Collaborazione stretta con la Libia
Dai tagliagole libici ai talebani in Afghanistan: von der Leyen pronta a “collaborare” con tutti per cacciare i migranti
La commissione incontra i leader di Tripoli e Bengasi per parlare di gestione dell’immigrazione e protezione dei rifugiati. Von der Leyen chiede ai governi europei di mantenere la cooperazione e fornire sostegno operativo ai libici.
Politica - di Gianfranco Schiavone
La presidente della Commissione Europea Von der Leyen in una sua nota inviata ieri ai Governi europei ha affermato che “vista la situazione politica e di sicurezza del Paese, dobbiamo mantenere una cooperazione stretta con le autorità libiche e continuare a fornire sostegno operativo, in particolare per le operazione di ricerca e salvataggio”. Si tratta di una dichiarazione che ritengo di estrema gravità e che è in linea con quanto sostenuto dalla stessa Commissione nella conferenza stampa del giorno prima, 20 ottobre, quando aveva riferito di una riunione intercorsa tra i leader libici di Tripoli e Bengasi e la stessa Commissione europea che “ha permesso ai partecipanti uno scambio sui progressi e le sfide della gestione della migrazione, dei rimpatri umanitari volontari, delle indagini e della lotta al traffico di migranti e della protezione dei rifugiati in cooperazione con le agenzie dell’Onu”. (Agenzia Nova).
Non è in discussione il fatto che nell’esercizio delle sue funzioni in materia di politica estera dell’Unione la Commissione abbia colloqui anche con i poteri di fatto esistenti in Libia ,trattandosi di un Paese strategico per l’Europa. Tuttavia molti dubbi sorgono su come possa la Commissione discutere con tali poteri (ed in particolare con l’auto proclamato governo di Bengasi) su tematiche che riguardano la tutela di diritti fondamentali come il soccorso in mare di persone che fuggono dalla Libia per chiedere asilo in Europa, la “gestione della migrazione” (espressione vaghissima) in Libia, o i rimpatri dichiarati volontari (i quali, per essere definiti tali, richiedono che la persona possa effettuare la sua scelta in piena libertà e che il rientro avvenga in un luogo sicuro, diversamente si tratta di espulsioni mascherate).
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Particolarmente rilevante e delicato, come ho avuto modo di richiamare più volte è il tema dei finanziamenti e dei supporti forniti dall’Europa per la gestione delle migrazioni a paesi terzi che, come la Libia, risultano del tutto privi ordinamento democratico, impediscono controlli indipendenti a livello internazionale sulle azioni realizzate con i fondi ottenuti, e sono accusati sulla base di elementi di prova molto pesanti e precisi, di un numero incredibile di efferati crimini commessi da agenti pubblici (come nel caso Almasri) o da soggetti privati, con la tolleranza dei pubblici poteri. Le azioni criminali commesse ovvero agevolate o tollerate da uno Stato terzo utilizzando fondi e mezzi forniti dall’Unione Europea o da un suo Stato membro sollevano seri interrogativi sulla possibile sussistenza, dal lato europeo, di forme di responsabilità per complicità nella commissione di crimini. Anche un’operazione come il soccorso in mare, che è un dovere degli stati, può tuttavia presentare seri profili di violazione dei diritti umani se compiuto verso persone che stavano fuggendo dalla Libia allo scopo non di salvarli, ma di riportarli nelle condizioni di persecuzione e torture da cui stavano appunto fuggendo.
Non c’è alcuna “protezione dei rifugiati” in Libia, considerato che sia i governi di Tripoli che di Bengasi non hanno mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, e nemmeno hanno una qualche normativa interna che preveda anche solo un livello minimo di protezione ai rifugiati. Gli Stati dell’Unione e la Commissione hanno pertanto l’obbligo giuridico opposto a quello annunciato dalla Von Der Leyen, ovvero quello di sostituire la Libia nelle operazioni di ricerca e soccorso, anche nella cosiddetta area SAR libica, al fine di salvare dalla morte per naufragio il maggior numero di persone e nello stesso tempo sottrarle al destino di morte e di violenza che li aspetta in Libia.
Le ragioni di preoccupazione sulle scelte portate avanti da una Commissione sempre più sbilanciata su posizioni estremiste ed estranee al suo delicato compito istituzionale purtroppo non finiscono qui. Sempre nel corso della conferenza stampa del 20 ottobre, la stessa Commissione Europea ha infatti dichiarato di avere preso contatti «esplorativi» e «tecnici» con il regime dei talebani in Afghanistan per discutere delle modalità per rimpatriare i cittadini afgani divenuti irregolari perché la domanda di asilo è stata rigettata in via definitiva o per qualunque altra ragione, come ad esempio aver ricevuto un provvedimento di espulsione a seguito di condanne penali per crimini di una certa rilevanza.
L’iniziativa della Commissione fa seguito a una lettera indirizzata al commissario europeo per gli affari interni e la migrazione Magnus Brunner, promossa dal Belgio e firmata da ben venti paesi dell’UE (Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Slovacchia e Svezia) oltre alla Norvegia. Nella lettera si lamenta il fatto che attualmente non risulta possibile deportare gli afghani, anche quelli che hanno commesso dei crimini, a causa della mancanza di un accordo formale di rimpatrio con l’Afghanistan dopo la presa del potere da parte dei talebani nel 2021. Nella prima metà del 2025 gli afghani sono stati il secondo gruppo (42mila domande) per nazionalità tra le richieste d’asilo presentate nei paesi dell’Unione (dati EUAA, 9 settembre 25). La questione potrebbe a prima vista apparire ragionevole e limitata a pochi casi relativi ad alcuni seri profili criminali e non a caso gli stati che hanno sollevato il problema hanno fortemente sollevato sul piano mediatico questo profilo. Tuttavia il quadro è molto più complesso e opaco per le ragioni che cercherò di illustrare di seguito.
Iniziamo dalla questione su cui è più facile costruire un facile consenso che è quella delle persone che hanno commesso dei crimini considerati ostativi al riconoscimento della protezione internazionale o che hanno portato alla revoca della stessa. È possibile almeno in questi casi il rimpatrio delle persone coinvolte in Afghanistan? Sul piano giuridico mi sentirei di dire di no perché l’Afghanistan è un paese nel quale non v’è alcuna garanzia di giusto processo, nessuna divisione di poteri tra esecutivo e giudiziario, e il rischio di essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani e degradanti è talmente elevato da risultare pressoché una certezza. Il divieto di tortura di cui all’art. 3 della CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) è un divieto assoluto, mai derogabile in alcuna situazione, neppure in caso di guerra (CEDU, art. 15).
Con costante giurisprudenza, fin dal caso Ahmed c. Austria del 17 dicembre 1996 (vedasi tra le molte sentenze in materia il caso Saadi c. Italia del 28 febbraio 2008) la Corte di Strasburgo ha affermato che la tutela del diritto ad essere protetti contro la tortura non può retrocedere in nessuna circostanza, neppure di fronte a rilevanti considerazioni di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale. Ovviamente lo Stato di accoglienza ha pieno diritto di proteggere la propria comunità da soggetti pericolosi adottando tutte le misure opportune, ma non ha il diritto di esporre tali persone al concreto rischio di tortura. È un confine invalicabile che ci siamo dati che definisce la nostra identità come comunità democratiche.
La questione in gioco tuttavia è ancor più ampia e scivolosa perché tanto le missive degli Stati UE sollecitanti, che le dichiarazioni della Commissione Europea, non fanno affatto riferimento solo ai casi dei cittadini afgani coinvolti in procedimenti penali (di cui altresì non si definisce in alcun modo la gravità) ma anche in generale a tutte le domande di asilo degli afgani che risultino respinte. Il tasso di riconoscimento delle domande di asilo dai cittadini afgani è tra i più elevati della media europea (l’80,5% già in prima istanza secondo i dati forniti da Eurostat relativi al 2024) preceduto solo dalle domande dei richiedenti dell’Ucraina, Venezuela e Siria; rimane tuttavia pur sempre una percentuale di rigetti che riguardano migliaia di persone e che, se non impugnati possono esporre gli afgani a gravissimi rischi di espulsioni illegittime.
Ciò che viene richiesto nella lettera dei venti stati europei, per quanto è a conoscenza di chi scrive (la lettera non è stata resa pubblica) non appare dunque legittimo, perché si chiede in buona sostanza di violare uno dei principi inviolabili del diritto europeo. Compito della Commissione quale custode dei trattati dovrebbe essere quello di richiamare gli stati al rispetto dei loro obblighi giuridici, pertanto non dovrebbe rilasciare dichiarazioni come quelle del 20 ottobre, né soprattutto dovrebbe poter avviare trattative con il governo dei talebani su possibili accordi di rimpatrio in Afghanistan dei cittadini di quel Paese.