Il senatore Pd

Intervista ad Antonio Misiani: “Manovra Meloni? Dannosa e con boom di spese militari”

L’impatto della legge di bilancio è zero sulla crescita, zero sui consumi, addirittura negativo sugli investimenti. Al ceto medio restano le briciole, è tutto fatto per favorire soltanto i redditi più alti

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

31 Ottobre 2025 alle 09:00

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Photo credits: Alessia Mastropietro/Imagoeconomica
Photo credits: Alessia Mastropietro/Imagoeconomica

Antonio Misiani, senatore, responsabile Economia e finanze, imprese e infrastrutture nella Segreteria nazionale del Partito Democratico.

Che manovra è quella che ha presentato il governo?
Una manovra piccola piccola, del tutto inadeguata ad affrontare i due nodi principali del Paese: la stagnazione economica e l’aumento delle disuguaglianze. È la legge di bilancio più esigua dal 2014 e risponde a un’unica ossessione: il giudizio delle agenzie di rating. Giorgetti e Meloni hanno scelto la strada dell’austerità a prescindere, pensando che basti tenere in ordine i conti per rilanciare lo sviluppo. Ma i numeri del Documento programmatico di finanza pubblica presentato dal governo smentiscono questa narrazione ottimistica: l’impatto della manovra è zero sulla crescita, zero sui consumi, addirittura negativo sugli investimenti. In pratica, è una legge di bilancio inutile e dannosa. Verrà ricordata per due scelte sbagliate: l’aumento dell’età pensionabile di cinque mesi e il boom delle spese militari, che in tre anni assorbiranno oltre 22 miliardi aggiuntivi. Per capire la sproporzione basta un confronto: il tanto sbandierato taglio dell’aliquota Irpef al 33 per cento vale meno di 3 miliardi, mentre il solo fiscal drag ne brucia 3,3 ogni anno. In dodici mesi il beneficio si azzera. Al ceto medio restano le briciole, ai redditi più alti un vantaggio tangibile. La pressione fiscale complessiva, intanto, resta inchiodata al massimo degli ultimi dieci anni. Non stupisce che nella maggioranza regni il caos. I partiti si dissociano dalle scelte più impopolari – dal contributo sulle banche alle tasse sui dividendi fino agli affitti brevi – e cercano di piantare ciascuno la propria bandierina. È una manovra “figlia di nessuno”, con il solo Giorgetti rimasto a difenderla. Quello che sorprende, semmai, è il conformismo di molte associazioni di categoria, che si sono accontentate di piccoli bonus e interventi di facciata, senza il coraggio di alzare la voce di fronte a un governo che non ha una politica economica degna di questo nome.

Su cosa punta il Partito Democratico?
Il Pd presenterà in Parlamento un pacchetto di proposte centrato su tre grandi priorità. La prima è difendere il potere d’acquisto di lavoratori e pensionati. Lo si fa sterilizzando in modo strutturale il fiscal drag, come già avviene in 17 Paesi Ocse, e introducendo una legge sul salario minimo legale, insieme al rafforzamento della contrattazione collettiva e a un meccanismo che acceleri i rinnovi contrattuali. A questo vanno aggiunti il pieno riconoscimento dell’equo compenso per autonomi e professionisti. La seconda priorità è rilanciare la crescita. L’economia italiana è ferma, la produttività ristagna e gli investimenti privati arrancano. Senza il Pnrr saremmo già in recessione. Servono politiche industriali vere, non slogan. A partire dai settori più colpiti dai dazi. L’incentivo per gli investimenti in tecnologie avanzate va reso triennale e più robusto; il credito d’imposta per innovazione e design prorogato. È necessario serve un Fondo per la transizione che accompagni le filiere più esposte alla conversione ecologica, a cominciare dall’automotive, che il governo ha abbandonato tagliando gli stanziamenti del governo Draghi. Poi c’è la questione energia, grande assente di questa manovra. I costi energetici continuano a penalizzare la nostra industria. Bisogna accelerare sulle rinnovabili, sul disaccoppiamento del prezzo dell’elettricità da quello del gas per via contrattuale e sulla costruzione di comunità energetiche. La terza priorità è rafforzare i servizi pubblici essenziali: sanità, trasporti locali, scuola e casa. La sanità italiana è in crisi profonda, i tempi di attesa crescono, le famiglie pagano oltre 40 miliardi di euro di tasca propria e quasi sei milioni di cittadini rinunciano a curarsi. Nell’arco temporale della manovra il fondo sanitario nazionale scenderà sotto il 6 per cento del PIL, mentre il piano di assunzioni del Ministero è stato ridimensionato. Servono più risorse, non tagli mascherati. E lo stesso vale per molti altri servizi pubblici, sacrificati sull’altare del rating. Le coperture si possono trovare, partendo dalla rottamazione delle cartelle, che costa 2,5 miliardi, ampliando la base Irpef, riducendo i sussidi ambientalmente dannosi e migliorando l’efficienza della spesa pubblica anziché tagliare i bilanci dei ministeri in modo lineare. Ma soprattutto, serve cambiare le priorità: questa manovra parla di spese militari e condoni fiscali. Noi vogliamo parlare di salari, crescita e futuro.

Cosa c’è dietro lo scontro nella maggioranza sulle banche?
Una rissa politica e una grande ipocrisia. Sul contributo delle banche la maggioranza litiga da settimane: prima era una tassa sugli extraprofitti poi un contributo “volontario”, poi lo sconto sull’aliquota dei dividendi per finanziare la manovra. Una tragicommedia che mina la credibilità del Paese e dovrebbe imbarazzare lo stesso ministro dell’Economia. Noi siamo favorevoli a una tassazione degli extraprofitti, ma fatta con serietà e giustizia. Qui invece regna la confusione. E in questa guerra tra Lega e Forza Italia c’è un grande assente: i cittadini. La manovra non contiene una sola norma che impedisca a banche e assicurazioni di scaricare il contributo sui clienti finali. Parliamo di 11 miliardi che rischiano di finire, dal primo all’ultimo centesimo, sulle spalle di famiglie e imprese. Nel 2023 almeno c’era una clausola anti-traslazione e una relazione annuale dell’Antitrust (mai arrivata in Parlamento, purtroppo). Quest’anno, neppure quella. Così una misura nata per colpire i giganti della finanza rischia di trasformarsi in una tassa occulta sui correntisti. E intanto la maggioranza continua a litigare, senza un’idea di sistema e senza una strategia per il credito. Tutti pensano alle bandierine di partito, nessuno si occupa dei risparmiatori o delle imprese che chiedono liquidità per investire.

Dice Romano Prodi: “La sinistra ha voltato le spalle all’Italia”. È un giudizio ingeneroso?
Il ragionamento di Prodi è più articolato di quella singola frase, che io non condivido. Il Professore ha ragione quando invita la nostra area politica a radicarsi di più nel Paese, a mettere in campo un progetto chiaro e una vera idea d’Italia. Se vuole vincere il centrosinistra deve parlare a tutto il Paese, offrendo idee concrete, visione e speranza. Non basta dire “siamo alternativi alla destra”: bisogna dimostrare di avere la voglia e la capacità di governare. E questo si fa solo costruendo un progetto comune e schierando una squadra all’altezza. Detto questo, l’immagine di una sinistra che ha voltato le spalle all’Italia non descrive il Partito Democratico di Elly Schlein. Il Pd è tornato nei luoghi del lavoro e del disagio sociale, ma anche nel confronto con il mondo produttivo e le professioni. Parla di salari, casa, scuola, sanità, diritti, ambiente, politiche industriali: le questioni vere della vita quotidiana. Questo sforzo di ricollocazione era necessario ma sappiamo che non sarà sufficiente. Per vincere, dobbiamo tutti cambiare passo: serve determinazione e profondità, un’alleanza larga e competitiva, una visione per il futuro dell’Italia. Il percorso è avviato e il dibattito interno è un segno di vitalità, non di divisione. Se lo viviamo come un momento di crescita, e non come una resa dei conti, sarà la base per costruire una coalizione forte e radicata nel Paese. Il nostro compito è offrire un’alternativa solida e credibile alla destra: non solo per cambiare governo, ma per cambiare direzione al Paese.

Giorgio Gori, alla convention dei “riformisti” dem, ha detto che il Pd “si è spostato troppo a sinistra”. È così?
Secondo me il punto non è tanto dove sta il Pd, ma a chi parla, chi vuole rappresentare e con quale progetto. Il nodo di fondo è il nostro rapporto con l’Italia, la capacità di costruire una alleanza che tenga insieme una larga parte della società attorno a un’idea di Paese più giusto e solidale, aperto all’innovazione e sensibile alla sostenibilità ambientale, convintamente europeista. Difendere salari, scuola e sanità, combattere la precarietà e lavorare per fare uscire l’Italia dalla stagnazione non significa “spostarsi a sinistra”: significa tornare al cuore della missione del Pd, che è unire giustizia sociale e sviluppo, diritti e impresa, riformismo e uguaglianza. Non dobbiamo rincorrere geometrie politiche o collocazioni astratte. Dobbiamo costruire una proposta seria, pragmatica, credibile per il Paese. È così che si allarga il consenso e si costruisce un’alternativa vera alla destra.

Tutti si dicono “europeisti”, ma vista da sinistra cosa dovrebbe fare l’Europa per non condannarsi all’irrilevanza o al vassallaggio dell’America di Trump?
Ci sono europeisti… ed europeisti. Giorgia Meloni ha ormai gettato la maschera: è contro il superamento dell’unanimità, vuole che la difesa resti una prerogativa nazionale e si batte contro il Green Deal. Ma anche noi, da sinistra, dobbiamo evitare di limitarci alla difesa dello status quo. L’Europa deve decidere se essere protagonista o spettatrice. Per non ridursi a un vaso di coccio tra Stati Uniti e Cina serve un salto politico e strategico: una politica industriale comune, una difesa europea integrata, una governance economica che sostenga investimenti e coesione sociale. Da sinistra, europeismo non significa accettare l’esistente, ma battersi per un’Unione più coesa, autonoma e capace di proteggere i propri cittadini. L’Europa deve parlare con una voce sola su energia, difesa, politica estera e migrazioni. Senza una vera autonomia strategica, rischia di restare schiacciata tra le grandi potenze e di condannarsi all’irrilevanza.

31 Ottobre 2025

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