L'ex capo di Stato maggiore della Difesa

Parla il Generale Vincenzo Camporini: “Con Trump nessuna pace, caos e guerre aumenteranno”

“Una delle cause di questo disordine è il tempo troppo lungo che intercorre negli States tra le elezioni e insediamento del nuovo governo. L’Europa deve farsi vedere forte, soprattutto con l’Ucraina, per dimostrare la validità dell’Alleanza atlantica”

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

2 Gennaio 2025 alle 09:00

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Photo credits: Andrea Di Biagio/Imagoeconomica
Photo credits: Andrea Di Biagio/Imagoeconomica

Un anno in guerra, il 2024. Dall’Ucraina al Medio Oriente. Un lascito che marchia anche l’anno che è appena iniziato. L’Unità ne discute con il generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa, e prima ancora dell’Aeronautica militare, consigliere scientifico dello Iai (Istituto affari internazionali), tra i più autorevoli think tank italiani di politica internazionale e geopolitica. Nel suo campo, un’autorità assoluta.

Generale Camporini, il 2024 lascia in eredità conflitti irrisolti, dall’Ucraina al Medio Oriente, e un disordine globale che sa molto di caos armato.
Temo che il caos sia destinato ad aumentare: in particolare quello che sta accadendo in Siria (e che è accaduto in Iraq e in Libia) ci mostra una realtà sociale frammentata in comunità limitate, gelose della propria individualità e disposte a difenderla con ogni mezzo. Finora queste rivalità rimanevano dormienti sotto lo spietato dominio di un dittatore e con la vigilanza interessata delle grandi potenze. I dittatori sono stati via via estromessi – Saddam, Gheddafi, Assad – e nessuno se ne rammarica, ma il disordine in Iraq e in Libia dovrebbe fare riflettere. Trump ha già dichiarato che la questione non lo riguarda, Mosca ha deciso di togliere il disturbo, l’Iran deve leccarsi le ferite; restano le ambizioni egemoniche di Erdogan, ma una “pax turca” comporta in ogni caso un conflitto aperto con la comunità curda. Tutto ciò a prescindere dalle intenzioni di Netanyahu, che con ogni evidenza vanno al di là dello status quo. Questo quadro deve far riflettere sulla postura da assumere da parte di tutti i Paesi che hanno un interesse diretto o indiretto: al riguardo l’Italia risulta essere uno dei più vulnerabili, dal momento che la nostra è un’economia di trasformazione, che necessita di vie commerciali libere e sicure, in primis quelle marittime.

Il fronte ucraino. Siamo alla vigilia di una “pax trumpiana”?
Credo che una delle cause del disordine che constatiamo sia dovuto anche al tempo troppo lungo che negli Usa intercorre tra l’elezione del nuovo Presidente e il suo insediamento: una sorta di “tempo di nessuno”, dove ogni protagonista (ed ogni comparsa) cerca di conquistare un posto privilegiato per i futuri giochi politici. Dire che Trump è un’incognita è un’assoluta banalità: le sue azioni sono scarsamente prevedibili, ma rimane la sua chiara indole “commerciale”: farà solo ciò da cui pensa di trarre un utile. Putin non può sperare di trovare in lui un negoziatore arrendevole e deve prepararsi a ridimensionare sostanzialmente le sue pretese: non credo assolutamente che l’Ucraina sarà svenduta. Parallelamente i Paesi europei devono prepararsi ad un impegno diretto, sostanziale e di lungo periodo: sarà anche il modo di dimostrare a Trump la perdurante validità dell’Alleanza Atlantica, senza la quale gli Stati Uniti potrebbero dedicarsi efficacemente alla gestione della situazione strategica nel quadrante Indo-Pacifico. Su questo vale la pena di spendere due parole: un atteggiamento americano arrendevole nei confronti di Mosca potrebbe indurre Pechino a rompere gli indugi circa la questione Taiwan; ma l’Indo-Pacifico è ben più ampio, anche al di là della contesa per il Mar della Cina Meridionale. Si consideri ad esempio la situazione di guerra civile in Myanmar, il cui territorio si può rivelare di importanza vitale per la Cina, in quanto la sua disponibilità le consentirebbe l’accesso diretto all’Oceano indiano senza passare attraverso il choke point costituito dallo stretto di Malacca. Si tratta di problemi strategici per i quali gli Usa avranno bisogno di tutte le risorse disponibili, comprese quelle militari: ricordiamo al riguardo che già oggi la marina militare cinese ha un numero di navi da combattimento superiore a quello della Us Navy e che sta procedendo con determinazione alla costituzione di una capacità aeronavale basata su portaerei di grandi dimensioni. Il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky ha ammesso che l’Europa da sola non può garantire la sicurezza, nonché l’integrità territoriale, del suo Paese. Zelensky non fa che prendere atto di una situazione che è sotto gli occhi di tutti almeno da un quarto di secolo. Senza risalire alla Ced (Comunità europea di Difesa) – qualcuno ricorda le considerazioni di Altiero Spinelli? – , già nel 1999, dopo la palese dimostrazione di incapacità degli europei a gestire la crisi, e le guerre, balcaniche degli anni ’90, si decise la costituzione di capacità militari adeguate, decisione che naufragò miseramente negli anni successivi. La convinzione poi che l’era delle guerre classiche fosse ormai alle spalle indusse tutti i governi europei a ridurre drasticamente le risorse per le forze armate, ridimensionandole in modo sostanziale e, mentre in Ucraina si scontrano forze dell’ordine delle centinaia di migliaia di militari, Borrell propone la costituzione di una forza di intervento dell’Unione composta da 5mila unità. Le cose non vanno meglio per gli eserciti nazionali, dal momento che, come è stato ironicamente osservato, tutto l’esercito britannico, il celebrato British Army, ci sta comodamente sugli spalti dello stadio di Wembley. Non è migliore la situazione dal punto di vista puramente politico: è vero che finora gli europei nel loro complesso e l’Unione come istituzione hanno fatto molto per sostenere l’Ucraina, ma è altrettanto vero che all’orizzonte si vedono nubi poco rassicuranti: che accadrà in Francia e Germania nei prossimi mesi? Nasceranno governi che manterranno la postura attuale? Probabilmente sì, ma può Zelensky affidarsi a una probabilità? Non mi stupisce che per lui l’unica garanzia credibile resti quella della Nato.

Altro fronte caldissimo: il Medio Oriente. Il 2024 si è chiuso con la caduta in Siria del regime di Bashar al-Assad. Da più parti si sostiene che i grandi vincitori della partita siriana siano Erdogan e Netanyahu. È una lettura errata?
Io partirei dagli sconfitti, in primo luogo l’Iran, che da tempo immemore coltiva il sogno di riconquistare una storica egemonia regionale: basti ricordare la politica di potere anche militare impostata da Reza Pahlavi, che non ha certo rinunciato alla teocrazia al potere, al contrario l’ha rafforzata, passando da un’ottica secolare ad una alimentata dal contrasto religioso tra i seguaci di Ali, gli sciiti, e gli ortodossi sunniti. Il disegno strategico era chiaro: sfruttando le faglie interne al modo musulmano, allargare la propria zona di influenza fino al Mediterraneo, attraverso Iraq e Siria, in contrapposizione alle cosiddette monarchie del Golfo. In quest’ottica, per inciso, l’ostilità assoluta nei confronti di Israele può anche essere interpretata in senso strumentale per mobilitare le masse saudite ed emiratine contro i governanti al potere. Il crollo del regime di Assad costituisce un colpo ferale a queste ambizioni. Anche la Russia vede vanificato un suo disegno politico, quello di creare sulle sponde del Mediterraneo un santuario sicuro per le sue forze aeronavali. Al riguardo sembra prendere consistenza un piano B, con il trasferimento delle unità e dei propri sistemi sulle coste e nel territorio della Cirenaica, sfruttando i buoni rapporti con il generale Haftar: una prospettiva che deve tenere conto della perdurante instabilità politica della Libia e che comunque ci deve preoccupare, vista la prossimità con il nostro territorio e con i nostri interessi nell’area, in primo luogo quelli energetici su terra e off-shore. Netanyahu può ora più agevolmente perseguire il suo disegno di un allargamento dei confini con una qualche forma di annessione dei territori occupati, nei quali gli oppositori interni hanno buoni motivi di ritenere a rischio il supporto di Teheran, che li ha finora alimentati. Praticamente neutralizzata Hezbollah, con una Siria che nelle ultime settimane ha provveduto a disarmare con spregiudicate azioni militari, anche l’opposizione interna deve a malincuore ammettere i suoi successi, il che sta mutando il clima dell’opinione pubblica israeliana. Infine, Erdogan trae un doppio vantaggio, sia quello tattico, con la concreta possibilità di indebolire sostanzialmente la sfida curda, sia quello strategico, di imporsi come il vero dominatore regionale, in grado di sfidare gli altri attori, a partire dalla Russia: per lui la partita si gioca ora nel Caucaso (che può succedere tra Azeri e Armeni?).

Irrisolta è la tragedia di Gaza.
Gaza è una ferita incancrenitasi che potrà essere avviata a tempi meno tragici solo con un concreto impegno sul terreno prolungato di attori internazionali, purché a guida araba. Sono convinto che il potenziale ci sia e c’era già da ben prima: se Hamas non fosse stato accecato da uno sterile revanscismo, con tutti gli aiuti finanziari ricevuti negli ultimi due decenni Gaza sarebbe potuta diventare la Singapore del Mediterraneo, garantendo ai suoi abitanti un livello di benessere mai sognato. Ora la ricostruzione rende tutto più difficile, anche perché l’impegno finanziario sarà elevatissimo e la situazione globale non induce all’ottimismo circa le disponibilità da parte della comunità internazionale, già messa a dura prova dall’aggressione russa all’Ucraina. In primo luogo, dovrà essere affrontato e risolto il problema della leadership politica, per il quale al momento appare difficile intravvedere soluzioni e che è fortemente dipendente anche dall’atteggiamento politico del governo israeliano, al momento poco propenso a favorire evoluzioni pragmaticamente positive.

Generale Camporini, in questo mondo sempre più disordinato, l’Europa, e in essa l’Italia, fatica a giocare un ruolo significativo. Un declino inarrestabile?
Un declino dovuto a una assoluta carenza di leadership: tutti gli ingredienti per una rinascita della civiltà costruita nell’Europa Occidentale ci sono. Abbiamo una qualità della vita inimmaginabile solo settanta anni fa. Tuttavia, siamo del tutto passivi di fronte agli accadimenti globali, innamorati come siamo dei nostri particolarismi. Ma la strada è davanti a noi, chiara, ce l’ha ad esempio indicata Draghi: bisogna solo avere il coraggio di imboccarla.

2 Gennaio 2025

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