate di Trump su Groenlandia e Panama c’è l’idea di tornare divisione del mondo per aree di influenza delle grandi potenze. Non conviene a nessuno e le forze progressiste devono farlo emergere»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

Enrico Morando, leader dell’area liberal del Partito democratico, già viceministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni: c’è fermento nel PD. Soprattutto nell’area riformista. Sabato si svolgerà ad Orvieto l’assemblea nazionale di Libertàeguale di cui lei è presidente. Siamo ad un riammodernamento del vecchio correntismo o c’è di più?
Prima di venire alla assemblea di Orvieto, mi faccia fare due precisazioni. La prima, riguarda il giudizio sulle correnti interne ai partiti e sulla loro degenerazione (il correntismo). Un grande partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria, che aspira a rappresentare la maggioranza dei cittadini e pensa se stesso come asse di una credibile alternativa di governo al centrodestra, deve avere al suo interno correnti ben organizzate, ciascuna dotata di un suo specifico profilo ideale e programmatico. Senza, il partito perde capacità di rappresentanza e indebolisce la forza di penetrazione delle soluzioni che propone per i problemi del Paese. Deve trattarsi di correnti leali e prevedibili. Leali, perché si riconoscono senza tentennamenti nel sistema di regole che innervano la vita democratica del partito. E prevedibili, perché la loro esistenza e attività nel partito è animata da un sistema trasparente di principi e obiettivi che -pur rinnovandosi a fronte del mutamento della realtà- hanno radici profonde in una specifica cultura politica.
Pensa forse che le correnti dell’attuale PD siano state o siano poco leali e poco prevedibili?
Beh…, quanto a lealtà, due scissioni ad opera dei leader sconfitti in regolari congressi sembrano testimoniare che qualche problema ci sia. Mentre troppe componenti interne faticano a definirsi se non ricorrendo al cognome della persona che le dirige.
E la seconda precisazione?
La seconda riguarda Libertà eguale. È un’associazione politico-culturale che celebra quest’anno il suo 25º compleanno. Oggi è diretta da un presidente iscritto al PD, come molti altri soci. Ma è stata diretta per molti anni da un intellettuale socialista come Luciano Cafagna; tuttora annovera tra i suoi aderenti molti che sono iscritti ad altri partiti del centro-sinistra e un numero ancora maggiore di persone non iscritte a nessun partito. La nostra assemblea annuale -dalla fondazione fino ad oggi- è la sede di un confronto aperto sulle politiche e sulla politica del centrosinistra. Non è dunque una corrente del PD, non fosse altro perché è nata ben otto anni prima. Naturalmente, data la funzione che il PD può svolgere per la costruzione di una credibile proposta di governo del centrosinistra, ci occupiamo del PD, della sua politica e delle sue politiche. Abbiamo un’ambizione molto alta: costruire occasioni e sedi per un coordinamento politico dei riformisti di centrosinistra, dentro e fuori il PD e gli altri partiti del centrosinistra stesso, allo scopo dichiarato di aiutarli a definire ciò che ancora non c’è: una credibile, visionaria e realistica piattaforma per il governo del Paese nell’attuale contesto europeo e globale, profondamente mutato in un breve volgere di tempo. Ad Orvieto, domenica mattina, ne parlerà Michele Salvati, l’intellettuale che ha svolto una funzione decisiva nella lunga (e purtroppo ancora incompiuta) fase di costruzione, anche in Italia, di una matura sinistra di governo.
Il 2024 ha lasciato in eredità all’anno appena entrato, guerre, diseguaglianze, un disordine globale. E i progressisti?
Si è aperto uno scontro tra democrazie e autocrazie: la posta in gioco è il disegno di un nuovo ordine globale. L’amministrazione Biden si è mossa con decisione e -fedele ad un approccio multilaterale- ha lavorato alla costruzione di una grande alleanza delle democrazie, trovando consenso sia in Europa, sia nell’area del Pacifico. Con l’elezione di Trump questo approccio potrebbe cambiare radicalmente. Le “sparate“ su Groenlandia, Canada e Panama sono gravi in sé, ma soprattutto per il sistema di idee che le sorregge…
Vale a dire?
Il ritorno alla divisione del mondo per aree di influenza delle grandi potenze. Ma, se è così, con quale credibilità le grandi democrazie dell’Occidente possono contrapporsi alle pretese di Putin sull’Ucraina (fino alla guerra di aggressione) e della Cina su Taiwan? Senza contare che in Africa, Medio Oriente e America Latina, se non ci sono grandi potenze, ci sono un gran numero di Paesi (e di Governi) che nutrono ambizioni territoriali sui vicini che la teoria delle “sfere di influenza“ incoraggia ed alimenta. Proprio perché è aperto il problema di definire una nuova architettura di sicurezza alla dimensione globale; e proprio perché le autocrazie non nascondono l’ambizione di ridisegnare un nuovo equilibrio a propria immagine (esattamente come quello che è entrato in crisi era disegnato su principi di tipo liberale applicati alla dimensione sovranazionale), l’idea di Biden dell’alleanza delle democrazie era in grado di mantenere un approccio multilaterale in un contesto in cui, realisticamente, faceva valere, per rispondere alla sfida delle autocrazie, una logica di potenza. Quando Trump arriva a minacciare le democrazie alleate (la Danimarca), sembra voler travolgere in una volta sola sia il multilateralismo, sia le più consolidate alleanze, comprese quelle militari. Poiché la destra più radicale -al governo in molti paesi dell’Occidente-, mostra verso queste posizioni di Trump qualcosa che oscilla tra imbarazzo e aperta condivisione, è indispensabile che siano i progressisti a farsi carico di una duplice iniziativa politica: verso le forze del centrodestra liberale e verso l’opinione pubblica dei Paesi democratici, per far emergere che non è nell’interesse di nessuno -nemmeno degli Stati Uniti d’America- accettare la logica che le autocrazie vogliono mettere a base del nuovo ordine mondiale. Contemporaneamente, spetta ai progressisti la parte più rilevante dell’iniziativa per svegliare l’Europa dal suo sonno del “lasciateci in pace“: la nostra sicurezza non è più garantita a piè di lista dagli Stati Uniti. L’energia a basso costo non arriva più dalla Russia. Le nostre economie non possono più essere trainate dall’export (Germania).
2025: cosa resta del sogno europeista?
“Non siamo in guerra, ma non siamo neanche in pace“. Ulf Kristersson, Primo Ministro svedese, si è riferito al suo Paese, ma è legittimo ritenere che questo giudizio valga anche per l’Unione Europea. Il nuovo mondo, di cui abbiamo appena parlato, obbliga l’Unione a porsi realisticamente di fronte ad una alternativa secca: creare una nuova sovranità compiutamente europea, e costituirsi così come uno dei grandi protagonisti del nuovo ordine globale (e della relativa architettura di sicurezza); oppure rassegnarsi alla servitù verso quei Paesi che grandi potenze lo sono già e quindi dispongono del potere sovrano necessario. Per anni, noi federalisti europei -culturalmente figli del processo di costruzione dell’assetto federale negli Stati in cui esso si è affermato- abbiamo insistito sulla “cessione“ di sovranità dagli Stati membri agli organismi comunitari. Gli “Stati Uniti d’Europa” avrebbero dovuto nascere da questo processo. La realtà ci costringe oggi ad un cambio di paradigma: in tema di sicurezza, quale sovranità è ora in grado di esercitare anche il più grande degli Stati europei? Risposta onesta: come singolo, nessuna. Spende tanti soldi per finanziare uno strumento militare molto complesso? Verissimo. Ma quei soldi restituiscono più nulla che poco, in termini di sicurezza… Si potrebbe dire lo stesso della politica industriale nei settori ad altissima tecnologia (Rapporto Draghi). O per l’organizzazione dei nostri mercati dei capitali (Rapporto Letta). In questi campi cruciali, non c’è sovranità da cedere. C’è sovranità da costruire. Ad Orvieto ne parleranno, oltre a Claudia Mancina nella relazione introduttiva, Giorgio Tonini e Paolo Gentiloni.
L’ultimo atto parlamentare del 2024 è stata l’approvazione della Legge di bilancio. Un suo giudizio?
Si è molto insistito sul fatto che non fa danni. Date le premesse (meglio: le promesse di Salvini in tema di pensioni), è un giudizio che ci sta. La stabilizzazione dell’intervento dei Governi precedenti sul cuneo fiscale e contributivo è una scelta giusta. Sulle riforme, però, è tutto un rinvio al 2027. Ma la realtà -non sempre, ma spesso- si vendica: così il Governo si è costruito in casa il pasticciaccio brutto sulle pensioni (se si comincia promettendo di “cancellare“ la legge Fornero, non ci si può lamentare se si inciampa di brutto sull’innalzamento automatico dei requisiti di età). C’è però una perla che vale la pena di esaminare più puntualmente: un emendamento presentato da relatori e Governo nelle ore immediatamente precedenti il Natale proroga di 20 anni le concessioni delle reti di distribuzione elettrica. Secondo il decreto Bersani del 1999 queste concessioni dovevano scadere nei prossimi anni e avrebbero dovuto essere riassegnate a seguito di gare. Perché si è agito nottetempo, nel silenzio distratto di tutti (comprese le opposizioni)? Perché la soluzione adottata è letteralmente scandalosa: è vero, infatti, che i concessionari pagheranno un contributo una tantum. Ma la stessa legge prevede che essi recupereranno questo contributo in tariffa, graziosamente maggiorata del (presunto) costo del capitale. Di fatto, saranno le famiglie e le imprese italiane a pagare agli azionisti delle società concessionarie (vecchie e nuove: è una proroga) qualche miliardo (miliardo, non milione) di euro. Anche di questo parleremo ad Orvieto: bollette e fiscal drag sui pensionati e i lavoratori a medio reddito. Un tentativo serio di recuperare un rapporto con la realtà, mettendo in secondo piano le battaglie iperidentitarie del “follemente corretto“ (Ricolfi).
La Segretaria del PD, Elly Schlein, ha criticato con forza un ingresso di Elon Musk nel nostro sistema di comunicazione satellitare. Condivide?
Se è vero che, in questo momento e ancora per qualche anno, non c’è alternativa a questo sistema di satelliti a bassa quota; e se è vero che abbiamo bisogno ora di questi servizi, le garanzie per il Paese non si trovano nel rifiutare qualsiasi rapporto con le società controllate da Musk, ma nel costruire condizioni contrattuali adeguate. Se queste condizioni non sono conseguibili, bisognerà fare a meno di questi servizi. Detto questo, la scelta strategica è quella di costruire soluzioni industriali e di sicurezza europee. Senza raccontarci -e farci raccontare- che “non ci sono i soldi”. La leader socialdemocratica danese, che nel recente passato liquidava come “totalmente assurde” le ipotesi di debito comune, oggi afferma: “Noi, come Governo danese, guardiamo al debito comune con nuovi occhi e nuovi occhiali…: questa è una nuova era”.