Gli eccidi dei nostri giorni

Riscrivere la storia per non soccombere ai nazionalismi

La reazione sterminatrice all’eccidio del 7 ottobre “viene da lontano”, è l’epilogo di un processo di “disumanizzazione dei palestinesi”.

Esteri - di Massimo Donini

16 Ottobre 2025 alle 15:30

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AP Photo/Alex Brandon
AP Photo/Alex Brandon

Una delle esigenze più urgenti di ogni generazione è di non accettare supinamente la narrazione dei fatti. Di quelli quotidiani descritti dalla stampa che, in larga misura produce, con iniezioni di conformismo somministrato a ondate, racconti, sentimenti, ideazioni di segno uguale, chiamate alla identità nazionale o religiosa, e poi di quelli del passato, anche lontano e davvero storico. Abbiamo l’urgenza di riscrivere la storia, e di non accettare i vostri, i nostri stessi racconti, quelli di storici professionisti, esperti, insegnanti, intellettuali di regime e non, giornalisti.

Per capire quanto ciò sia importante è tuttavia normalmente necessario vivere un tempo sufficiente per comprendere quante giravolte conosce il racconto e la mente del suo autore. E viceversa, quante immobili e supine accettazioni del passato remoto ci ottenebrano la visione del presente: perché ciò che crediamo di vivere è sempre il prodotto delle ricostruzioni del passato. Capiamo così che davvero la descrizione è rivoluzionaria, perché non è mai veramente obiettiva, neppure la nostra. Senza aderire alle tendenze alla cancellazione del passato, al moralismo che giudica tutto il tempo trascorso e i suoi protagonisti con i criteri di valore oggi in voga, non possiamo tuttavia soltanto “farcelo raccontare”. Se non lo riscriviamo in qualche modo abbiamo fallito il compito della nostra generazione.

Un esempio. Milioni di fedeli ascoltano ogni domenica a messa letture dell’antico Testamento che accostano il racconto di Sion e dell’ebraismo a quello del Cristianesimo. Eppure, il Dio cristiano è davvero universale, come la religione che ispira. Invece Jahvè è il Dio di una religione e comunque di una cultura nazionalista. L’eredità di queste due culture la vediamo anche oggi, spesso contrapposta. L’invenzione del popolo ebraico, come narrata magistralmente da Shlomo Sand (Rizzoli, 2010), è una costruzione nazionalista di una identità, di un mito. Questo libro sul nazionalismo in generale è particolarmente istruttivo per quello ebraico, perché rende storiograficamente evidente che i nazionalismi non sono mai stati terreno di coltura dei diritti fondamentali.

Al contrario, l’affermazione delle identità nazionali ha prodotto e intensificato prassi di guerre che hanno sempre bilanciato le vite individuali di milioni di persone con i valori e gli interessi delle nazioni, delle patrie, degli Stati. Il conflitto irriducibile tra Israele e Palestinesi, oggi, ci mette di fronte, in una scala più ridotta dei conflitti mondiali passati, una realtà che solo adesso riusciamo a vedere con più lucidità. Se già qualche settimana dopo il 7 ottobre 2023 era possibile descrivere la reazione israeliana come sproporzionata e da sottoporre al vaglio del diritto internazionale umanitario (v. il nostro articolo sull’Unità del 4 novembre 2023), oggi perfino la nostra presidente del Consiglio afferma la “sproporzione” della reazione israeliana. E così la stampa legittimista ha aperto gli occhi, da qualche settimana. Praticamente con due anni di ritardo. Anche il Papa ricorda la sproporzione tra i 1200 morti del 7 ottobre e gli oltre 60.000 palestinesi: e la sua voce è ben più importante di quella di qualsiasi politico italiano. Eppure, senza entrare ora nella questione del rapporto tra genocidio e crimini contro l’umanità, questo orribile eccidio viene da lontano.

I palestinesi sono considerati come esseri umani di serie B, da molti decenni, in Israele. La cultura dei diritti fondamentali è stata sempre recepita verbalmente, ma non praticata, perché non è nel dna di una religione nazionalista, che nelle stesse parole di Netanyahu, coltiva ancora oggi l’eredità di Amalek (il “nemico”), quando gli Amaleciti, nella narrazione biblica (1 Samuele, 15-30), dovevano essere sterminati fino all’ultimo nato e all’ultimo animale da cortile, consumandosi un vero genocidio narrato (anche se non sappiamo se mai davvero praticato) e imposto dalla stessa volontà di Jahvè, che punisce Saul perché non ha obbedito fino in fondo nell’attuare uno sterminio totale. Se non è storia, è comunque la radice mitica di una immaginazione ancora presente. È duro pensare di riscrivere anche questa storia nel suo significato per cristiani ed ebrei, ma solo chi coltiva davvero universalismo e diritti fondamentali ha le carte in regola per poterlo fare. Senza dovere per forza dare ragione all’«eretico» Marcione, che radicalizzò la indubbia distanza tra Antico e Nuovo Testamento, è per noi necessario ripensare a queste radici, culturali e religiose insieme, del nazionalismo ebraico. Dal 1948 si è consumata, con alterne vicende, una progressiva emarginazione del popolo palestinese.

Come è stato rilevato di recente dalla giornalista israeliana Orly Noy (il Manifesto, 7 ottobre 2025: “un genocidio non nasce dal nulla”) anche di fronte a un eccidio come quello del 7 ottobre non è pensabile che una reazione così immensamente sterminatrice trovi la sua spiegazione solo nell’atto terroristico di quel giorno. È una reazione che “viene da lontano”. Anche se non la si dovesse qualificare come un’operazione con finalità genocidarie, ma solo oggettivamente di sterminio strumentale, essa rappresenta l’epilogo di un processo di “disumanizzazione dei palestinesi” durato decenni. A un certo punto di questa evoluzione, la disumanizzazione ha assunto il volto di quella che può essere chiamata una politica e una prassi di apartheid; ed è da qui che si sono prodotti radicali e più gravi esiti. Prendere atto di ciò, significa provare a riscrivere la storia occidentale di Israele, ma in parte anche la nostra. È un compito che ci attende. Un dovere di conoscenza, prima che di appartenenza. Senza la nostra verità, noi apparteniamo alla narrazione falsa altrui.

Il compito di riscrivere la storia è molto più universale, e non è delegabile ai tuttologi che ogni giorno piroettano le cronache, perché non ci faremo più raccontare nulla, senza grande cautela, da chi sul presente ha dimostrato così gravi pregiudizi. È urgente rileggere il rapporto tra i nuovi nazionalismi (America First e la Grande Russia) e il crollo dei diritti fondamentali, tra il rifiuto tradizionale, da tutti sottovalutato, delle grandi potenze di sottoporsi alla giurisdizione della Corte penale internazionale e le loro attuali politiche, che segnano una linea di continuità con quel rifiuto: perché solo chi vìola o intende violare i diritti fondamentali non può accettare, per principio o per prudenza, una giurisdizione che ha lo scopo fondamentale di proteggerli. Sarà una istituzione che ha una sua politica, con i limiti che ciò comporta, ma l’alternativa alla CPI è ritornare a Vestfalia.

Riscrivere la storia diventa così un’arma politica importante. Tra qualche tempo potrebbe essere oggetto di censure e controlli, di sanzioni informali. Come la giurisdizione è sempre più oggetto di controlli politici, così potrebbe accadere per la narrazione e la interpretazione dei fatti. Non avevamo pensato mai che avere opinioni diverse potesse diventare anche qui l’inizio di possibili emarginazioni o persecuzioni. Divisioni sì, è normale, ma siamo sicuri che ci si potrà fermare a questo? Nel tempo presente in cui sembra che lo stesso Stato di diritto e dei diritti sia in discussione (assai più che in crisi) l’urgenza di controllare criticamente la politica e i movimenti collettivi di opinione ci impone di rileggere le origini per riappropriarci delle radici della nostra identità. Ci sono compiti che spettano a chi ha tempo e competenze per riscrivere la storia, ma alla fine la trasmissione di nuove letture dovrà coinvolgere tutti. Noi seguiamo il metodo democratico, ma sul terreno delle conoscenze non vale il principio di maggioranza, perché anzi, il principio maggioritario è esattamente un limite allo spirito di verità.

La storia dei nazionalismi, per cominciare a riflettere, è un momento importante di riappropriazione collettiva: dall’idea di patria a quella di nazione e di popolo. La storia dei diritti fondamentali segna un momento di rottura di tutte le ideologie e le retoriche nazionali. È un limite, ma anche il fondamento della rinascita dalle macerie delle guerre mondiali. C’è bisogno di vedere gli eccidi a cui stiamo assistendo per capire veramente? Ecco, ora che ne abbiamo vari dinanzi a noi, capiamo finalmente che i diritti e i valori non sono solo dei popoli, ma delle moltitudini e dei singoli. Non facciamoci più ingannare da chiamate identitarie nazionali: vanno bene per lo sport, non per i diritti dell’uomo.

16 Ottobre 2025

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