Il diritto alle armi
Bisogna smettere di fare la guerra, nessuna proporzione è possibile
L’uso delle armi per risolvere i conflitti va delegittimato. La logica del nemico rifiutata. Ricominciamo dai diritti delle persone e delle moltitudini, e non solo dei popoli o delle nazioni, per affermare un “ius contra bellum”
Editoriali - di Massimo Donini
Vorrei cominciare questa riflessione sull’attuale conflitto armato fra Israele e il terrorismo di Hamas con una citazione sulle origini del diritto internazionale umanitario, tradotta da M. Cherif Bassiouni, Introduction to International Criminal Law, 2nd ed., Njhoff Publishers, 2012, 30-32: «Il punto di partenza è la Cina del V secolo a.C. con gli scritti di Sun Tzu sull’Arte della guerra, che raccomandava il trattamento umano di malati, feriti, prigionieri e civili e il rispetto delle istituzioni religiose nei Paesi occupati [omissis].
In India, un secolo dopo Sun Tzu, si è scoperto che il Libro di Manu 109 conteneva gli stessi ammonimenti. Anche altre civiltà hanno abbracciato gli stessi ideali. Ciò che è particolarmente significativo è che gli ideali espressi in Cina, India e Sud America erano indipendenti l’uno dall’altro e non il prodotto di una migrazione di idee. Allo stesso modo, in Europa questi ideali si sono evoluti indipendentemente da qualsiasi collegamento intellettuale con quelli sviluppati nelle altre civiltà sopra menzionate.
Le civiltà europee, tuttavia, hanno beneficiato della fecondazione incrociata (“cross-fertilization”). Erodoto, ad esempio, racconta le guerre tra Atene e Sparta, e tra queste e i Persiani, deplorando la condotta dei barbari quasi sulla stessa base di alcuni dei valori e degli ideali contenuti nelle civiltà precedenti e più lontane di cui sopra. Indipendentemente da ciò che si era sviluppato nelle pratiche della Grecia e poi di Roma, la civiltà islamica del VII secolo d.C. espresse e praticò questi stessi ideali.
Essi furono trasformati in prescrizioni specifiche derivanti dalla Sunna del profeta Maometto, e perseguite dai suoi primi due successori, Abu Bakr e Omar Ibn el Khattab. Queste prescrizioni musulmane trovarono spazio nel pensiero e nella pratica dell’Europa occidentale (cristiana). Ciò avvenne come risultato di quasi 300 anni di occupazione musulmana in Spagna e nell’Italia meridionale, influenzando gli scritti di Vitoria, Suarez, Ayala e Gentili, che furono tra i fondatori del diritto Internazionale europeo.
Questi capostipiti, e più tardi Hugo Grozio e altri come Pufendorf, Burlemaqui e de Vattel, hanno prodotto una sintesi storica tra ciò che i romani chiamavano jus in bello e jus ad bellum, che combinava i valori del diritto naturale nella loro concezione platonica/aristocratica, e la loro controparte cristiana espressa negli scritti di Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino, dando vita al Codice cavalleresco nel Medioevo europeo e, successivamente, allo sviluppo del diritto internazionale umanitario contemporaneo. Questi esempi sono solo frammenti dell’evoluzione dei valori umani e sociali che hanno portato al diritto internazionale umanitario contemporaneo».
I principi e le regole del diritto umanitario, che limita il diritto di guerra, si applicano ovviamente anche ai conflitti armati che siano “guerra” in un significato esteso: perché è evidente che è in corso una guerra di uno Stato contro un gruppo terroristico, armato forse da finanziamenti del Qatar; e che c’è un solo Stato in azione diretta, appoggiato militarmente da altri Stati, ma (per il momento) non contro uno Stato. Lo stesso territorio oggetto principale del conflitto è controllato da sempre da Israele e la sua popolazione, unitamente a quella della Cisgiordania, non è mai stata capace di una politica che le permettesse di costruire uno Stato palestinese che Israele ha sempre osteggiato, rendendolo oggi e nel futuro quasi impraticabile a causa della capillare disseminazione di oltre seicentomila coloni israeliani anche all’interno di tutto il territorio principale della Cisgiordania.
I palestinesi, così, disuniti anche per incapacità propria, hanno semmai espresso terrorismo, ma non una politica costruttiva di uno Stato. E se ora una parte consistente degli abitanti di Gaza venissero costretti a uscire (sfollati, deportati, dislocati) per ragioni di ordine pubblico nazionale-israeliano, o per necessità oggettiva di sopravvivenza, la “depalestinizzazione” dei territori aumenterebbe ancora in modo evidente. C’è un disegno in tutto ciò? Se ci fosse, non sarebbe un disegno di pace, né di umanità.
Noi assistiamo impotenti, rappresentati da una politica internazionale appiattita su quella americana, che non è mai stata equidistante nel conflitto mediorientale (la maggior parte degli ebrei non israeliani vivono lì). L’equidistanza è anzi un tradimento. In tale stato delle cose, Israele o i media occidentali, di fronte a ogni critica all’evidente sproporzione della reazione armata in atto contro donne, bambini, anziani civili di Gaza (e non solo) – un bilancio di vittime quasi sestuplicato rispetto ai civili uccisi da Hamas il 7 ottobre – , sbandierano con studiata tempistica le immagini o le storie di qualcuna delle 1400 vittime del massacro del 7 ottobre 2023. Da che parte state? Siete antisemiti?
Chi critica gli eccessi è antisemita (ma anche i palestinesi sono “semiti”). Il conflitto armato viene enfatizzato come guerra anche per separare tutti attraverso la divisione tra amici e nemici. La vicenda Russia/Ucraina, vera guerra tra Stati, è un esempio ancora in corso di questa logica dispiegata, un warning a riesumare il nazionalismo identitario. Un tuffo nell’Ottocento, nel Risorgimento, o nella Resistenza. La chiamata alle armi del mondo occidentale, cointeressato per altre ragioni geopolitiche, è evocata ogni giorno.
Egualmente per l’adesione al patto con Israele ogni volta che la terra promessa sia messa in discussione: sono sempre eccezionali le esigenze di autodifesa preventiva, sempre esistenziali ed estreme le preoccupazioni ebraiche. Il modello americano post-11 settembre ha fatto scuola: una “guerra” totale, universale, contro il terrorismo, eliminando fisicamente i suoi capi ovunque fossero nel mondo, senza processo. Un destino minacciato a tutti gli esponenti di Hamas, con molte migliaia di “danni collaterali”.
Ora accade che ai giuristi spettino le qualificazioni delle condotte, ma anche il sostegno teorico alla tutela dei diritti. Non possono restare neutrali di fronte ai diritti e ai doveri (v. l’appello dei giuristi inglesi reso noto da The Guardian, 27 ottobre e il pur distinto appello dei docenti dell’Alma Mater per il cessate il fuoco). Devono allontanare la prassi e la teoria per le quali inter arma silent leges e i nemici non hanno diritti.
I diritti, invece, sono di tutti, sono delle persone. Gli Stati hanno oggi molti doveri, più che diritti: hanno doveri nazionali e internazionali, doveri di protezione, certo, ma anche di umanità nei conflitti armati. E le vittime dell’Olocausto non sono giustificate per sempre nel vittimizzare gli altri: occorre liberarci non solo dai fantasmi del nazifascismo o del comunismo, ricordandoli, ma anche dal mito vittimistico perenne di un popolo che deve abbracciare finalmente il diritto internazionale, dopo millenni di persecuzioni e assenza di cultura dello Stato a favore di quella della nazione.
Perché qui sono in campo persone senza Stato, e persone che rappresentano uno Stato che è mancato per millenni e in nome della propria nazione nega da sempre il diritto all’esistenza di un altro Stato. È in campo un nazionalismo che, per responsabilità di tutti, nella storia ha rappresentato la fonte culturale dei peggiori conflitti internazionali. Il nazionalismo è genocida quando si radicalizza. E la guerra è uno strumento di soluzione dei conflitti, “ripudiato” dalla Costituzione italiana (art. 11), che mette sempre in discussione la possibilità di reazioni proporzionate, come tali giustificabili.
I giuristi sanno che si può tentare di misurare la proporzione nei rapporti tra persone fisiche, nella legittima difesa, ma appena si esce da dimensioni di microeconomia dei diritti, o dal raffronto tra le sanzioni di singole fattispecie, le misure sfumano, e la proporzione non riesce a essere un mezzo tecnico preciso, fondante. Tuttavia, in un conflitto armato militare se è almeno possibile vedere con sicurezza la sproporzione, ancor più chiara è la tipizzazione, non certo “numerica”, di atti illegittimi contro popolazioni civili.
In questo momento, è importante che i giuristi, e i politici, sostengano i diritti fondamentali, in ogni conflitto armato, sia in Ucraina e sia in Israele, ovunque. Sarà l’inizio di un lungo viaggio, dove alla fine apparirà chiaro che applicare la proporzione alla guerra è troppo problematico, perché si riesce solo a definire quando essa manca. È probabilmente un argomento decisivo contro la guerra e l’uso di armi da guerra, ma non c’è altra via percorribile, se non quella della loro limitazione o delegittimazione.
Lo sviluppo del diritto internazionale umanitario è una speranza per l’umanità intera. Le sue origini ne spiegano la vocazione universale, che è limite a ogni radicalismo nazionalista o religioso. Una soluzione al conflitto mediorientale, troppo complesso per chiunque, se si troverà, dovrà realizzarsi attraverso una politica umanitaria dei diritti di tutti. È qui che l’opinione e la tecnica del giurista passa il testimone alla politica. Certo, i diritti e i doveri esigono strumenti giurisdizionali, più o meno coercitivi, e dunque anche una giurisdizione internazionale riconosciuta come la Corte penale internazionale (ICC dell’Aia): ciò che Israele, Usa, Cina, Russia non accettano, per mancata sottoscrizione o ratifica del Trattato di Roma.
Ma non sono le sanzioni penali, peraltro oggi possibili solo contro gli individui, e non contro gli Stati, che possono fare paura. È il valore culturale e simbolico di un movimento politico di massa, è la forza trascinante di élites illuminate, è una geopolitica ispirata alla moderazione e alla autolimitazione dei profitti, della vendita di armi e della spartizione delle aree di influenza. Forse è chiedere troppo.
Tuttavia, se si ricomincia dai diritti delle persone e delle moltitudini, e non solo dei popoli o delle nazioni, si potrà un giorno affermare un ius contra bellum, un diritto di opporsi alla guerra, di cui pochissimi parlano oggi e che si affaccia nella perdita di consensi di un governo israeliano così radicalizzato e divisivo.
Ma molto prima di vedere questa utopia farsi pratica, non dovrà mai più accadere che una politica umanitaria, solo perché invocata anche dai “nemici” (come è il caso di Hamas che ha chiesto l’intervento dell’ONU), risulti delegittimata. La logica del nemico è ciò che chiediamo ai media, al Parlamento, al governo, agli intellettuali, ai giuristi, ai cittadini, di rifiutare e combattere.
Perché in questa logica, per corresponsabilità di tutti, siamo oggi completamente immersi ed è qui che si alimentano le nuove forme di antisemitismo: perché non ne siamo corresponsabili e la reazione israeliana non segua Putin e Hamas sulla via della violazione del diritto internazionale e umanitario.