Palestina, Trump e Movimenti

“La democrazia è in macerie, nelle piazze per Gaza il cemento per ricostruirla”, intervista a Fausto Bertinotti

“La foto di Sharm dice che oggi il mondo dominato dal tecnopopulismo è tornato alla logica degli imperi. Basta dire che la democrazia va difesa, va ricostruita da zero. E chi può farlo sono i giovani che hanno riempito le piazze. ”

Interviste - di Graziella Balestrieri

25 Ottobre 2025 alle 07:00

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Photo credits: Saverio De Giglio/Imagoeconomica
Photo credits: Saverio De Giglio/Imagoeconomica

Un armistizio durato più o meno 48 ore. Sharm el Sheikh è da considerarsi già un fallimento perché in realtà lo era già nei presupposti: circondato dai potenti della terra, Donald Trump mostrava compiaciuto documenti su documenti, dimenticandosi di interpellare il vero protagonista: ovvero il popolo palestinese. Un fallimento annunciato, quasi voluto. “Se tu hai il leader più prestigioso di cui il movimento della Striscia dispone – il Mandela palestinese che si chiama Marwan Barghouti – ma lo tieni in carcere, rendi evidente che non vuoi accettare la rappresentanza del popolo palestinese”. Parola di Fausto Bertinotti, sindacalista, ex segretario del Partito della Rifondazione Comunista, che ci parla di Trump, forza e denaro, del genocidio del popolo palestinese, della nuova generazione di Gaza che scende nelle piazze e del vento in poppa della Flotilla e di una sinistra che non va difesa ma ricostruita, proprio come la democrazia.

A Sharm el Sheikh, si è parlato soprattutto di soldi e forza militare: la politica di oggi, quella del futuro, si basa sul culto della forza e del denaro?
Sì, assolutamente sì. Questa vicenda dimostra che cosa è diventato da ultimo il capitalismo, ci dice che cosa c’è dietro al fenomeno che ha dato vita a Trump e al trumpismo. Quanto accaduto a Gaza è stato soltanto una cessazione temporanea degli aspetti più devastanti della guerra. Non è una pace che è lontanissima. Intendiamoci: io ho partecipato alla festa, quando vedo i bambini a Gaza che ballano e festeggiano la mattina dell’annuncio, dico che quello è il nostro ballo. Detto questo, penso che siamo però di fronte, anche fisicamente, ad una politica che è in larga misura spettacolo, lo spettacolo che emerge dalle fotografie di coloro che sono i protagonisti dell’accordo. A partire dal suo inventore, cioè Trump: una serie di maschi diversamente paludati che occupano la scena insieme a lui solo allo scopo di farsi fotografare come i protagonisti del nuovo tempo. Una cosa raccapricciante. L’adunanza egiziana è ancora una volta significativa simbolicamente perché dice chi sono, o pretendono di essere, i nuovi padroni del mondo, ovvero la forza e il denaro. E quello che si configura dentro a queste immagini è in modo evidente un’operazione neocoloniale: è il fatto che i popoli, in questo caso esemplificati dai palestinesi, su quel palco non ci sono. L’operazione neocoloniale pretende di porre fine al conflitto, producendo un ordine che è irrispettoso del diritto dei popoli, privo di democrazia nelle nuove istituzioni che sono piuttosto commissioni d’affari organizzate secondo il principio dell’impresa e non dello Stato. A Sharm si manifesta una sorta di progetto neocolonialista della ricchezza che si sperimenta su un punto di crisi ma che ha l’ambizione di estendersi al mondo.

Come si fa a raggiungere la pace se la Palestina non viene rappresentata da nessuno?
Intanto bisognerebbe partire dal presupposto che il popolo palestinese esiste. Esiste e dunque si possono trovare le forme della sua rappresentanza. Sì, Abu Mazen era presente ma la sua fragilità lo rende non rappresentativo. Hamas non è presente, ma con Hamas devono fare i conti. Tanto è vero che in nome del principio di realtà, addirittura a un certo punto Trump dice che proprio Hamas potrebbe esercitare il ruolo di polizia locale, proprio in nome del registro della forza. Ma questo elemento non è, come dire, il portato naturale di un processo e di un momento storico. Perché, per esempio, se tu hai il leader più prestigioso di cui il movimento palestinese dispone, che si chiama Marwan Barghouti, un uomo straordinario tanto che si parla di lui ripetutamente come del Mandela palestinese e poi lo tieni in carcere, rendi evidente che tu non vuoi accettare la rappresentanza del popolo palestinese, perché vuoi negare la rappresentanza stessa.

Come farà Trump a disarmare completamente Hamas?
Come detto, prima c’è il momento della gioia, poi c’è il momento dei fatti. E i fatti dicono che ai palestinesi è stata negata la possibilità di decidere del loro destino. Ci sono però nella fase di transizione verso questo esito negato anche elementi di grandissima difficoltà: su tutti c’è il disarmo di Hamas e soprattutto il ritiro dell’esercito israeliano dalle terre di Gaza. Il disarmo di una qualunque forma di organizzazione politico terroristica nella storia è sempre stato un grandissimo problema che è stato sempre risolto in un solo modo: l’organizzazione terroristica evolve nella direzione di una soggettività politica riconosciuta come promotrice di un nuovo ordine. Così è stato sempre: così in Irlanda, così nei paesi Baschi.

L’Ira nell’Irlanda del Nord, il Sinn Fein di Gerry Adams…
Esattamente. Ma c’è un esempio ancora più esplosivo: ovvero che Israele medesima nasce da un gruppo terroristico. Basti pensare che uno dei suoi primi grandi esponenti era il capo di un’organizzazione terroristica e poi è diventato un capo di Israele. È scritta nella storia questa evoluzione, ma perché sia così dev’esserci uno sbocco.

Tra i protagonisti seduti accanto a Trump c’era Erdogan, che è sembrato uno dei pochi a non essere in soggezione: che ruolo ha la Turchia?
Non c’è dubbio che Erdogan non stia in soggezione, perché su questa scena si trovano a loro agio solo gli imperi o coloro che provano a costituirsi o ricostituirsi come imperi. Erdogan interpreta la rinascita ottomana, non è il signore “terribile”, che ha governato la Turchia con il pugno di ferro fin qui. Nel nuovo contesto in cui sulla distruzione dell’ordine precedente, sulla crisi della globalizzazione, rinascono gli imperi, la Turchia si propone come uno degli imperi del nuovo assetto mondiale.

Trump lo teme in qualche modo?
Secondo me sì. La logica imperiale contiene infatti costanti elementi di tensione tra tutti i poli, tra tutti gli imperi. Che sono tendenzialmente espansionistici. Possono esserlo su tutti i terreni: quello tecnologico, quello militare, quello economico – basta pensare ai dazi – però lo sono. Gli imperi tendono a farsi dominanti. La più grande tra queste contese continua ad essere naturalmente quella tra Cina e Stati Uniti D’America, ma forse dovremmo essere attenti ad una contesa sotterranea, secondo me ancora più decisiva, che è quella tra il Sud del mondo e le grandi potenze economiche. A partire da quelle occidentali. Noi guardiamo aspramente a fenomeni autoritari di altri imperi, alla Russia di Putin, alla Cina di Xi. Ma l’Occidente che si eleva, che si dà l’aria di essere la patria della democrazia e delle regole, che cosa sta diventando? Trovo interessante che due personaggi molto diversi tra loro, anzi opposti – un uomo di sinistra come Varoufakis, e un uomo di estrema destra come Steve Bannon – hanno usato la stessa categoria per definire la direzione verso cui vanno le società contemporanee, ovvero quella del tecno-populismo che caratterizza il nostro presente. Parliamo della potenza della finanza incorporata nella tecnologia e nella scienza fino all’intelligenza artificiale, una potenza che dà luogo alla concentrazione delle più grandi ricchezze del mondo nelle mani di un numero ridotto di protagonisti. E parliamo anche di populismo, ossia di società che tendono a sradicare definitivamente la democrazia per sostituirla con una sorta di feudalesimo improntato sulla servitù. L’Impero tende a essere costruito su questa connotazione tecno feudale. Si capisce perché allora è così decisivo nello sviluppo della politica il movimento, l’imprevisto, la rottura. Il movimento è l’unico antidoto strategico a questa controriforma.

In Medioriente abbiamo assistito alla ricomparsa di Tony Blair. Perché lì, perché adesso?
Per una ragione concreta e anche per una simbolica: la ragione concreta è che i protagonisti di questa operazione neo coloniale su Gaza sono i fondi economici finanziari di cui Blair è espressione in Europa. E poi c’è la ragione simbolica: Blair è uno degli inventori della guerra in Iraq, il produttore di quel falso storico, poi usato dagli Stati Uniti D’America, secondo cui l’Iraq avrebbe detenuto armi di distruzione di massa. Tesi di cui Blair fu paladino, salvo ammettere anni dopo di aver mentito. Dunque, l’uomo giusto nel posto giusto.

Durante il suo discorso alla Knesset, Trump in realtà ha fatto capire a tutti chi è che comanda, ammettendo tra l’altro la responsabilità dell’America in questo genocidio: che rapporti ci sono realmente tra Trump e Netanyahu?
È semplicemente la manifestazione della gerarchia del potere, ovvero: tu stai in campo perché io ti riconosco. Del resto è stato esattamente il canone dell’intera vicenda. L’Israele di Netanyahu ha potuto realizzare un genocidio in primo luogo perché l’America glielo ha consentito.

Netanyahu è un problema per Israele? E dovrebbe essere processato?
Questo “dovrebbe” è l’opinione di chi pensa che debbano esistere delle regole, ma il fatto che debbano esistere non vuol dire che possano esistere.

Il pensiero va alla Serbia di Slobodan Milosevic e al processo a suo carico per crimini contro l’umanità…
La differenza è che in quel tempo, sebbene deformate, esistessero ancora le regole che invece oggi non esistono più. Malmesse, contrastate dai poteri, ma le regole erano allora parte delle relazioni internazionali. Il colpo di maglio impresso in quest’ultima fase ha distrutto il campo delle regole a livello nazionale e internazionale. Il tema della democrazia a questo punto deve essere reinventato da noi. La democrazia è stata sfondata. I partigiani della democrazia non possono più accontentarsi di difenderla. Uno dei canoni della grande politica è quello in cui spesso il movimento, la rottura di una condizione di stasi, si presenta in maniera imprevista. Succede, ed è una grande risorsa della politica e della politica del cambiamento. Però noi non ci siamo più abituati da molti anni a questo tipo di dinamica, e quindi questo imprevisto, anche nel suo farsi, ha prodotto un effetto di sorpresa, e anche di fatica della politica a leggerlo, a interpretarlo: in primo luogo perché – e questa è proprio la legge dei movimenti – i movimenti si possono capire solo dall’interno, solo frequentandoli, solo essendovi immersi. Questo è stato un fenomeno imprevisto. E in questo imprevisto c’ è un elemento critico nei confronti della politica del nostro tempo. Il carattere imprevisto è per un verso, per così dire, irriducibile perché può sempre darsi. E per altro verso è anche determinato dal fatto che la politica non sa leggerne gli avvisi, gli annunci. Userei la metafora dell’indiano d’America: la politica non sta con l’orecchio a terra e quindi sulla base di questi due elementi – l’imprevisto come fenomeno in sé e lo spiazzamento della politica – si è determinato questo straordinario movimento che ci lascia intanto il compito di capirlo ancora fino in fondo. Credo che si possa parlare di un movimento in larga misura generazionale: è questo in primis quello che ne ha animato la discesa in piazza e che l’ha visto crescere in modo imponente: tutto questo è, secondo me, il portato di una riscossa generazionale.

Le persone che sono andate a manifestare, tra cui tantissimi giovani, gli stessi non sentono il bisogno poi di andare a votare che è l’unico mezzo per cambiare le cose. Che cosa ci sfugge allora?
Se non fosse troppo provocatorio risponderei: “E perché dovrebbero?” Dobbiamo intanto considerare le caratteristiche del movimento: abbiamo detto che è generazionale e questo elemento va messo a fuoco perché lo spiazzamento qui non è stato solo della politica, ma anche della cultura e della scienza sociale. Noi siamo stati attraversati per dieci anni almeno da un’interpretazione sostanzialmente univoca dei giovani, secondo la quali queste ragazze e questi ragazzi fossero indifferenti al mondo. Ricorda la formula del famoso romanzo di Moravia, gli Indifferenti… Venivano considerati indifferenti ma non solo. Erano considerati anche portatori di una nuova condizione dell’indifferenza, cioè quella determinata dall’essere subalterni alle nuove forme della tecnologia e della comunicazione. Per dirla con un altro importante intellettuale della sinistra, Michele Serra, i giovani di oggi erano “gli sdraiati”. Sdraiati perché sono quelli che abitano il divano, e si crogiolano con i nuovi strumenti della comunicazione tecnologica, i cellulari, i tablet. Vivono, secondo questa vulgata, in un universo parallelo a coltivare la loro indifferenza. Questa tesi è stata egemonica negli ultimi decenni, assolutamente prevalente. Ma è stata smentita di colpo, radicalmente. Quelli che avrebbero dovuto essere indifferenti sono invece i promotori di un movimento fondato sull’indignazione, proprio il contrario dell’indifferenza, non una cosa diversa ma esattamente il suo contrario. È un movimento che non ha come forza propulsiva un’indignazione economica, sociale, una rivendicazione per sé di diritti, ma è invece il prodotto appunto di un’indignazione. Così si può chiamare la generazione di Gaza. Perché quello che è stato ed è, secondo me, recentemente il più espressivo e drammatico specchio del mondo, del nostro tempo, è proprio Gaza. Gaza in qualche modo è la lente attraverso la quale si legge la nostra drammatica contemporaneità. È insieme lontana e vicinissima. Questa generazione è stata colpita da un elemento che costruisce la partecipazione sulla base dell’emozione, e non sulla rivendicazione. Non protesta cioè sulla base di una rivendicazione di interessi, ma sull’onda dell’emozione provocata dall’indignazione, come sorretta dall’innalzarsi di un urlo: “Adesso basta!”. E anche alla riscoperta, che a dire e a praticare questo “adesso basta” dobbiamo essere noi, noi che siamo questa nuova generazione, che per un verso attraversa tutta l’Occidente e l’Europa e per un altro verso ha dato grande prova di sé in questi strati del nostro paese. Quello delle piazze per Gaza è un movimento nato dall’indignazione per la distruzione di umanità, per il genocidio che Israele con la copertura dell’Occidente ha realizzato su un popolo inerme lasciando morire di fame dei bambini non perché il cibo non c’è ma perché è impedito che il cibo arrivi a loro e lasciando che tanti piccoli vengano operati senza anestesia o che muoiano innocenti sotto le bombe di una guerra terroristica condotta da Israele contro il popolo palestinese. È tutto ciò ha prodotto un moto di condanna e un “non in mio nome “. È un movimento spontaneo, senza padri né madri e senza organizzazioni storiche della politica che li guidino. Ma c’è un fatto persino straordinario, in questi movimenti.

Quale?
Ci sono stati due scioperi generali, uno organizzato dal sindacato di base e uno poi dalla Cgil. Naturalmente il sindacato di base ha il merito di essere stato pronto nella programmazione proprio a ridosso della richiesta del movimento. Ma in genere lo sciopero è un elemento che promuove il movimento, qui invece lo sciopero è prodotto dal movimento, a tal punto che è indifferente a chi lo convoca. Parlo da sindacalista: la ragione del successo di uno sciopero è anche la credibilità di chi lo promuove. Lo sciopero è di base un elemento che muove dall’alto e ottiene un consenso dei partecipanti allo sciopero. Qui invece non è così, lo sciopero è proclamato ma è – mi scuso per il termine antico – sussulto dal movimento. Anche questo mutamento del carattere dello sciopero è indicativo proprio di un movimento nella sua fase ascendente e spontanea.

Che cosa ci dice della Flotilla, che è stata parte importante di questa rottura?
La Flotilla è un’esperienza importante che sta in capo a chi l’ha promossa e organizzata, compiendo un’impresa politica e di solidarietà di grande rispetto. Ma dietro la Flotilla c’è anche la caratteristica di un movimento in cui gli elementi simbolici hanno avuto e hanno un peso rilevantissimo. Una delle differenze tra il movimento e la politica è che il primo ha capito subito cos’è la politica, mentre la politica stessa non ha voluto capire la Flotilla anche per poterla attaccare. Molti politici hanno parlato di questa manifestazione come se fosse una manifestazione puramente umanitaria, non dico caritatevole ma quasi, in modo tale da far seguire una domanda: “Scusate, ma non potevate fare arrivare questi aiuti altrimenti? Addirittura, poi ci sono state delle proposte per farle arrivare, perché non le avete accettate?”. Ma questo tipo di lettura, in parte strumentale, in parte figlia di ignoranza, dimostra che la politica non ha afferrato ciò che il movimento ha immediatamente intuito: e cioè che la Flotilla aveva l’obiettivo di mettere in luce lo stato di illegalità del blocco di Israele nei confronti della Palestina e di Gaza. Da un po’ di tempo non viviamo più movimenti forti di questa dimensione, ma se fosse vivente l’esperienza non violenta, sarebbe stato immediatamente comprensibile che a uno stato di illegalità, proprio come il movimento non violento insegna, si risponde esponendo se stessi, il proprio corpo, contro l’illegalità. Anche in Italia, quando abbiamo avuto le esperienze non violente, questa pratica era del tutto chiara. Adesso però ha sorpreso tanti perché si è prodotta su un terreno molto significativo come quello della messa in discussione di un canone di illegalità realizzato da uno Stato.

Il 16 ottobre del 1943 le SS avveniva il rastrellamento nel portico d’Ottavia a Roma: 1024 ebrei tra cui 200 bambini. Il 18 ottobre dalla stazione Tiburtina partiranno i vagoni per Aushwitz: come può un Ministro della Repubblica Italiana usare il termine “gita” quando si parla di Auschwitz?
Non voglio sembrare né cinico né rassegnato, ma lasciatemelo dire: questa classe dirigente è fatta di questa pasta, e ciò rende difficilmente praticabile quella modalità di relazione che rende grande la politica, cioè il confronto. Come si fa a confrontarsi con una classe dirigente che si manifesta così? Come si fa a discutere con chi parla di una “gita” di fronte alla visita di giovani studenti ad Auschwitz, come si fa a discutere? Anche questo, secondo me, è un elemento allarmante, perché anche questo può condurre a crisi di una democrazia. L’impossibilità del confronto.

Si sente la mancanza di Papa Francesco?
Manca certamente, manca il suo carattere profetico, sebbene il suo successore Papa Leone si muova in continuità sulla linea della pace nel mondo agiscono in modalità diversa; Ricordiamoci che Papa Leone è un agostiniano.

Una domanda sulla “sinistra”: campo largo, come definizione, ha detto che è una cosa grottesca…
Già la definizione in sé è impresentabile! Come la democrazia non è da difendere ma da ricostruire, così lo è anche sua sorella, la sinistra: non è da difendere ma appunto, da ricostruire.

25 Ottobre 2025

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