Parola al professore
Intervista a Massimo Cacciari: “Gaza? Non è pace ma il fragile armistizio di Trump, Schlein faccia un governo ombra”
«È necessario a poter dire: volete vedere cosa faremo? Questi sono i programmi, questi sono i progetti, questi gli uomini e le donne che governeranno. Ci vogliono gruppi dirigenti conosciuti, stimati se possibile»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Professor Cacciari, l’Europa in ginocchio da Trump. Cosa racconta quell’immagine di Sharm el-Sheikh?
Lo stato delle cose. Ormai l’unica potenza occidentale che tiene, da tutti i punti di vista, sono gli Stati Uniti. Non vedo cosa rappresenti quell’immagine se non lo stato delle cose.
Pace non è sinonimo di assenza di guerra, ma qualcosa di più profondo e radicato…
La pace con quello che sta accadendo a Gaza, in Palestina, non c’entra assolutamente nulla. Qualsiasi sia l’accezione del termine pace, in questo caso non c’entra proprio niente.
Perché?
Perché in quell’accordo sciaguratamente definito di pace, non solo i buchi sono molti di più delle cose definitivamente sanciti. Basterebbe pensare alla ridicolaggine di dire che tra i quei venti punti c’è il disarmo di Hamas. Chi lo controlla, chi lo garantisce, chi va a vedere? Sono cose così, puro fumo negli occhi. L’unica cosa buona è che almeno per un certo periodo il massacro avrà termine. Ma quanto durerà questo armistizio? Perché il termine giusto tecnicamente per definire ciò che è stato siglato in Egitto è quello di armistizio. Ma le cause del conflitto, della tragedia, sono ancora tutte lì, anzi aggravate da queste inaudite vicende. Il fossato dell’odio si è reso ormai invalicabile. Tutti gli sforzi fatti per decenni per giungere ad un reciproco riconoscimento, sono ormai definitivamente falliti. Qualunque cambio anche di leadership, palestinese o israeliana, con quello che è successo non credo che possa colmare quel fossato di odio e di lacerazione tra i due popoli, e rendere reversibile ciò che oggi e per un futuro che non sarà breve, è e resterà irreversibile. Pace vuol dire patto. Patto fra contendenti che indicano una soluzione possibile del loro conflitto. Quello di Oslo-Washington poteva definirsi un patto, per quanto anch’esso parziale, di pace. Ma questa parola così importante non può essere spesa per il “Piano-Trump”. Patto significa sistemazione condivisa di un conflitto. E quale sarebbe questa sistemazione oggi? Dare qualche migliaio di dollari ai palestinesi per andarsene da Gaza o dalla Cisgiordania? O inglobare due milioni di gazawi e oltre due milioni e mezzo di cisgiordani nello Stato d’Israele, che si definisce Stato della nazione ebraica? I più ottimisti dicono che l’armistizio possa essere un primo passo. Me lo auguro, ma ho fortissimi dubbi in proposito.
In questi anni, molto prima di quel tragico 7 ottobre 2023, si è discusso tanto di “questione palestinese”. Ma la storia di questi due anni non ci dice che è aperta anche una irrisolta “questione israeliana”?
Le due cose sono tra loro strettamente connesse. Fintantoché non si raggiungerà una pace vera, autentica, è del tutto chiaro che Israele non potrà godere di alcuna sicurezza. Che sicurezza può mai avere un popolo costretto difendersi da un nemico esterno-interno. E i palestinesi sono condannati ad una condizione di continua guerra. Non ci potrà essere alcuna sicurezza per lo Stato d’Israele fintantoché vi è una questione palestinese così drammaticamente irrisolta. E fino a quando i palestinesi, per un verso o per l’altro, saranno governati o da leadership corrotte o incapaci, come quelle dell’Autorità nazionale palestinese o dell’Olp, oppure da terroristi, è chiaro che pure per i palestinesi continuerà la tragedia.
Ma l’irrisoluzione di queste due questioni – quella palestinese e quella israeliana – non è data anche dall’atteggiamento del mondo arabo e islamico e da come questo mondo di “fratelli-coltelli” e le sue leadership hanno da sempre utilizzato strumentalmente la causa palestinese?
Assolutamente sì. È evidente. Come peraltro hanno utilizzato il terrorismo, i vari bin-Laden. Da dove veniva fuori bin-Laden? Era afghano, o palestinese? È un gioco in cui alcune potenze, anche del Golfo persico, hanno tutto l’interesse, anche attraverso i palestinesi, a indebolire il fronte occidentale. Mica sono occidentali. Continuamente ribadiscono la loro diversità. Dopodiché possono fare affari con gli Stati Uniti, con grandi company americane, ma perché mai queste potenze del Golfo dovrebbero occultare la loro alterità? Lo stesso vale per la Cina o l’India. Perché mai dovrebbero impelagarsi su queste questioni che non fanno altro che indebolire ogni giorno gli stessi Stati Uniti, perché gli americani non è che ne escano così rafforzati. L’immagine di Trump, certo, ma questa politica d’Israele non è certo gradita né a Trump né agli Stati Uniti in generale, né prima a Biden. Non è che una politica israeliana che ha ormai ha deciso di non risolvere in alcun modo, di non cooperare in alcun modo, alla soluzione palestinese, sia gradita al Governo americano. Lo indebolisce. E perché i paesi del Golfo dovrebbero essere favorevoli ad una pace? Se la questione resta aperta, bene. Indebolisce Israele, indebolisce l’Occidente. Vedi anche la posizione della Cina. Tutto sommato neutrale su questa questione. Si sono stracciati le vesti per i massacri di Gaza? Non mi risulta. Perché dovrebbero farlo? Bene, che si massacrino. Ma anche la Russia. Cosa ha fatto per i palestinesi? Cosa avrebbe fatto invece l’Unione Sovietica di fronte a un massacro come quello di Gaza! Mi lasci aggiungere una considerazione storico-politica…
Prego.
Israele negli anni ’60 -’70 fu attaccato dagli Stati limitrofi, dall’Egitto, dalla Siria, fu una guerra vera e propria. Oggi è altra cosa. Per tornare al discorso delle grandi potenze. L’India, la Cina, tutte le potenze extra occidentali, se ne fottono dei palestinesi. Hamas colpisce Israele, Israele è sempre debole, gli Stati Uniti devono, sempre più faticosamente, sostenere la causa israeliana, ma sempre meno volentieri.
Professor Cacciari, che piazze sono state quelle che si sono mobilitate per Gaza?
Sono le piazze delle manifestazioni contro i vari G8o G7. Le manifestazioni contro le forme assunte dal processo di globalizzazione. Proteste che avranno il peso che avranno, cioè praticamente nessuno, ma che tutto sommato dimostrano anche una sensibilità diffusa di un certo tipo soprattutto da parte dei giovani. Bene, meno male che almeno quelli ci sono. Dobbiamo smettere di avere nostalgia di quando l’Italia contava qualcosa e di quando, di conseguenza, in Italia c’erano dei leader politici degni di questo nome. Dobbiamo smettere di coltivare queste assurde nostalgie. Tutto sommato in Francia non stanno meglio e né stanno meglio neanche in Germania. È fisiologica la cosa. Le classi politiche o nascono da grandi conflitti, rivoluzioni, guerre civili, oppure nascono da potenze anche economiche, culturali, tecnologiche.
In una situazione di crisi complessiva dell’Europa, quale leadership vuoi avere. E da questo punto di vista non è che negli Stati Uniti se la passino granché meglio. È un problema che riguarda complessivamente l’Occidente. Gli Stati Uniti dimostrano di saper tenere, in un modo o nell’altro. Lì c’è un fondamento, c’è una struttura, c’è una architettura che tiene. In Europa mi pare che ormai siamo davvero agli sgoccioli.
Perché quando un leader politico o una forza politica “frequenta” la piazza, ecco subito alzarsi qualcuno a dire: così si dimostra di non avere una cultura di governo.
Una storia vecchia come il cucco. Quelli che governano hanno sempre detto a quelli che si oppongono al governo di non avere una cultura di governo. È un refrain. Una comica. Però, in realtà, quelli che attualmente fanno l’opposizione non mostrano una cultura di governo. Su nessuna delle questioni fondamentali – economiche, fiscali, politica estera etc. – vi è da parte delle attuali opposizioni un’alternativa di governo, progetti e programmi di governo. Cosa dovrebbe fare una opposizione degna di questo nome?
Bella domanda. E la risposta?
Quello che una volta facevano le opposizioni in Inghilterra. La fase della vera alternanza, del bipolarismo dell’alternanza. Cosa facevano i laburisti o i conservatori quando andavano all’opposizione? Davano vita a un governo-ombra. Era la prima cosa che facevano, con dei responsabili. E una volta che tornavano al governo c’era già un governo pronto che fino a quel momento era stato tale dall’opposizione.
Una idea che alla fine degli anni ’80 ebbe anche il Partito comunista italiano di gloriosa memoria. Giustamente. Vogliamo cessare di fare opposizione, è giunto il momento di andare al governo. Bene. E fecero il governo-ombra. Ciò significa che ti strutturi con delle responsabilità con dei ministri-ombra. E li fai conoscere alla gente. Fai conoscere loro e i loro programmi all’opinione pubblica. Con convegni, con conferenze, con iniziative pubbliche, con manifestazioni anche di studio, di analisi. Fai così. Ma se mi chiedi chi sono i dirigenti del Partito democratico, io ti dico la Schlein. Gli altri non li conosco, neanche uno. Non so chi siano. Le sembra che questa sia una opposizione di governo? È vero, non c’è una opposizione di governo. Perché il “governo” non è avere uno straccio di idea. “Governo” è essere organizzati per fare un domani il governo. Questo va oltre la solita trita diatriba “riformisti” / “massimalisti“…È evidente. Vuoi vedere il mio governo domani cosa sarà? È questo. Questi sono i suoi programmi, questi sono i suoi progetti, questi sono i suoi uomini e donne. Un governo non lo fa un capo. Neanche Mussolini, neanche Hitler. La storia non è il “capo”. Neanche in quei casi estremi è il capo che fa il governo.
Ci vogliono gruppi dirigenti, conosciuti. Conosciuti, stimati se possibile e apprezzati dalla gente. Forse voi giornalisti conoscete i dirigenti del Partito democratico, ma è poca roba davvero.