Il passato siriano
La storia della Siria, tra meraviglie e poesia: storia, cultura e dittature
Se oggi pensiamo a Damasco ci vengono in mente le guerre, i profughi, le dittature che hanno segnato la sua storia. Eppure la terra siriana è molto più di questo: culla della civiltà, multiculturalismo, arte, con i suoi poeti che ancora oggi, persino dall’esilio, ne cantano
Editoriali - di Dorella Cianci
Una sineddoche feroce e ingiusta avviene, fin troppo facilmente, per le terre segnate dalla guerra: la parte diventa il tutto. I morti, la fame, le ingiustizie prendono il sopravvento su ogni aspetto.
È quello che accade da anni in Siria, una delle regioni più antiche del Medio Oriente, con insediamenti umani che risalgono a circa 500mila anni fa.
La terra degli Assiri, dei Babilonesi, poi dei Persiani Achemenidi e degli imperi ellenistici. La terra che, ben più di altre, vanta un’eredità archeologica antichissima con Palmira, città carovaniera nel deserto, famosa per i suoi monumenti di epoca romana; Aleppo con la storia millenaria di epoca ittita, assira, ellenistica e ottomana; Apamea e poi la Stele di Hammurabi e i manoscritti del Mar Morto. Quanta bellezza divorata dalla guerra! Eppure, quando pensiamo a Damasco, ad esempio, dovrebbe venirci in mente la sua produzione artigianale, la grande architettura di epoca islamica, il multiculturalismo di un centro popolato da cristiani, ebrei e musulmani. E invece… Niente. Viene in mente solo l’assalto umano alla civiltà, la conseguente povertà, il Natale povero degli orfani, dei profughi, degli sfollati.
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La Siria sembra non esistere più, sembra essere il monumento a un passato glorioso finito male, sembra essere stata assorbita dai criminali che, di volta in volta, ne conquistano il potere con finte promesse, per poi mostrare il volto crudele. Anche se possiamo dire, con lucidità storica e politica, che la Siria non esiste nella sua unità, fin troppo divisa e dispersa nelle sue etnie, non dobbiamo sentirci autorizzati a dimenticare che, anche oggi, in quei territori divisi e impoveriti, esiste una ricca tradizione poetica che tenta di sopravvivere alle esasperanti condizioni sociali degli ultimi anni. Pensiamo al poeta Adonis, cantore dell’amore, uno dei più grandi poeti arabi viventi (tradotto e pubblicato, in Italia, da Guanda), esiliato dalla Siria negli anni 70 a causa delle sue posizioni politiche. Come sembrano sempre più attuali i suoi versi, la sua critica sociale verso i regimi autoritari del mondo arabo, mentre ogni poesia è permeata da quell’esperienza sconvolgente che è stato l’esilio. Scrive: «Io sono la voce che non ha voce/ la parola di ciò che non ha parola/ il grido di ciò che non ha grido/. Io sono l’eterno viandante, colui che non ha patria, colui che non ha dimora» e aggiunge «sono la ferita che non si rimargina/ la domanda che non trova risposta».
Questi versi dicono già tutto, descrivono un oblio che inghiotte la memoria e cancella i segni di un popolo eterogeneo tenuto insieme da un grande passato. Che cosa c’è in questi versi se non una profonda critica al regime degli al-Assad, condannando prima Hafez e poi suoi figlio Bashir alla nomea di “dittatore delle violazioni dei diritti umani”? Adonis ha guardato, come tanti, alle Primavere Arabe, ha espresso sempre simpatia per il progetto rivolto a un cambiamento democratico, esprimendo una visione di una Siria pluralista, che scelga la via dell’armonia fra le convivenze etniche e religiose. E oggi? Il nonsenso. Purtroppo questo sogno multiculturale pacifico non è affatto vicino e ondate di interessi strategici ricoprono il canto di un popolo multiforme, ma accomunato da tanta bellezza culturale.
Ad oggi, restano indelebili – e decisamente condivisibili – le parole di Alberto Negri: “La Siria è una partita geopolitica fondamentale, ma si compie sulla pelle di un popolo, come si è già verificato con i destini di altri della regione, dai palestinesi ai curdi agli iracheni”. Chiunque ha conosciuto la terra siriana non può che vedere una condizione attuale difficilissima, prima di ogni trionfalismo legato al regime change. Ed è proprio con questo sentimento che, ora più che mai, il mondo ha bisogno di conoscere i versi dei poeti siriani, l’epopea di quella Terra, che esprime il tempo attuale, i sogni e le disillusioni di un popolo frammentato, ma con una grande visione multiculturale, che non trova mai effettiva realizzazione da parte dei leader politici.
Montale fu affascinato dalla Siria, le dedicò una poesia: «Dicevano gli antichi che la poesia è scala a Dio. Forse non è così/ se mi leggi./ Ma il giorno io lo seppi che ritrovai per te la voce, sciolto in un gregge di nuvoli e di capre […] il motore era guasto ed una freccia di sangue su un macigno segnalava la via di Aleppo». Ma cos’è per Montale questa via se non una metafora generale di tutti coloro che cercano la propria voce? Questo spazio ha la necessità e l’urgenza di menzionare anche una straordinaria voce poetica femminile dell’ultima generazione di intellettuali siriani, come Dima Wannous, nata a Damasco nell’82, figlia di un drammaturgo di fama internazionale. Ha dovuto lasciare la sua terra, nel 2011, a causa della guerra civile e, da quel momento, ha espresso, nei suoi versi, il malessere del suo sradicamento, la sofferenza del popolo siriano di fronte alla continua repressione. Le sue parole, spesso dal Washington Post, ci ricordano che ci sono momenti della storia in cui i siriani osano sognare.