Il romanzo di Ada D'Adamo
Come d’aria trionfa al Premio Strega, una danza nel dolore dell’intimo
«Quando ci fa male una parte del corpo, cerchiamo di evitare che qualcuno le si avvicini». Un romanzo disperato ma non disperante che ripercorre il dualismo tra corpo e anima
Cultura - di Filippo La Porta
Diciamo la verità, se Come d’aria di Ada d’Adamo (Elliot) non avesse vinto il premio Strega – con 185 voti, mentre 170 sono andati alla gran favorita Rossella Postorino (Feltrinelli), in una cinquina con ben quattro donne – sarebbe stato uno scandalo. Se non avesse vinto avrei perfino pensato che un libro così lo Strega, la società letteraria, i miei incarogniti connazionali, il nostro stesso paese non se lo meritano.
Si tratta di un testo, come si dice, ibrido, al confine tra generi letterari diversi: un po’ diario, un po’ meditazione morale, un po’ dialogo con altri libri, un po’ racconto intenso, concentrato, un po’ involontario esercizio spirituale. L’autrice, scomparsa il primo aprile di quest’anno a 55 anni – ha ritirato il premio postumo il marito – era nata ad Ortona e si era diplomata all’Accademia di danza. Nel libro racconta meticolosamente, amorevolmente della figlia, gravemente disabile, e poi della propria stessa malattia, un tumore metastatico al seno.
Qualcuno ha parlato, impropriamente, di “letteratura ospedaliera”, o anche di patetismo, di buonismo, di ricatto emotivo, etc. Niente di più lontano dalle pagine di Come d’aria: il punto è che quella esperienza, certo drammatica, a volte insostenibile, ma anche piena di luce, come un percorso iniziatico, come una via per riscoprire la vita come dono, ha trovato la propria lingua. Una lingua scandita, necessaria, dotata di una propria “musica”- solenne, domestica, essenziale, dissonante-, che ci ricorda che la letteratura è fatta di esattezza e di suggestione, di aderenza alle cose e di precisione geometrica.
Le sue annotazioni, colpiscono per la loro nuda verità e per una miracolosa leggerezza: “Quando ci fa male qualche parte del corpo, cerchiamo di evitare che qualcuno le si avvicini, e talvolta quello che facciamo per il corpo lo facciamo anche per la nostra anima: cerchiamo di non farci toccare”. La critica del buonismo nel nostro paese è quasi sempre critica della bontà, dell’idea stessa che la bontà possa esistere. Eppure diceva Simone Weil che nell’universo accanto alla “legge di gravità”, che lei intendeva sul piano morale (avidità, egoismo, indifferenza) esiste pur sempre il cuore umano, una struttura altrettanto reale, capace di sospendere a volte quella inesorabile legge di gravità.
I tanti virili, disincantati nemici del cosiddetto buonismo non si avvedono che invece nel senso comune dei nostri connazionali prevale largamente il cattivismo, e cioè l’ammirazione per i furbi e i prepotenti, l’indurimento cinico, l’ironia aggressiva, la perversa equazione di cattiveria e intelligenza? In che paese vivono? Forse la invenzione più poetica di Come d’aria sono le pagine in corsivo, che riproducono dei dialoghetti – in spiaggia, ai giardinetti, in uno studio medico -, al cui centro c’è sempre lei, Daria, la figlia.
Già Saba aveva detto che la poesia esiste nella realtà, dentro le cose, bisogna solo saperla estrarre. Solo due prelievi. «Al mare, dialogo tra il tuo babbo e Viola, cinque anni. Viola: “Non vede, vero?”, Babbo: “No”. Viola: “Ma parla?” Babbo: “No”. Viola: “Cammina?”, Babbo: “No”. Viola: “Ma allora è magica”. O anche, a un centro di riabilitazione la terapista scherza con Daria, allora Lucio, bambino non vedente, chiede che sta facendo. Lei: “La prendo in giro”. Lucio: “Posso prenderla in giro anch’io?”, “Va bene” lui, con tono squillante che non ammette repliche: “Daria, io ti vedo!”».
Il merito principale del libro è di mostrare, senza illusioni, il tragico della vita (malattia, morte, dolore irredimibile), senza però abbandonarsi alla stucchevole retorica del tragico: è disperato però mai disperante. Ci mostra il trauma – l’autrice parla di strappi, di sogni infranti, di fratture forse irreparabili – ma ad ogni pagina prova a ricucire lo strappo. La letteratura autentica è non solo urto e provocazione: ci consola pure, almeno dalla tragedia greca in poi, perché ci fa capire che il dolore che proviamo nella nostra intimità non appartiene solo a noi, e può non essere l’ultima parola. Accennavo a una ricerca spirituale, che queste pagine implicitamente contengono.
La danza, l’unica utopia possibile per uno scrittore maledetto come Céline, è al centro del libro. Tra l’altro si ricorda una memorabile performance del grande ballerino e coreografo Olivier Dubois, con il corpo ormai bolso, appesantito, che all’improvviso comincia a danzare facendo un omaggio a Fred Astaire: “passa da uno stato corporeo ordinario a una presenza abbagliante”. Eppure il virtuosismo della danza convive con la fragilità del nostro corpo, che sempre ci tradisce, a un certo punto.
Il Covid avrebbe potuto insegnarci almeno questo: siamo tutti umani, e dunque fragili. Fragilità e bellezza. Ma è stato evidentemente una occasione mancata. Ada d’Adamo ci ricorda il caso di Chiara Bersani, colpita alla nascita da osteogenesi imperfetta, regista e performer, e si dichiara commossa non tanto dalla danza, dalla tecnica, dalla abilità, quanto dai corpi. E proprio perciò lei ora, colpita dalla malattia, cerca “una danza piccola, delle mani o delle braccia”, si rifugia “nella ripetizione solitaria di movimenti ritmici”. Ecco, questo invito a cercare una “danza piccola”, nei gesti e nei movimenti della nostra vita quotidiana, è un grande insegnamento zen, riversato in una prosa cristallina, del quale saremo sempre grati all’autrice.