Il direttore di Limes
Intervista a Lucio Caracciolo: “Israele? Stato spaccato che rischia di saltare, per la prima volta ha la Turchia alla frontiera”
«Un paese in ebollizione che Trump ha portato fuori dal pantano. Netanyahu aveva detto che la guerra sarebbe finita solo con la liquidazione di Hamas, invece ha dovuto mettersi al tavolo con loro»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Gaza respira ma lo stop ai bombardamenti apre davvero una nuova prospettiva di pace? L’Unità ne discute con Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più autorevole rivista italiana di geopolitica, in questi giorni nelle librerie e nelle edicole con un volume di grande interesse e strettissima attualità: “Gli Stati d’Israele”.
Quale valutazione è possibile dare dell’accordo sulla prima parte del “Piano Trump” su Gaza?
Dipende se ce ne sarà una seconda o meno. Già, comunque, se le cose dovessero fermarsi qui, sarebbe importante, intanto per la liberazione di una quantità di persone e soprattutto per la possibilità di portare aiuti umanitari in misura decente a Gaza. Noi qui si può festeggiare, eccepire, dibattere, ma è a Gaza che prima di tutto bisogna cercare di sopravvivere. Per quanto riguarda il poi, è tutto ancora aperto. Certo che è molto significativo che in una guerra che Netanyahu ha detto doversi concludere con la liquidazione di Hamas, ha portato ad un primo accordo, sia pure delimitato, tra Hamas e Israele, quindi avendo al tavolo quello che avresti voluto liquidare. Era abbastanza scontato che l’obiettivo di Netanyahu fosse impossibile, solo che lui pensava di poter continuare la guerra ancora molto a lungo per restare anche al suo posto.
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Ma ora?
Ora credo che le ripercussioni saranno molto forti in entrambi i campi. Molti si sono accorti, guarda caso, che c’è uno scambio di prigionieri, non una liberazione di ostaggi, in una ratio di 100 a 1, dove da una parte usciranno quei poveretti che si trovavano intorno a Gaza il 7 ottobre 2023, e dall’altra escono circa 2mila persone, alcune delle quali ergastolani, alcuni certamente omicidi. Bisognerà vedere dove andranno, ma se una parte di loro, come è probabile, ritornerà a Gaza e comunque saranno nel raggio di controllo di Hamas, sono altri 2mila uomini per Hamas, che non credo abbia dei problemi di reclutamento, anzi, perché ormai nel campo palestinese è l’unico marchio, peraltro moltiplicato di valore dalla propaganda di Netanyahu. Abu Mazen è da tempo “missing non in action“. In questa storia non esiste proprio.
Al di là della manifestata aspirazione al Nobel per la Pace, come esce da questa complicata vicenda Donald Trump?
Ne esce bene, perché è stato capace di portare al tavolo parti che nemmeno si parlavano, o quantomeno fingevano di non parlarsi. Li ha portati al tavolo avendo alcuni obiettivi fissi molto chiari e netti…
Quali?
Primo, mai più tornare a combattere in Medio Oriente. L’America deve cercare di mantenere un equilibrio in Medio Oriente senza impegnarsi direttamente, anche se a quanto pare duecento uomini a Gaza li manderà, se si raggiungerà qualche accordo ulteriore. In secondo luogo, ricostruire la rete degli “Accordi di Abramo”, il che non è affatto semplice, e non solamente per gli effetti della guerra ma anche perché l’Arabia Saudita non è più quella che fece gli “Accordi di Abramo” e si è molto avvicinata, semmai, al mondo BRICS. Naturalmente questi accordi dovrebbero essere i più larghi possibili e comprendere tutta la regione, che va dall’Egitto alla Turchia. Il vero punto a mio avviso fondamentale dal punto di vista geopolitico è la Turchia.
Perché?
Beh, perché nel giro di pochi mesi si è piazzata alla frontiera d’Israele. È la prima volta nella storia universale in cui Israele si trova una potenza, e che potenza, alla frontiera: da una parte a Damasco e dall’altra a Gaza, e quindi anche in Cisgiordania. Questo dal punto di vista israeliano, secondo me, è il problema dei problemi. Tutto il resto con i palestinesi, in un modo o nell’altro, gli israeliani lo possono gestire. Ma se tra qualche anno la situazione dovesse peggiorare tra Turchia e Israele, e le premesse ci sono tutte, altro che Iran, questo sì che diventa un problema. L’Iran era lontano ed era un nemico di comodo, la Turchia, fra le altre cose sono i capi di Hamas, è alla frontiera ed è una grande potenza militare, e in più in eccellenti rapporti con gli americani. Gli americani hanno creato una intesa tra Qatar, Turchia, in qualche misura Egitto, che però non mi pare un attore esattamente autonomo, indipendente, gli attori che hanno gestito la partita.
Ciò cambia parecchio gli equilibri in Medio Oriente.
Focus su Israele. Fin qui, lei ha coniugato al singolare lo Stato d’Israele, ma nel ricco numero di Limes in questi giorni nelle librerie e nelle edicole, Israele statualmente è declinato al plurale: Gli Stati d’Israele, è il titolo del volume. Come ne esce Israele da questa storia?
Tutto quello che riguarda in genere il Medio Oriente e Israele in particolare, non ha soluzione. Il problema è cercare di risolvere problemi che non sono risolubili. Facciamo un esempio molto chiaro: Israele ha combattuto per 75 anni delle guerre più o meno importanti ma comunque brevi e basate su una sua superiorità, specialmente negli ultimi decenni, tecnologica, militare, economica, assolutamente inarrivabile. Il principio era quello della “manutenzione”, del “tagliare l’erba”, specialmente a Gaza. Ti arrivano un po’ di missili, tu gli dai una lezione facendo capire che potresti andare molto più in là, e dopo qualche settimana, massimo mese, ci si rimette in una postura di relativa tranquillità. A un certo punto, qualche anno fa, nei laboratori strategici, militari e dell’intelligence israeliani, hanno cominciato a sentirsi voci, naturalmente elaborare documenti, sul tema della vittoria decisiva, cioè: basta tagliare l’erba, vinciamo una volta per tutte. La cosa paradossale è che, primo, Israele non era mai stato in condizioni di maggiore sicurezza in tutta la sua storia come negli ultimi anni e decenni. Nessuna potenza araba, che peraltro non esistono più, poteva minacciarlo. L’Iran era un nemico di comodo, si sapeva comunque esserci un interesse reciproco ad avere un anti-Israele e un anti-Iran anche per ragioni di equilibri interni, ma nessuno pensava ad una guerra diretta contro l’Iran, che invece poi abbiamo visto, sia pure in misura controllata, avvenire e forse ci sarà ancora.
In questo quadro, s’inserisce la risposta al 7 ottobre.
Un tentativo di forzare la situazione, sull’onda del raccapriccio generale per quel massacro, per ottenere cosa? Un più Grande Israele, che però poneva e pone ancora Israele di fronte al dilemma di come possa ingrandirsi restando ebraico. Il tentativo del 7 ottobre era d’ingrandirsi restando ebraico, facendo fuori gran parte dei palestinesi e cacciando gli altri. Quello che forse è il risultato più importante del “Piano Trump”, se andrà avanti, il che è tutto da vedere, è di aver ristabilito il principio che i palestinesi di Gaza lì restano finché vogliono. E non parliamo della Cisgiordania, che poi è il vero problema.
Questo significa che lo “Stato” dei Ben -Gvir e dei Smotrich, esce pesantemente ridimensionato nelle sue dichiarate e praticate aspirazioni?
No. Perché le aspirazioni di Smotrich, Ben-Gvir e di molti altri in Israele, si basano su una fede, su un senso di missione, che non è razionale, non è politico, non è geopolitico. È semplicemente io devo fare quello che Dio mi ha comandato di fare, costi quel che costi. Quindi si può parlare di Damasco, Baghdad, Nilo, Eufrate e tant’altre belle cose. Poi, però, una volta che hai detto questo, devi anche, in qualche modo, avvicinarti a questo ideale. E lì cominciano i problemi. Io penso che certamente né Smotrich né Ben-Gvir, né in generale il movimento dei coloni, non solo non prenderà bene il “Piano-Trump”, già a partire dalla sua prima fase di attuazione, ma non si fermerà per questo. Al di là di Gaza, che è un interesse relativo per loro, la questione riguarderà la Cisgiordania, alias Giudea e Samaria, dove però abbiamo un vuoto di potere palestinese, o meglio, abbiamo una banda criminale che si chiama Autorità nazionale palestinese, che taglieggia la popolazione e che è odiata, forse ancor più degli israeliani, tanto è vero che molti palestinesi dicono: beh, forse tutto sommato conviene che Israele ci annetta così ci liberiamo di Abu Mazen. La forza più popolare è Hamas, che però è una forza armata con una forte matrice islamista, e quindi non è accettabile come un eventuale, teorico partito dello Stato di Palestina.
E le tanto evocate istituzioni internazionali, come l’Onu e l’Unione Europea, anche queste “missing non in action”?
Lasciamo perdere, per carità di patria. Se definisce l’Unione Europea un organismo sovranazionale, a Bruxelles credo che gli girino parecchio le scatole. Non avendo una soggettività vera dal punto di vista internazionale, nessuno la prende in considerazione. Alcuni Paesi europei qualcosa hanno fatto ma direi più a causa delle proteste che si sono scatenate negli ultimi mesi, con qualche ritardo sul genocidio a Gaza, e che hanno creato una pressione dell’opinione pubblica anche in Paesi che hanno una storia di rapporti, anche tragici, con il mondo ebraico e con Israele, il che ha permesso a Trump di dire, qualche giorno fa, a Netanyahu: Bibi, Israele non può combattere contro il mondo, e Bibi, a capo chino, che dice: sì, sì. Vorrei aggiungere qualcosa sugli “Stati d’Israele”.
Prego.
Parliamo di “Stati”, perché dentro lo Stato d’Israele si sono create delle faglie che hanno carattere strutturale e che tendono a inasprirsi, a diventare sempre più gravi e a mettere quindi in questione l’unità e l’efficienza dello stato d’Israele. Mi riferisco in particolare alle liti tra militari e governo, tra servizi d’intelligence e tra essi e il governo. Caso clamoroso, il Mossad che si rifiuta di far fuori i negoziatori di Hamas a Doha. Se ci fosse riuscito, non avremmo probabilmente il piano di Trump, perché non ci sarebbero stati più negoziatori di Hamas. Con il subentro dello Shin Bet che non aveva grandi informazioni sul Qatar e ha fallito l’obiettivo. Questo forse è il caso più clamoroso, con la vendetta postuma di Netanyahu, che prende il generale Zini, un ultrà dell’ultradestra e lo mette a capo dello Shin Bet. A capo del servizio d’intelligence interno che peraltro ha una storia completamente diversa, essendo sempre stato, nel campo dell’intelligence israeliana, quello più aperto ad ascoltare le ragioni degli altri e a cercare soluzioni di pace, e che si trova oggi a essere guidato da un capo che considera Ben-Gvir un mollaccione. Altrettanto importante, sono le Forze di difesa israeliane, le Idf, con i maldipancia pubblicamente espressi da una buona parte della forza armata, naturalmente molto dai riservisti ma soprattutto dal Capo di stato maggiore, il generale Zamir, che ha detto a Netanyahu, e lo ha ripetuto in pubblico, che lui considerava sbagliata l’operazione di Gaza City che rischiava d’incastrare l’esercito israeliano, già abbastanza provato, in una guerra dei topi dentro i tunnel di Gaza, che non poteva finire bene. Questo per dire delle faglie che si sono aperte in questi due anni. Che si aggiungono a quelle storiche.
Vale a dire?
Da una parte, due componenti antisioniste, che sono gli arabi e gli ultraortodossi. Poi abbiamo il restante 60% circa della popolazione israeliana ebraica a sua volta molto divisa tra quel che resta, mi pare poco, del sionismo laico, e il crescente sionismo religioso con quelle punte che abbiamo citato, e soprattutto la crescita dell’influenza dei religiosi nel sistema israeliano, in particolare nel sistema scolastico. Stanno togliendo i finanziamenti alle scuole laiche, mettendo dei curricula marcatamene religiosi in tutto il sistema formativo. Tutto questo sta creando un Israele che chi l’avesse visitato venti anni fa, non riconoscerebbe più: in pieno movimento, in totale ebollizione e che sta rischiando l’osso del collo. Trump l’ha preso davvero per la collottola e l’ha tirato momentaneamente fuori dal pantano, ma ci sono degli aspetti strutturali che devono essere affrontati.
In Italia si è molto discusso sulla importanza e il segno delle manifestazioni che ci sono state. Da analista geopolitico ma anche da cittadino, come spiega questa grande mobilitazione per Gaza, che ha avuto i giovani come “inaspettati” protagonisti. Che cosa è scattato?
È scattato un riflesso direi più umano che politico, cioè l’insopportabilità delle scene di massacri di civili, di donne, di bambini. Una mattanza assolutamente indiscriminata e che in qualche modo è stata addirittura esaltata dallo Stato d’Israele. Una macchia che, specialmente per chi vuol bene a Israele, sarà difficile da dimenticare e da cancellare. Fin qui parla il cittadino.
E l’analista Caracciolo?
Credo che al di là del giudizio che si voglia dare su Flottiglie e dintorni, il fatto che grandiose manifestazioni di massa in Italia, con una forte partecipazione giovanile, il che è incoraggiante; manifestazioni, checché ne dica il governo, in grandissima parte tranquille e senza violenza, tutto questo ha contribuito a creare una certa pressione su Israele che, essendo un Paese certamente aperto ai media di tutto il mondo, salvo che a Gaza, recepisce queste cose. Quel che mi ha colpito, per quanto riguarda Israele, è che ci sono voluti quasi due anni per arrivare a delle mobilitazioni che forse si potevano fare prima. E anche il fatto che ancora oggi molti di coloro che avevano manifestato contro Netanyahu, prima del 7 ottobre, poi in realtà non si sono particolarmente smarcati dallo sterminio di Gaza. Questo dice anche il grado di odio o comunque di disprezzo degli arabi da parte d’Israele, qualcosa di troppo profondo e molto reciprocato dall’altra parte.
Quando si considerano subumani i nemici è molto difficile fare la pace.
Quale conclusione di questa conversazione?
Al fondo di questa guerra, dopo il massacro del 7 ottobre, che non ha bisogno di essere descritto e condannato nel suo orrore, c’è a decisione di Netanyahu, del governo da lui guidato e di quanti lo appoggiano, di considerare Hamas un nemico esistenziale, e quindi da “eradicare” come si dice. Il che logicamente dovrebbe presupporre che Hamas sarebbe in grado o sarebbe stato in grado di piantare la sua bandiera a Gerusalemme. Ora, non conosco, almeno in forma privata, un militare israeliano che abbia mai pensato una cosa del genere. La decisione di Netanyahu è stata indubbiamente legittima ma arbitraria rispetto alla realtà, che tendeva a cavalcare, a inasprire il conflitto, piuttosto che cercare di vincere la guerra. Che cosa significa vincere la guerra? Intanto non combattere la guerra di Hamas, ma combattere la tua. E in secondo luogo, limitare e operazioni a Gaza a quello che serve per stroncare il più possibile la parte militare di Hamas, liberare gli ostaggi, come Israele ha fatto mille volte in situazioni analoghe. Colpire in maniera mirata invece di mandare avanti le forze armate in pompa magna a liquidare gli “animali” di cui parlava Gallant. È stata una scelta, non una necessità. E questa scelta Israele l’ha pagata e credo che la pagherà ancora a lungo.