Il leader di Sinistra Italiana
Intervista a Nicola Fratoianni: “Alternativa alle destre? Già esiste, questa politica guarda più alle urne che a uno sterminio”
«Per me cultura di governo è aspirazione a cambiare, a combattere, non ad amministrare lo status quo. L’emergenza del paese? Stipendi e salari. L’alternativa esiste, ma va resa più forte»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Dalla Palestina al referendum sulla giustizia, dalla costruzione di un’alternativa del cambiamento alla critica del “governismo”. Parla Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italiana e parlamentare di Avs.
Titola Haaretz: “Per 46 bambini palestinesi morti la guerra di Gaza non è finita”. Eppure, Gaza è scomparsa dalle prime pagine della stampa mainstream e dai titoli dei Tg. Perché?
Perché persiste quella che molto spesso abbiamo chiamato la disumanizzazione dei palestinesi. È come se i palestinesi, gli uomini, i bambini, le donne, fossero parte di un altro status, di un’altra umanità di seri B. È come se la conta delle vittime, dei morti, procedesse secondo un altro moltiplicatore. Quando si commenta la presunta reazione d’Israele a una violazione dell’accordo, in questo caso la restituzione delle spoglie di chi è stato ucciso durante la prigionia, fatto salvo il massimo rispetto anche per le spoglie di chi è morto, beh l’idea che qualcuno possa ordinare attacchi devastanti che uccidono chi è vivo e nei numeri che abbiamo visto, è considerato qualcosa di inevitabile, di normale.
Tutto questo fa il paio con il modo in cui per mesi e mesi, per più di un anno, si è trattata quella che veniva definita la legittima difesa d’Israele dopo il 7 ottobre, anche e nonostante la sproporzione fosse evidente fin dai giorni successivi all’attacco di Gaza. Oggi quella dinamica sembra riprodursi, come fossimo tornati indietro, si fosse azzerato il contatore e non si fosse di fronte ad un accordo che nasce sul niente, sull’assenza di un pregresso, cancellando il genocidio, cosa sia stato non soltanto in termini di costi umani ma di macchina dello sterminio. Tutto sembra ripartire da zero, con quella stessa dinamica che ha al suo fondo la disumanizzazione.
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Dicono: le piazze per Gaza saranno pure piene ma non portano voti alla sinistra. Come risponde?
Rispondo che non so se sia così e che comunque non me ne frega niente. Perché io ho parlato di Gaza, ho manifestato per Gaza, l’ho fatto anche durante le campagne elettorali, perché è giusto farlo. Perché è necessario, perché su questo si misura la cifra dell’umanità e anche della politica, che non è nulla senza umanità e giustizia. Per quel che mi riguarda la politica è questo, poi viene tutto il resto, compresa la conta dei voti, ovviamente importante per chi fa politica candidandosi anche alle elezioni, ma che se dovesse mai, anche solo per un minuto, in nome della conta dei voti, cancellare giustizia e umanità, la politica perderebbe qualsia funzione e per quel che mi riguarda qualsiasi utilità e senso.
Perché quando si manifesta per Gaza ovvero quando si partecipa alle manifestazioni della Cgil, c’è subito chi alza l’indice accusatore per affermare che quei “sinistrorsi” piazzaioli sono privi di cultura di governo e si condannano all’opposizione perpetua.
Chi dice questo immagina il governo come uno strumento di pura amministrazione dell’esistente. Il governo come uno spazio della tecnica, dello specialismo. Come strumento, in fondo, di autoconservazione all’infinito dello status quo. Uno status quo fatto di sfruttamento, di diseguaglianza, d’ingiustizia, di crisi climatica, di guerra. Per quel che penso, governare è esattamente il contrario. È cambiare la realtà, è trasformarla nel segno della pace, del disarmo, della giustizia climatica, della lotta alla diseguaglianza e allo sfruttamento; nel segno del diritto universale alla salute e all’istruzione, nel segno della cultura. Qui c’è un confine molto grande che riguarda i fondamentali: cos’è il governo, a cosa serve la politica. Se la politica serve a riprodurre un ceto, da un lato, e dall’altro lo status quo delle cose, dei rapporti di forza, della realtà fissa come una fotografia, questa non è la mia politica. La politica per me è dinamica, è movimento, è conflitto. È differenza di interessi, di bisogni che grazie alla politica e infine anche al governo, possono modificare e trasformare la realtà.
Altro mantra degli indici accusatori: non si vince se non si conquista il centro. Ma oggi cos’è questo tanto evocato “centro”?
Francamente non lo so. Devo dire che non è da oggi che fatico a riconoscerne la natura politica. Il centro è stato per lungo tempo quello che si definiva ceto medio. Ma il ceto medio socialmente è stato spazzato via ormai da decenni di politiche che nell’allargamento della forbice della diseguaglianza hanno polarizzato anche sul piano sociale le nostre società. La polarizzazione della politica risponde a questa polarizzazione sociale, seguendo inevitabilmente queste faglie di rottura che si sono determinate nella società italiana e non solo in essa. Non è un caso che le destre nazionaliste, estremiste, autoritarie, talvolta con tendenze esplicitamente neofasciste – penso alla AfD in Germania, al Front National in Francia, a Vox in Spagna – guadagnano terreno o addirittura, come ne caso degli Stati Uniti e anche di diversi paesi europei, governano in nome di qualcosa che non ha nulla a che vedere con la rincorsa al centro, la cosiddetta “moderazione”, altra categoria oscura almeno della politica narrata e raccontata da tanti opinionisti in questi decenni. Per questo io penso che questa categorizzazione, perimetrazione, sia spesso e per lo più una invenzione. Questo naturalmente non ha nulla a che vedere col fatto che si possa e talvolta si debba immaginare di costruire coalizioni plurali, larghe, in grado di includere e non di escludere, ma non per questa ragione. È del tutto evidente che se si vuole vincere, se si vuole cambiare, occorre costruire un’alternativa che sia credibile ma che sia credibile anche perché riconosciuta effettivamente come tale, cioè come una differenza, come un’alternativa.
Esiste un allarme democratico in Italia?
Dipende cosa s’intende. Se si allude al rischio di un ritorno dietro l’angolo ad un autoritarismo come quelli che la storia di questo paese ha conosciuto un secolo fa, la mia risposta è no. Non mi pare questo il punto e l’urgenza di una battaglia politica. Certo è che il rischio dell’autoritarismo oggi attraversa il mondo intero, certamente l’Occidente. Ed ha a che fare con processi che spesso sono totalmente al difuori del dibattito e del confronto politico.
A cosa si riferisce?
Penso, ad esempio, a quei processi di verticalizzazione del potere, del controllo. Ha a che fare con la concentrazione del potere nelle mani delle grandi piattaforme tecnologiche, che sempre di più guadagnano il controllo di sfere decisive della vita pubblica, dalla sicurezza alla sanità alla difesa. Si pensi al dibattito che c’è intorno al ruolo delle grandi Big-Tech, dei grandi alleati e finanziatori di Donald Trump, da Peter Teal (cofondatore di PayPal, primo investitore in Facebook, fondatore di Palantir, ndr) che esplicitamente teorizza l’incompatibilità tra capitalismo e democrazia. Questo mi pare il punto vero quando discutiamo della democrazia e dell’autoritarismo. Poi a tutto questo si accompagnano scelte ed obiettivi anche del governo italiano, sul piano istituzionale, che indubbiamente sono segnati da una matrice culturale sostanzialmente autoritaria, dalla controriforma della giustizia alle ipotesi del premierato, al decreto sicurezza. Se li mettiamo tutti in fila, questi provvedimenti alludono a forme di democrazia quantomeno mutilata. Mi pare, però, e insisto su questo, che il punto più significativo e più serio di questa discussione, non stia nemmeno nell’iniziativa più diretta dei governi e questo è ancora più preoccupante. Perché segnala una regressione ancora più potente.
Qual è la vera posta in gioco nei referendum sulla giustizia?
Mi pare che l’abbiano resa evidente alcuni dei protagonisti di questa battaglia. La scena del molto mini-corteo dei dignitari di Forza Italia con la faccia sorridente di Berlusconi, ne è una fotografia definitiva. È l’idea che si chiuda definitivamente la lunga stagione, aperta con l’era berlusconiana, della giustizia come terreno di guerra tra politica e magistratura; una guerra che, però, ha davvero poco o nulla a che fare con il tema serissimo del garantismo, della velocità dei processi, cioè di questioni che riguardano la vita della maggioranza delle persone.
Il garantismo è un problema per chi non ha i soldi per pagarsi i grandi avvocati, per chi non ha le risorse per fare i conti con processi che durano decenni. Il garantismo non è mai stato un problema per chi aveva il potere, i soldi, le risorse per difendersi e tutelarsi, anche in alcune delle faglie di crisi del sistema giudiziario. La verità è che la posta in palio è un’altra…
Quale?
L’impunità. È l’impunità dei potenti. Questa è la questione. Non c’è niente che si concentra sui problemi reali del sistema-giustizia. Quando non c’è un investimento sugli organici, quando non ci sono iniziative sulla digitalizzazione dei fascicoli giudiziari, su tutte quelle cose che accorciano il processo, lo rendono più funzionale etc, e tutto si concentra sulla separazione delle carriere, il tema diventa evidente: il controllo della magistratura inquirente, del pubblico ministero, da parte della politica, dell’esecutivo, il tutto funzionale al garantire che non ci siano problemi. Del resto, quando Giorgia Meloni commenta la decisione della Corte dei Conti, della magistratura contabile, sul Ponte sullo Stretto, non solo riproponendo il consueto ritornello della vittima del complotto, ma dicendo con più nettezza riformeremo la Corte dei Conti, sta affermando questo: non accettiamo non le invasioni di campo, non accettiamo l’autonomia di un altro potere, che però è l’assetto della Costituzione della Repubblica.
Si è aperta la stagione elettorale. Si è votato nelle Marche, in Calabria e Toscana, tra qualche settimana toccherà a Campania e Puglia. La sinistra è in campo?
Sì. Lo è. È unitaria, ed è un fatto nuovo, in tutte le regioni, e inviterei a non sottovalutare. Ma lo è ancora in modo insufficiente.
Perché insufficiente?
Perché ancora fatica ed è in ritardo sul punto decisivo, cioè la costruzione di una proposta di alternativa che abbia due caratteristiche che per me sono fondamentali: la prima è la stabilità di un profilo di alternativa. Si tratta di affermare che questa coalizione è quella che si candida a governare il paese in modo alternativo a questa destra. La sua stabilità, quindi. A cui si lega indissolubilmente la definizione di una trama, di una proposta che peraltro in larga parte esiste già. Esiste nelle proposte di legge che sono state depositate comunemente dalle opposizioni. Esiste nelle scelte che le opposizioni hanno comunemente fatto nella battaglia politica quotidiana in parlamento e nel paese. E sono molte, certamente maggioritarie rispetto a quelle, che pure esistono, su cui si mantengono elementi di articolazione e qualche volta anche di differenza. Ma se guardo alle differenze nel centrodestra, francamente mi pare assai difficile sostenere che l’opposizione sia divisa e la maggioranza unita e coesa. L’assenza più grande, tra tutte, è il fatto che per dare credibilità vincente all’alternativa, bisogna che l’alternativa viva non solo nell’intesa tra le forze dell’opposizione, che è importante e condizione necessaria, ma viva tra le forze di opposizione e il paese, tornando a mobilitare attorno alla speranza e al bisogno dell’alternativa i bisogni sociali che ci sono, che crescono , che n non sono in alcun modo oggetto di una risposta progressiva da parte della destra, la manovra di bilancio lo dimostra chiaramente. Nessuna risposta alla vera emergenza, quella degli stipendi che per noi è oggi l’emergenza più grande di questo paese. Su questo occorre mettere in campo una proposta che sia in grado non solo di alludere e indicare un’alternativa possibile ma di farla diventare il terreno di una mobilitazione nel paese e col paese. È ciò che adesso occorre fare, dentro la coda di questo infinito e frammentato ciclo elettorale e soprattutto subito dopo, in vista delle politiche che a questo punto cominciano a farsi vedere dietro l’angolo.